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lunedì 2 marzo 2020

Il mio talento


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Caro professore,
Vado bene in tutte le cose che faccio. Sono brava a scuola, forte sugli sci e ho tante amiche, ma in niente sono la migliore. Non sono una “secchiona” e neanche la campionessa italiana. Molte volte, soprattutto ultimamente, mi sono chiesta cosa devo fare per eccellere o più semplicemente domando a lei: “come faccio a  trovare il mio talento?”.
Martina, 3C


Cara Martina,
Andar bene in tutte le attività in cui si è coinvolti, da quelle scolastico-sportive a quelle affettivo-relazionali, è già un grande obiettivo concretizzato. Credo che la tua vita sarebbe invidiata e considerata felice dalla maggior parte dei filosofi che si sono occupati di definire che cosa sia la felicità. Ma forse tu aspiri a diventare “la migliore”, in qualche attività scolastica o nello sport. So che sei un’atleta e quindi comprendo il tuo desiderio di superare continuamente condizionamenti e barriere e la tua instancabile aspirazione al miglioramento. Uno dei temi più significativi affrontati dallo psicoanalista svizzero Carl Gustav Jung – come mettono in luce anche i suoi autorevoli interpreti Aldo Carotenuto e Umberto Galimberti – è stata la costante riflessione sulla tematica dell’individuazione. Si tratta di una forma di evoluzione personale che da Pindaro a Nietzsche è stata condensata nel motto «diventa ciò che sei» e che la psicoanalisi ha denominato «processo di individuazione». Cresciamo per processi imitativi e abbiamo bisogno di seguire dei modelli, ma poi ognuno di noi sente il bisogno di diventare unico e speciale. Ad un certo punto, dopo aver messo in atto molti meccanismi imitativi, ci scostiamo dai comportamenti collettivi per realizzare la nostra peculiare «individuazione», per fare della nostra vita una vita originale. Affinché ognuno possa «trovare il proprio talento», è pertanto necessario che conosca se stesso, le proprie potenzialità e le proprie capacità. E per fare questo deve coltivare le proprie predisposizioni. Spesso si impiega tutta la vita per allenarle ed affinarle. Lo psicologo americano Howard Gardner, negli anni Ottanta del secolo scorso, ha parlato di «intelligenze multiple», intendendo con questo concetto che l’intelligenza non è monolitica, ma proteiforme e si esplica in attività differenti. In altri libri successivi ha spiegato di aver utilizzato intenzionalmente la parola «intelligenza» al posto di «talento», affinché fosse chiaro che i talenti sono forme di intelligenza. Nel libro che lo ha fatto conoscere al grande pubblico, Formae mentis. Saggio sulla pluralità della intelligenza (Feltrinelli 1987), oltre a ricordare che il talento va continuamente perfezionato con l’esercizio («non si può diventare un grande scacchista, e neppure un giocatore mediocre, in mancanza di una scacchiera»), egli racconta anche una storia riferita al grande violinista del secolo scorso Ivan Galamian (1903-1981). Parlando delle attitudini musicali, Galamian aveva consigliato l’insegnamento del violino molto presto, a dieci o dodici anni, perché a quell'età – scriveva l’autore – « si può già riconoscere il talento, ma non... il carattere o la personalità. Se hanno personalità, diventeranno qualcuno. Altrimenti, almeno suoneranno bene». Questo significa che il talento è solo il punto di partenza di quel processo che porta a diventare se stessi. La parte più importante è data dal carattere e dalla personalità del soggetto. Come dire che non è neppure sufficiente «coltivare» le proprie doti, ma che occorrono parallelamente altre qualità: indipendenza, dedizione, attaccamento passionale; una sorta di consacrazione continua al proprio lavoro, che richiede abnegazione e capacità di sacrificio. Il violinista iraniano aveva pertanto adottato per sé il detto di Seneca: «Imperare sibi maximum imperium est», «Il dominio di se stessi è il massimo dominio». Per dominare se stessi, quindi,  non si deve allenare solo il talento, ma soprattutto il carattere. Pensando al talento, c’è una storia raccontata dallo scrittore italiano Stefano Massini nel suo straordinario Dizionario inesistente (Mondadori 2018) che mi sembra utile e allo stesso tempo divertente per la nostra riflessione. Massini racconta la meravigliosa storia dei due fratelli ungheresi, László e György Biro e del marchese Marcel Bich nella vicenda della nascita della biro a sfera. Un’idea venuta in mente a László Biro mentre osservava dei bambini che giocavano con le biglie. Guardando una biglia che uscendo da una pozzanghera lasciava una scia dritta di acqua, egli immaginò le penne a sfera. Ma pare che i due fratelli non siano riusciti a sfruttare adeguatamente quella geniale intuizione. Nella metà del Novecento il marchese Marcel Bich acquistò il brevetto e produsse su larga scala le penne a sfera. Massini ricava da questa storia una nuova parola: bichismo. «Bichismo – Sostantivo maschile. Derivato dal marchese Marcel Bich (1914-1994) – Indica il fenomeno dell’appropriazione, non necessariamente illecita, di un’idea altrui per trarne un proprio profitto. In particolare, il sostantivo definisce ogni situazione in cui la pragmaticità di qualcuno si impone sul genio di un altro, incapace di gestire il proprio talento». Forse vale la pena mettere l’accento anche sulla necessità di saper amministrare e guidare il proprio talento, non solo per evitare che venga dissipato, ma per non correre il rischio che diventi prezioso per altri e troppo poco per noi.
Un caro saluto,
Alberto

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