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Cor-rispondenze

lunedì 18 dicembre 2017

Animali sociali?

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Caro professore,
Di questi tempi si sente spesso dire che siamo degli “animali sociali”, ma è davvero così? Ciò che intendo dire è che, nell'immaginario comune, l'essere umano vive di relazioni e soprattutto impara a conoscere sé stesso grazie alla presenza dell'altro. Secondo me, invece, è proprio nei momenti di solitudine che impariamo a conoscerci veramente. Quando siamo in compagnia delle altre persone, infatti, tendiamo ad essere distratti, a non ascoltare ciò che il nostro “io interiore” ci dice; siamo, invece, portati a pensare ciò che pensano gli altri e ciò che la società ci insegna e ad adeguarci alle situazioni senza riflettere seriamente su quale sia la nostra idea. Questo vale anche per l'opinione che ognuno di noi ha di se stesso. Per esempio, perché alcune persone non si piacciono e non accettano il loro aspetto fisico? Perché si paragonano a chi li circonda e le loro idee non sono veramente loro, ma quelle della società. Secondo lei, si può quindi affermare che finché l'uomo vive di relazioni non può conoscere sé stesso fino in fondo?
Giulia 3H

Cara Giulia,
La tua riflessione mi insegna, ancora una volta, che le intuizioni degli adolescenti incontrano spesso quelle dei grandi filosofi. Se qualcuno avesse pensato, anche solo di sfuggita, che da una parte ci sono gli insegnanti che veicolano in modo unidirezionale delle conoscenze e dall’altra gli studenti che imparano, la tua lettera fornirebbe la più grande smentita a tale illusione. Dico questo perché hai avuto la stessa illuminazione di uno dei più grandi filosofi della storia. Immanuel Kant ha tradotto il tuo presentimento nel concetto di «insocievole socievolezza» dell’uomo. La tua riflessione si basa dunque su un’intuizione molto profonda: siamo sì animali sociali, ma necessitiamo di momenti di solitudine per conoscere noi stessi e per creare. L’uomo vive una sorta di inestinguibile conflitto interiore, la sua natura lo costringe a oscillare continuamente tra la tendenza a socializzare, ad appartenere ad un gruppo e ad aggregarsi e dall’altra ad isolarsi e a focalizzare l’attenzione su di sé. Nella quarta tesi delle “Idee per una storia universale dal punto di vista cosmopolitico”, Kant scrive che l’uomo «ha un’inclinazione ad associarsi: poiché in tale stato sente in maggior misura se stesso in quanto uomo, sente cioè lo sviluppo delle sue disposizioni naturali. Ha però anche una forte tendenza ad isolarsi: perché trova in sé, allo stesso modo, la proprietà insocievole di voler condurre tutto secondo il proprio interesse, e perciò si aspetta resistenza da ogni lato, come sa di sé che egli, a sua volta, è inclinato a far resistenza verso gli altri. È questa resistenza che risveglia tutte le forze dell'uomo, che lo conduce così a superare la sua tendenza alla pigrizia e, spinto dal desiderio di onore, potere o ricchezza, a procurarsi un rango fra i suoi consoci, i quali non può sopportare, ma di cui anche non può fare a meno». Qualche secolo prima di qualunque psicologia, Kant ha mostrato che nell’uomo c’è un doppio impulso, di comunità e appartenenza e di individualismo e indipendenza. Il distacco, come giustamente affermi, non solo è opportuno per la conoscenza di sé, ma poiché « risveglia tutte le forze dell'uomo» è imprescindibile anche per creare. Ed è anche grazie a questa «insocievole socievolezza» che le persone scoprono i propri talenti, le proprie predisposizioni e la loro unicità. La comunità è fondamentale quanto la solitudine, la società quanto il singolo. È a partire da questa anche faticosa o dolorosa “sottrazione dal mondo” che ad esempio filosofi, artisti, scienziati e scrittori hanno concepito le loro opere. Le grandi ideazioni degli uomini nascono infatti dalla loro capacità di isolamento. Sei partita da una frase contenuta nella “Politica” di Aristotele, secondo cui l’uomo è “zoòn politikòn”. Un’ottima interpretazione di questo concetto, è contenuta in un bel libro degli studiosi Fulvia De Luise e‎ Giuseppe Farinetti. In “Storia della felicità. Gli antichi e i moderni” (Einaudi) essi ricordano che l’uomo è «animale sociale (cioè capace di organizzare e mantenere rapporti con gli altri uomini per soddisfare i suoi bisogni fondamentali) e socievole (cioè inclinato naturalmente a sentire come suo dovere la necessità di conservare oltre a se stesso anche la società)». Siamo dunque insieme animali sociali e socievoli, perché ricaviamo la nostra vita e originiamo la nostra essenza grazie alle relazioni; e per avviare il nostro processo di individuazione – che necessita della conoscenza della nostra natura e delle nostre inclinazioni – avvertiamo tuttavia anche il bisogno di separarci dal gruppo. Quello che tu chiami “io interiore”, però, si genera solo in connessione all’altro. Se poi in quanto cittadino – come l’uomo greco – uno vuole cooperare al bene pubblico, è necessario che non disperda se stesso. Curando il rapporto tra intensità e alleggerimento dei legami si può giungere gradualmente a “conoscere se stessi”. E chi conosce la propria natura e il proprio talento può contribuire in modo fruttuoso e unico sia all’edificazione di sé sia a costituire relazioni positive con le persone di una comunità più grande alla quale – già da sempre – appartiene.  
Un caro saluto,
Alberto

lunedì 11 dicembre 2017

Sentirsi pronti

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Caro professore,
"Si vive una volta sola", "abbiamo solo questa vita": tutte frasi che pensiamo o che ci hanno detto miliardi di volte, ma molto spesso non comprendiamo pienamente questo messaggio. Ci sono persone che interpretano le frasi qui sopra alla lettera e qualsiasi cosa gli si palesa davanti la fanno, senza dare ad essa un peso o un valore emotivo. La mia generazione è la generazione del numero, le esperienze fanno solo numero e si fanno per avere più numeri possibili e non emozioni uniche. Ma per alcuni non è così. Per alcuni le esperienze non fanno solo numero, ma hanno un significato emotivo profondo. Come si può pensare che essendo adolescenti tutto ci verrà perdonato? Come si fa a credere che quello che facciamo ora non influenzerà il nostro futuro? Siamo adolescenti e sbagliamo, sbagliamo come tutti, perché siamo umani, ma il nascondersi dietro a questo essere "adolescenti" e usarlo come la carta bonus per uscire dalla prigione del Monopoli mi pare molto ingiusto e sciocco. Perché ora, ora che abbiamo gli occhi da bambini, ma siamo prossimi alla vita adulta, dovremmo capire cosa è giusto e cosa no, dare un peso a quello che facciamo e non passare il tempo a bere come se non ci fosse un domani, a baciare sconosciuti senza dare un senso a quello che facciamo. Le azioni hanno un peso e un significato che rendono la vita unica e irripetibile. La vita è una, la vita è questa, ma ciò non significa che dobbiamo bruciare le tappe, ma dobbiamo godercele, godercele fino in fondo, perché la vita è fatta di tanti piccoli momenti che dovrebbero darci delle emozioni uniche e irripetibili. È questo che fa sì che si possa dire di aver vissuto veramente. Questo è vivere. Vivere non è fare cose di cui ci vergogneremo, solo per dimostrare la nostra "figaggine" agli altri, ma fare quello che vogliamo con il senno di poi e il continuo riempire il nostro bagaglio emotivo di emozioni vere, perché queste emozioni saranno quelle che ci resteranno e faranno di noi le persone che saremo in futuro. Ha vissuto di più chi ha fatto poche cose, ma con un’importanza emotiva senza eguali o le persone che hanno una lista di cose compiute senza un motivo o un nesso emotivo? Vincono le emozioni e i ricordi con significati profondi o i numeri? Vincono le esperienze originate dal sentimento o quello che viene fatto per dimostrare agli altri chi si è? Vivere è avere un lista di numeri (di persone baciate, di birre bevute, di coma etilici scampati) oppure significa dare un peso a quello che si fa e fare quello che ci si sente di fare nel momento in cui ci si sente pronti?
Elisa, 16 anni


Cara Elisa,
Siamo la «generazione del numero» perché, come diceva già molti anni fa lo psichiatra Aldo Carotenuto (“Il fondamento della personalità”), siamo stati «promossi dalla società a “consumatori”». Abbiamo cioè appiattito le nostre vite sul modello economico che si basa su un semplice principio: se la merce si muove più in fretta produce più profitto. In modo analogo rischiamo di considerare che la velocità delle esperienze indiscriminate produca una vita piena e ricca. Ma non è cosi. Zygmunt Bauman, in “Homo consumens”, ha mostrato che coloro che cercano «di dissolvere il futuro nel presente, e di richiuderlo tutto nell'hic et nunc [qui e ora]» si illudono di possedere il tempo, mentre disperdono invece le energie senza giungere ad una autentica formazione di sé. Hai ragione, chi compie esperienze in modo indiscriminato può logorare e abbruttire il proprio percorso. Fai bene, dunque, a sottrarti a quello che potremmo definire un nuovo imperativo categorico e che Nicole Aubert ha sobriamente definito come obbligo di «consumare la vita» (“Le Culte de l'urgence. La société malade du temps”, Paris, Flammarion). Il culto dell’urgenza, invece di rendere l’uomo padrone del tempo, lo rende asservito. Il tuo atteggiamento è pertanto saggio: desideri dare peso alle  azioni, sei consapevole che le decisioni influenzano il futuro e aspiri a vivere con la tua cadenza l’avventura della vita. Non si vive solo nell’oggi, schiacciati in un eterno presente; ci sarà un domani e fai bene a progettare la tua vita in questa direzione, scegliendo da ora la tipologia di persona che vorrai essere. La qualità della vita non è data dall’accatastamento indiscriminato di eventi nella memoria, ma dalla possibilità di poter scegliere consapevolmente tra alternative. È la scelta che rende significativo un percorso. L’obbligo alla reazione immediata e all’accumulo si addice maggiormente a chi è prigioniero e non signore del tempo. Essere sudditi del tempo significa essere sempre più subordinati a quel meccanismo pulsionale che dal dolore conduce alla noia, direbbe Schopenhauer, ma non a causa della natura intrinseca e desiderante dell’uomo («volontà di vita»), ma a causa di una seconda natura, quella del mercato, che induce ad oscillare costantemente tra godimento e esaurimento («jouissance et épuisement»). I greci avevano due parole per indicare il tempo: chronos e kairos. Il primo rappresenta lo scorrere inesorabile degli istanti, uguali per tutti. Kairos è invece il momento del discernimento: il momento in cui il medico deve prendere una decisione importante o quello più opportuno per tagliare il grano maturo. Il kairos è il «momento giusto» di chi si sottrae all’inesorabile trascorrere degli eventi e sceglie per sé. È un tempo che si coglie e non si subisce. Per questo costituisce il fondamento della vita buona.
Un caro saluto,
Alberto

lunedì 4 dicembre 2017

Vivere ogni istante



Caro Professore,
questo trimestre è stato intenso ma è volato via velocemente. Troppo spesso ho dovuto dire la parola "ultimo": ultimo primo giorno di scuola, ultima elezione dei rappresentanti, ultimo scambio con Orange, ultima versione di latino, ultima gita di classe... Ho riflettuto molto e, ripensando a tutti i bei momenti che ho condiviso con i miei compagni, rimpiango di aver imparato ad apprezzare a pieno tutto questo solo ora. Perché iniziamo ad accorgerci e a dare valore alle cose, così come alle persone e alle esperienze, solo quando queste iniziano a mancarci? É inevitabile ma so già che, alla fine di questo percorso, tutti mi mancheranno molto. Ma nonostante questo voglio cercare di godermi al cento per cento ogni istante, per poter cogliere ancora qualche particolarità di ogni mio compagno e conservarla nel mio cuore. Secondo lei, quale potrebbe essere la giusta ricetta per realizzare il mio desiderio?
Costanza, 5H


Cara Costanza,
Vivere «al cento per cento ogni istante» è certamente un antidoto ai rimpianti, e consente di evitare che, trascurando il presente, le immagini di ciò che avremmo potuto fare o dire ci inseguano come le “anime spaventose” (deformes animae) degli avi che ululavano per le campagne perché i Romani, impegnati nella guerra, si erano dimenticati di rendere onore ai morti. E poiché, quando i Romani portarono le offerte, le anime si placarono – come racconta Ovidio ne “I Fasti” (2, 551-556) –, così vivendo intensamente il nostro tempo non temeremo che si sollevino sogni angosciosi in futuro per le nostre omissioni o disattenzioni. Hai ragione, il valore di un’esperienza necessita che essa sia conclusa e cresce nel tempo. L’ultima pennellata di un pittore sigilla l’opera e l’ultimo accordo conclude una composizione. Poi giunge lo sguardo retrospettivo del soggetto a contemplare e a ricordare. Si conclude un evento e si avvia la costruzione della memoria. Ciò che si è determinato contribuisce all’interpretazione di sé, grazie a quell’instancabile movimento dell’attenzione che dal presente vagabonda nel passato, traendone conforto e forza, per dirigersi ad esplorare le possibilità del futuro. Ogni avventura che finisce, in fondo non si esaurisce mai, perché costituirà un punto di origine per descrivere la vita. La narrazione della trama di ogni uomo ha infatti molte sorgenti. Ciò che arriva alla fine conclude ragionevolmente un periodo, ma ci ricorda anche che fino all’ultimo tassello possiamo modificare la storia. Nel 41 d. C. Caligola è caduto vittima di una congiura mortale. Cassio Cherea, ufficiale delle coorti pretorie, lo ha trafitto in un sotterraneo del palazzo. Un giorno decisivo: “l’ultimo giorno” dei Ludi Palatini è stato anche “l’ultimo giorno” di vita del terzo imperatore romano. Concludere un percorso di crescita non significa solo cessare un’avventura, ma portarla a compimento. E il compiersi non denota banalmente il suo esaurirsi nel tempo, ma il fatto che ne abbiamo realizzato il senso. Così, si può decidere di uscire di scena da una situazione in modo più o meno costruttivo; dipende da noi, da quanta energia e da quanta passione investiamo, da quanta abilità disponiamo nell’impedire che si deteriori, favorendone un esito positivo. La riuscita è determinata soprattutto dall’amore con cui caratterizziamo il nostro modo di “stare al mondo”. C’è chi si concentra su ciò che ama e vuole vivere, come te, così intensamente da non rischiare di perdere tempo. Elie Wiesel, in “Le storie di saggi”, raccontando dell’incredibile capacità di concentrazione di Rabbi Chayyim e della sua passione per la Torà, scrive: «Era continuamente in attività e dormiva tre ore per notte. Quando lo interrogavano su questo fatto, rispondeva citando Napoleone, che non voleva «perdere un impero dormendo». «E io», diceva, «non voglio perdere la Torà dormendo». «Effettivamente», diceva, «è facile dormire poco. C’è chi mangia in fretta, chi impara in fretta, chi arricchisce in fretta. Io dormo in fretta». Ad essere distratti si rischia di dissipare ciò che è importante: per Napoleone un impero, per il rabbino la Torà e per noi i momenti essenziali della vita in classe, in famiglia, in gruppo. La fretta ha un senso («Io dormo in fretta») se ci consente di concentrarci su ciò che ci sta più a cuore: allontanando ciò è che superfluo, permette di fare spazio a ciò che riteniamo davvero significativo. Se vuoi una “ricetta” per fissare nel cuore ciò che ritieni rilevante, ti suggerisco il seguente imperativo: “prenditi cura”, dei tuoi compagni, come già stai facendo, delle tue relazioni, ma anche dei contenuti culturali che vengono esplorati a scuola o sollecitati dal mondo che approda nelle nostre vite con le informazioni e le narrazioni quotidiane. Ogni percorso che si compie ha un vantaggio: consente un’apertura verso il futuro che un tempo era impossibile. È curioso che il ciclo dei Feralia (le festività dedicate ai morti) si concludesse con il giorno che porta il nome di Caristia o Cara Cognatio. In quest’ultimo giorno del ciclo festivo dedicato ai defunti, i Romani dopo essersi occupati delle relazioni tra vivi e morti, si dedicavano alle relazioni tra i vivi della loro comunità familiare. In ogni fase ultima, dopo esserci occupati di preservare la memoria, dobbiamo alimentare infaticabilmente le relazioni vive.
Un caro saluto,
Alberto