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Cor-rispondenze

lunedì 30 marzo 2020

A data da destinarsi


Meteo Cuneo: previsioni per oggi sabato 28 marzo | NEWS METEO.IT


Caro professore,
è un periodo molto strano. L’emergenza coronavirus ha costretto tutti noi a cambiare la nostra routine, a rivoluzionare le nostre vite. Certo, se ci pensiamo ci è andata anche bene: il mio bisnonno alla mia età era un partigiano, a noi è solo stato chiesto di restare a casa fino a data da destinarsi. Qualcuno non aspettava altro, qualcun altro l’avrà ormai accettato: io invece faccio parte di quelle persone che continuano a vivere male questa quarantena. Nella quotidianità ho sempre cercato di riservarmi uno spazio per dedicarmi a me stessa e ai miei pensieri, per scollegarmi dal mondo, per ritrovarmi. Quando però, dopo il decreto della settimana scorsa, questo tempo è diventato troppo, ho iniziato a dare i primi segni di cedimento. Sono una persona tremendamente riflessiva e la miriade di pensieri a cui mi sottopongo giornalmente non fanno altro che uccidermi. Cerco di impiegare il mio tempo come posso: cucino, leggo, scrivo, pratico sport per quanto ci è ora possibile, ma è come se tutti gli sforzi che faccio risultassero inutili. Tutti i giorni arriva quel momento in cui inizio a sentire lo stomaco sottosopra e gli occhi velati di lacrime: quando potrò rivedere le persone che amo? Quando potrò di nuovo giocare con i miei bimbi dell’oratorio? Quando potrò sentire finalmente qualcuno vicino? Ho paura che questo momento venga rimandato sempre più in là e che io non riesca a reggere, che crolli definitivamente. E possono dirmi quello che vogliono, ma una videochiamata non sostituisce un abbraccio. Internet ci ha reso sempre più connessi, ma non più vicini. D’altro canto, credo che in un mondo che premia l’individualismo, che esalta l’egoismo spregiudicato, essere costretti a stare soli con sé stessi ci porta a riscoprire l’enorme importanza dell’altro e della sua presenza, della sua vicinanza: senza i nostri affetti ci ritroviamo improvvisamente fragili, indifesi, impauriti. Spero che queste settimane possano servire a tutti noi per apprezzare di più il tempo che trascorriamo con coloro che amiamo, che sia una giornata intera o un “scendi due minuti che sono passato a salutarti”; spero che potremmo di nuovo riscoprire la bellezza di un abbraccio, di un bacio, di uno sguardo, che sapremmo finalmente amare fino in fondo l’altro e la sua fragilità. Nonostante queste considerazioni però i miei pensieri continuano ad ossessionarmi e distruggermi. Ma sono convinta che per gestirli serva solo un po’ di allenamento e forse è giunto il momento per iniziare a provarci.
A domani e buona serata prof!
Cristina, 3C


Cara Cristina,
È ancora un domani online, il nostro domani. Mi rendo conto che, non essendo abituati a questo tempo sincopato, possiamo vivere con disagio il confino. Ma le quarantene sono importanti: preservano la salute e la vita. Pensa che Nietzsche in Umano troppo umano affermava persino che «Le istituzioni democratiche sono istituti di quarantena contro l'antica peste delle voglie tiranniche». Le quarantene mettono dunque a freno gli impulsi violenti e placano l’impeto della malattia. Allora sono necessarie per preservare quel bene prezioso che ci è stato affidato alla nascita e che dobbiamo amministrare nel tempo. Il tempo della vita, in fondo, è un respiro lungo, una camminata che si snoda negli anni e talvolta richiede anche momenti di sosta forzata per arrivare lontano. Dobbiamo guardare a questo tempo in modo più positivo, come gli astronauti dell’Apollo 14 – credo gli ultimi ad essere stati messi in isolamento – che come tutti gli astronauti hanno atteso con responsabilità quella imprescindibile sospensione del tempo prima di mettere di nuovo piede sulla Terra e abbracciare i loro cari. Aspettiamo dunque nella nostra navicella casalinga, considerando le ore che scorrono lente come un momento necessario da vivere con piena coscienza. In fondo, di solito facciamo di tutto per indagare la nostra vita interiore: leggiamo pagine bellissime di letteratura e andiamo al cinema sia per accedere a nuove emozioni o per amplificare quelle che abbiamo timidamente avvertito, sia per scoprire le sfaccettature dei sentimenti. Ma poi ci dimentichiamo che abbiamo fatto tutto questo per la vita, per accrescere la nostra sensibilità, il nostro ésprit de finesse, per poterla cogliere in modo più profondo e più vero. E ora che abitiamo la vita come un film, talvolta temiamo che quelle stesse emozioni possano danneggiarci e farci soffrire. Dobbiamo invece impiegare quella sensibilità impreziosita per resistere, per contrastare il male e non capitolare. Credo che sia importante recuperare anche un po’ la memoria della nostra storia individuale (e magari anche collettiva). Uno dei personaggi di Cent’anni di solitudine, José Arcadia Buendìa, aveva curiosamente deciso di costruire una macchina della memoria: ogni mattina ripassava tutte le nozioni acquisite nel corso della vita. Aveva immaginato un dizionario girevole manovrato con una manovella da un uomo posto al centro di una stanza, in modo che in poche ore potessero passare davanti ai suoi occhi le nozioni più necessarie per vivere. Gabriel García Marquez dice che era riuscito a scrivere circa quattordicimila schede. Chissà se in questo periodo in cui i nostri pensieri producono così tante radiografie esistenziali riusciamo anche noi a mettere a fuoco alcune «nozioni necessarie» per vivere. Perché, dici bene, è questione di allenamento.
Un caro saluto,
Alberto

lunedì 23 marzo 2020

Un altro giorno come ieri

Risultato immagini per cuneo oggi



Caro professore,
Sveglia. Lezioni online. Perdo tempo sul telefono. Mangio. Leggo un libro. Suono un po’ il pianoforte. Canto. Suono un po’ la chitarra.  Merenda. Telefono. Compiti. Cena. Film. Mi metto nel letto e imposto la sveglia. Mi addormento. Ma in realtà la mia giornata non è proprio così. E' costantemente immersa di pensieri, affoga di malinconia, colma di sguardi che nessuno vede, di sospiri, immaginazione. Perché quando stai a casa il mondo prende la forma della tua cameretta, della cucina, del soggiorno, delle mura che racchiudono la realtà. E ti lasci cullare dai ricordi, dalle foto, ti lasci far prendere per mano dalla noia, dalla malinconia. “Cosa faccio appena tutto ciò finisce?”, ti chiedi. Io vorrei andare con la mia migliore amica a correre, studiare in gruppo, abbracciare mia nonna. Vorrei andare a ballare, ad una mostra, ad un concerto. Vorrei andare a fare la spesa con mia mamma, fare una sorpresa a qualcuno e poi abbracciarlo forte. Vorrei andare al mare, andare a fare shopping, comprare delle scarpe nuove, andare in biblioteca, camminare in montagna. Ho tanta voglia di fare, di riempire le mie giornate di novità, spensieratezza ed allegria. Ma per ora aspetto. Domani forse. O forse no. Per adesso oggi rimane un altro giorno come ieri.
Alice, 3C


Cara Alice,
La prima parte della tua lettera mi ricorda, nella scelta dello stile, una vita ritmata dall’organizzazione forzata, che scorre priva della sua musicalità. Ma la scrittura e la vita fluiscono parallele. Quando la vita non è contratta, anche la scrittura ha il suo respiro, le sue onde più o meno ampie che danno senso al suo fraseggio. E quello che accade oggi ha permeato così a fondo l’esistenza che ne ha fatto saltare la fluidità, la sintassi del senso. Da una parte la contrazione degli eventi personali, che si susseguono quasi separati gli uni dagli altri; dall’altra il mondo, oggi divenuto – come l’Ulisse di Joyce – un flusso di vita che ha scardinato il ritmo ordinario in cui eravamo soliti vederlo fluire. Giorni che sembrano uguali, ma che in realtà non passano, perché è cambiata la nostra condizione. Per comprendere questa mutazione ci vengono in aiuto i primi versi del secondo libro del De rerum natura di Lucrezio, quando l’autore, commentando un naufragio, scrive: «Bello, quando sul mare si scontrano i venti e la cupa vastità delle acque si turba, guardare da terra il naufragio lontano: non ti rallegra lo spettacolo dell'altrui rovina, ma la distanza da una simile sorte». Sarebbe stupendo contemplare da lontano e con distacco una sorte avversa che non ci coinvolge se non nella compassione. Invece abbiamo scoperto che la terraferma sulla quale pensavamo di poggiare è trascinata nella stessa rovina. E questa è la struttura dell’esistenza, che sentivamo al riparo da ogni sussulto non governabile e scopriamo invece essere implicata in un’incessante lotta contro forze che potrebbero annientarla. In questi momenti di difficoltà l’uomo rivive il proprio status, in bilico tra la vita e la morte, dove l’esito della battaglia con la natura non è mai scontato né la vittoria unilaterale o definitiva. Lucrezio esprime questa idea in versi bellissimi: «Né possono i moti funesti vincere per sempre né seppellire in eterno la vita, né, d'altra parte, i moti vitali posson sempre salvare da morte le cose create. Con pari fortuna e con forze eguali per tutti gli spazi continua così una guerra iniziata da tempo infinito. E vince la vita ora qui ora là, ed è vinta». Questa è la condizione della specie umana, sospesa tra fragilità e forza. È la stessa fragilità che ci ricordava Pascal quando, parlando della sproporzione tra il cosmo e l’individuo, affermava che «Non occorre che l’universo intero si armi per annientarlo: un vapore, una goccia d’acqua, bastano per ucciderlo». Sono parole che oggi capiamo perfettamente, perché definitivamente esposti alla consapevolezza della condizione umana. Abbiamo compreso che il mondo è un unico respiro e che una goccia d’acqua può attraversare i polmoni del mondo. E il respiro è fatto di due momenti, di inspirazione ed espirazione. Il dolore è il momento dell’espirazione, dove la sofferenza si manifesta soprattutto negli «sguardi che nessuno vede». Dai volti degli anziani che, morendo, non vedono e non sono visti a quelli di medici, infermieri e forze dell’ordine scomparsi di cui conosciamo approssimativamente solo gli sforzi e il nome. Indipendentemente dalle visioni con cui interpretiamo la vita, in quegli «sguardi che nessuno vede» si concentra la peggiore sofferenza dell’uomo. Se possiamo rassegnarci a fatica al nostro congedo dal mondo, vorremmo che non accadesse nell’assenza di commiato, strappati ad una relazione. Ma poi, per fortuna, c’è il movimento contrario a quello del dolore, quello dell’inspirazione, della speranza; quando il mondo rientra nel soggetto per volontà del soggetto. Non è allora così negativo che, provvisoriamente, «il mondo prenda la forma della cameretta». Per un certo tempo abbiamo gettato la luce della nostra ragione solo in avanti, come il faro della bicicletta, mentre ora, proprio a partire dalla cameretta, possiamo farla ruotare a trecentosessanta gradi su tutti gli aspetti della nostra esistenza. Per sentirne la caducità, dolorosa. E la bellezza che, allentando il dolore, libera la vita. Ci servirà, perché quando torneremo nel mondo, sapremo che di esso dovremo prenderci cura proprio come di quel piccolo luogo che, per ora, custodisce la nostra vita.
Un caro saluto,
Alberto

lunedì 16 marzo 2020

Un'idea di sé


Risultato immagini per chi sono io


Caro professore,
Ultimamente, anzi da molto tempo, cerco di avere un’idea complessiva di me attraverso il tempo e le situazioni. Vorrei dare un senso alla mia vita, non tanto in relazione al perché della mia esistenza, ma riguardo il mio essere attiva. Concretizzando i miei progetti posso determinare la mia esistenza, attraverso fatti concreti e non solo vaghi desideri. La scuola, la famiglia... sono solo alcuni tasselli che mi danno la possibilità di realizzarmi, ma dove? Come faccio anche avendo la possibilità, a essere cosciente di quello che sono sto diventando? Purtroppo non posso pensare che a una cosa per volta e mi manca la capacità di avere uno sguardo complessivo sul mio universo. Pensando al mio futuro immagino l'università, ma quest'ultima non sarà l'unica realtà nella quale muovermi. Insomma vorrei che la mia vita avesse un denominatore comune, ma quale? Per sopperire a questo problema allora mi fisso piccoli obbiettivi e stabilisco dei progetti da sviluppare in ogni singolo ambito della mia vita. Molte volte non sono capita e forse anche definita un'illusa, inconsapevole del fatto che ciò per cui lavoro non è che un inutile tentativo di modificare la mia identità di “muffa intelligente”. Desidero imporre la mia esistenza e identità ben consapevole che sia una tematica giovanile, e non per questo passeggera e inconcludente. Forse cado vittima della mia necessità di avere sempre un obiettivo al quale tendere (non riesco nemmeno a passeggiare non decidendo se girare poi a destra o sinistra) ma per mancanza di tempo (solo qualche decennio di vita) non vorrei correr rischio di perdermi per strada oppressa da aspettative altrui e controproducenti disillusioni accorgendomene troppo tardi.
Francesca, 3alfa


Cara Francesca,
Avere un’idea di sé attraverso il tempo e le situazioni è come chiedersi: chi sono io? o che cos’è questo io che cambia e ci accompagna tutta la vita?  Ma l’io è definibile come una cosa, un ente, un oggetto? Cartesio pensava di sì, pensava che l’io fosse ciò di cui noi non possiamo dubitare, riteneva che fosse la cosa più certa. Con il suo “Cogito ergo sum” (penso, dunque sono) la sua indagine sulla natura della mente era giunta ad un punto fermo: l’io è il soggetto che ci permette di riconoscere la nostra esistenza e di procedere poi sulla strada della conoscenza di noi stessi e del mondo esterno. Già, ma che cos’è questo io? Freud diceva che l’io, incalzato da istinti, realtà esterna e divieti, «non è padrone in casa propria», Sartre affermava che l’io «non è un abitante della coscienza», Milan Kundera nella sua Arte del romanzo scriveva: «Quanto più potente è il microscopio che osserva l’io, tanto più l’io e la sua unicità ci sfuggono. Ma se l’io e il suo carattere unico non possono essere colti nella vita interiore, dove e come li si può cogliere?». Ma allora come facciamo ad avere una prospettiva chiara del paesaggio della nostra vita se non sappiamo nulla di chi lo sta disegnando? Sartre ne L’essere e il nulla afferma che «La libertà umana precede l'essenza dell'uomo e la rende possibile, l'essenza dell'essere umano è in sospeso nella sua libertà. È dunque impossibile distinguere ciò che chiamiamo libertà dall'essere della "realtà umana"». Dire che la libertà umana precede l'essenza dell'uomo e la rende possibile significa sostenere che mentre l’essenza della libreria che ho qui davanti a me continuerà ad essere la stessa anche tra un’ora e in futuro, la nostra essenza (ciò che siamo) invece viene costituita gradualmente da noi stessi grazie alle azioni quotidiane. Sono le tue scelte che chiariranno chi sei – chi è Francesca. Potremmo dire che ogni giorno aggiungi un tassello alla tua essenza, una nota alla partitura musicale della tua vita. Questa partitura viene compilata insieme a te, non prima. Per questo gli uomini avvertono l’angoscia, che è più della paura di sbagliare o di fallire, perché sentono il peso della decisione di fronte alle alternative. Come fai ad essere cosciente di quello che [stai] diventando? Solo a poco a poco si rivelerà la tua natura. Potrai rimanere costante nelle decisioni che ritieni rilevanti o potrai scostare dalle indicazioni che ti sei data. Potrai rimanere fedele a certi valori e riconfermare le tue valutazioni, ma potrai anche decidere di orientarti in modo diverso. Ogni passo che farai ti aprirà una prospettiva nuova dinanzi. La prospettiva attuale è data dallo sguardo odierno; a seconda se ti sposterai in una direzione o in un’altra, con te cambierà anche l’orizzonte del paesaggio. Ma questo non significa che non ci sia un denominatore comune. Il «denominatore comune» delle tue attività è il modo in cui stabilisci relazioni, il modo in cui ascolti gli altri e ti prendi cura di loro. Quello che metti di tuo in tutto ciò che fai. Dalle attività scolastiche a quelle extrascolastiche, fai bene ad impegnarti e a stabilire «piccoli obbiettivi» e «progetti da sviluppare in ogni singolo ambito della [tua] vita». Ed è giusto che cerchi di «imporre la [tua] esistenza e identità», perché il tuo apporto in ogni campo è già fin da ora personalissimo e unico. La tua identità si manifesterà allora nel calore personale con cui seguirai le tue occupazioni; mentre nelle relazioni con le persone che incontrerai si riveleranno i valori che hai ritenuto importante ri-confermare nelle varie opzioni che la vita ti ha presentato.
Un caro saluto,
Alberto


lunedì 9 marzo 2020

Sentieri nel bosco


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Caro professore,
Spesso, andando a correre nel bosco, mi è capitato di provare nuove strade, nuovi sentieri che, inoltrandosi più nell’oscurità, fanno sorgere questioni come… “Ma starò procedendo nella direzione giusta?” o “E se mi perdo, se sbaglio, che faccio?”. Ecco, vorrei capire perché esiste quel “Se mi perdo, se mi sbaglio, che faccio?” e invece non si possa mai essere sicuri del proprio operato, della strada intrapresa. Di solito si sente la risposta “Perché si è in costante paragone con gli altri, con una realtà che è nostra ma non ci appartiene”, ma questo non mi basta…
Francesco 4h


Caro Francesco,
La vita è fatta più di sentieri che di strade o autostrade. Talvolta è solo considerando retrospettivamente la nostra esistenza che riconosciamo di aver effettivamente percorso una strada, mentre nel viaggio quotidiano che dà origine all’evoluzione personale è difficile comprendere anticipatamente se lasceremo una linea continua sul foglio della vita. Sia il movimento dell’umanità sia quello dei singoli individui si originano da sentieri immaginati e poi creati in aree che prima non sembravano praticabili. È facile e consolante, ad un certo punto della vita, fare un bilancio ed unire i puntini del passato in una narrazione coerente, ma molto spesso quando la nostra vita viene abbozzata, la direzione non è affatto chiara. E la tua domanda: “Ma starò procedendo nella direzione giusta?” è l’interrogativo che ciascuno porta con sé in ogni momento in cui deve compiere una scelta importante, perché le scelte danno direzione alla vita, ma ad ogni bivio la stessa questione si ripropone. E l’angoscia non si origina solo dalla responsabilità per aver intrapreso una via, ma soprattutto dal timore per la qualità della persona che potremmo generare. I sentieri della vita non sono come quelli che percorrono le biglie in circuiti predefiniti sulla spiaggia. Questi ultimi consentono a tutte quante di avanzare più o meno speditamente in una stessa direzione, mentre i sentieri della vita trasformano la vita, perché questa si genera insieme al sentiero. Non ci sono istruzioni. Se si sbaglia e ci si perde occorre trovare da soli un’uscita o aver la forza di creare una nuova strada. Credo che così si sia mossa un po’ tutta l’umanità. Nella storia della filosofia il bisogno di percorrere il sentiero giusto arriva da molto lontano. Eraclito e Parmenide si sono occupati della modalità con cui gli uomini conoscono la realtà. Eraclito ha parlato di due strade diverse che si aprono alla conoscenza e per indicarle ha fatto ricorso a due categorie di uomini: i dormienti e gli svegli; i primi non in grado di procedere oltre l’apparenza, i secondi in grado di cogliere una realtà più profonda con la ragione. E anche Parmenide – seppure con esiti opposti – ha rivelato due sentieri che si aprono all’uomo: quello della verità «ben rotonda» e quello del mondo dell’apparenza. Poi anche Platone ha tracciato uno snodo per la conoscenza: la «doxa», l’opinione e «l’episteme», la conoscenza razionale. Ma la filosofia ha percorso tante strade, aprendo innumerevoli direzioni non solo nella teoria della conoscenza, ma nel diritto, nell’etica o nell’estetica. Il mondo cristiano ha tracciato altri sentieri, che si riferiscono al rapporto tra l’interiorità dell’uomo e la trascendenza e così ha accresciuto la mappa della vita con il sentiero del peccato che si oppone a quello della virtù e quello dell’errore che ostacola quello della verità. Nell’Ottocento, esprimendo la solitudine dell’uomo che procede a tentoni poiché non si fida più delle grandi narrazioni del mondo, Nietzsche ha scritto: «Io batto nuovi sentieri, un discorso nuovo viene a me; mi sono stancato, come tutti quelli che creano, delle vecchie lingue. Il mio spirito non vuole più camminare su suole consunte». Ed è curioso che nel Novecento Heidegger nel 1950 abbia pubblicato un libro dal titolo Holzwege, ossia Sentieri interrotti, per far riferimento ad una svolta della propria filosofia. E poi chissà quanti sentieri ha intrapreso l’uomo, nella conoscenza scientifica, nelle strade che conducono alla democrazia, alla medicina o alle leggi. Ma tu chiedi perché esiste quella dimensione così angosciante riassunta nella domanda: “Se mi perdo, se mi sbaglio, che faccio?”. Credo che il peso di quella domanda non derivi tanto dal confronto con gli altri, ma dalla consapevolezza che la vita è irreversibile. Se la natura può generare infinite specie viventi e restare priva di quelle che non riescono bene, la vita dell’uomo è unica e il peso di sciuparla è troppo forte. Filone Alessandrino, nel De animalibus, racconta una storia che ci può essere utile. Scrive l’autore: «Un cane, nell’inseguire una fiera, essendo giunto a una profonda fossa presso la quale correvano due sentieri, uno verso destra, l’altro verso sinistra, fermatosi un attimo meditava quale prendere. Correndo a destra e non trovando alcuna orma, tornò indietro e andò nell’altra direzione. Ma poiché neanche in questa appariva alcun segno, saltando al di là del fossato indagò curiosamente, accelerando la sua corsa a seconda di ciò che gli diceva il fiuto». Forse anche noi facciamo un po’ così: là dove non troviamo più tracce che ci indicano la direzione, compiamo un salto che ci permette di creare una situazione nuova e magari di ritrovare il nostro obiettivo. Se si conosce la meta, una strada si genera anche quando ci si perde.
Un caro saluto,
Alberto

lunedì 2 marzo 2020

Il mio talento


Risultato immagini per galamian


Caro professore,
Vado bene in tutte le cose che faccio. Sono brava a scuola, forte sugli sci e ho tante amiche, ma in niente sono la migliore. Non sono una “secchiona” e neanche la campionessa italiana. Molte volte, soprattutto ultimamente, mi sono chiesta cosa devo fare per eccellere o più semplicemente domando a lei: “come faccio a  trovare il mio talento?”.
Martina, 3C


Cara Martina,
Andar bene in tutte le attività in cui si è coinvolti, da quelle scolastico-sportive a quelle affettivo-relazionali, è già un grande obiettivo concretizzato. Credo che la tua vita sarebbe invidiata e considerata felice dalla maggior parte dei filosofi che si sono occupati di definire che cosa sia la felicità. Ma forse tu aspiri a diventare “la migliore”, in qualche attività scolastica o nello sport. So che sei un’atleta e quindi comprendo il tuo desiderio di superare continuamente condizionamenti e barriere e la tua instancabile aspirazione al miglioramento. Uno dei temi più significativi affrontati dallo psicoanalista svizzero Carl Gustav Jung – come mettono in luce anche i suoi autorevoli interpreti Aldo Carotenuto e Umberto Galimberti – è stata la costante riflessione sulla tematica dell’individuazione. Si tratta di una forma di evoluzione personale che da Pindaro a Nietzsche è stata condensata nel motto «diventa ciò che sei» e che la psicoanalisi ha denominato «processo di individuazione». Cresciamo per processi imitativi e abbiamo bisogno di seguire dei modelli, ma poi ognuno di noi sente il bisogno di diventare unico e speciale. Ad un certo punto, dopo aver messo in atto molti meccanismi imitativi, ci scostiamo dai comportamenti collettivi per realizzare la nostra peculiare «individuazione», per fare della nostra vita una vita originale. Affinché ognuno possa «trovare il proprio talento», è pertanto necessario che conosca se stesso, le proprie potenzialità e le proprie capacità. E per fare questo deve coltivare le proprie predisposizioni. Spesso si impiega tutta la vita per allenarle ed affinarle. Lo psicologo americano Howard Gardner, negli anni Ottanta del secolo scorso, ha parlato di «intelligenze multiple», intendendo con questo concetto che l’intelligenza non è monolitica, ma proteiforme e si esplica in attività differenti. In altri libri successivi ha spiegato di aver utilizzato intenzionalmente la parola «intelligenza» al posto di «talento», affinché fosse chiaro che i talenti sono forme di intelligenza. Nel libro che lo ha fatto conoscere al grande pubblico, Formae mentis. Saggio sulla pluralità della intelligenza (Feltrinelli 1987), oltre a ricordare che il talento va continuamente perfezionato con l’esercizio («non si può diventare un grande scacchista, e neppure un giocatore mediocre, in mancanza di una scacchiera»), egli racconta anche una storia riferita al grande violinista del secolo scorso Ivan Galamian (1903-1981). Parlando delle attitudini musicali, Galamian aveva consigliato l’insegnamento del violino molto presto, a dieci o dodici anni, perché a quell'età – scriveva l’autore – « si può già riconoscere il talento, ma non... il carattere o la personalità. Se hanno personalità, diventeranno qualcuno. Altrimenti, almeno suoneranno bene». Questo significa che il talento è solo il punto di partenza di quel processo che porta a diventare se stessi. La parte più importante è data dal carattere e dalla personalità del soggetto. Come dire che non è neppure sufficiente «coltivare» le proprie doti, ma che occorrono parallelamente altre qualità: indipendenza, dedizione, attaccamento passionale; una sorta di consacrazione continua al proprio lavoro, che richiede abnegazione e capacità di sacrificio. Il violinista iraniano aveva pertanto adottato per sé il detto di Seneca: «Imperare sibi maximum imperium est», «Il dominio di se stessi è il massimo dominio». Per dominare se stessi, quindi,  non si deve allenare solo il talento, ma soprattutto il carattere. Pensando al talento, c’è una storia raccontata dallo scrittore italiano Stefano Massini nel suo straordinario Dizionario inesistente (Mondadori 2018) che mi sembra utile e allo stesso tempo divertente per la nostra riflessione. Massini racconta la meravigliosa storia dei due fratelli ungheresi, László e György Biro e del marchese Marcel Bich nella vicenda della nascita della biro a sfera. Un’idea venuta in mente a László Biro mentre osservava dei bambini che giocavano con le biglie. Guardando una biglia che uscendo da una pozzanghera lasciava una scia dritta di acqua, egli immaginò le penne a sfera. Ma pare che i due fratelli non siano riusciti a sfruttare adeguatamente quella geniale intuizione. Nella metà del Novecento il marchese Marcel Bich acquistò il brevetto e produsse su larga scala le penne a sfera. Massini ricava da questa storia una nuova parola: bichismo. «Bichismo – Sostantivo maschile. Derivato dal marchese Marcel Bich (1914-1994) – Indica il fenomeno dell’appropriazione, non necessariamente illecita, di un’idea altrui per trarne un proprio profitto. In particolare, il sostantivo definisce ogni situazione in cui la pragmaticità di qualcuno si impone sul genio di un altro, incapace di gestire il proprio talento». Forse vale la pena mettere l’accento anche sulla necessità di saper amministrare e guidare il proprio talento, non solo per evitare che venga dissipato, ma per non correre il rischio che diventi prezioso per altri e troppo poco per noi.
Un caro saluto,
Alberto