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Cor-rispondenze

lunedì 22 dicembre 2014

Esempi positivi


 
Caro professore,
Mi sono trovato a riflettere sugli esempi positivi che noi ragazzi possiamo avere al giorno d'oggi. Mi spiego, pare che noi giovani siamo rimasti senza ideali, senza speranze, e con la voglia di cambiare le cose, o quanto meno tentare, che va lentamente scemando. Insomma, siamo rimasti a corto di persone cui ispirarci, o quantomeno di nuove figure da emulare. Ovviamente è impossibile dimenticare grandi personaggi come Mandela, King, Gandhi, Guevara per il loro impegno e per le loro conquiste, ma purtroppo pare che episodi come "Ferguson" [Darren Wilson, il poliziotto che ha sparato a Michael Brown], che parevano ormai pallidi residui sulle divise delle forze dell'ordine statunitensi, siano destinati a ripresentarsi. Siamo rimasti orfani di una o più figure carismatiche, o meglio ispirate, e oramai la priorità fondamentale è diventata il "divertirsi", lo sballarsi, chiudere gli occhi su questo mondo destinato all'annichilimento e vivere oziosi "nell'isola che non c'è". Siamo ormai privi di quegli spunti e di quelle rivoluzioni in grado di renderci uomini e di ricoprire quelle cariche etico/politiche che non sono un nostro diritto in quanto esseri umani, ma sono un ancestrale dovere che grava sulle nostre spalle. Ora come ora siamo troppo vulnerabili anche ai dispotismi, non abbiamo più nulla in cui credere e qualsiasi potenziale "Hitler" non avrebbe vita difficile a riportare alla luce una nuova realtà autarchica. Pertanto professore la mia domanda è la seguente: è in grado la nostra terra di partorire altre "menti illuminate", è in grado di generare un fermento negli animi delle nuove generazioni, rendendoci coscienti delle responsabilità storiche che abbiamo (praticamente rifondare un’economia globale in sfacelo), oppure giunti a questo punto è praticamente impossibile? [...]
Filippo, IV B

Caro Filippo,
L’idea che ci troviamo a vivere un «tempo di povertà», un «dürftige Zeit», come direbbero i romantici, è stata frequente nella storia. È un’idea cara ai catastrofisti di ogni tempo che segnalano il procedere della storia da un’ipotetica età dell’oro verso un declino inarrestabile. C’è chi, accettando le analisi sulla “società liquida” prodotte da Zygmunt Bauman, ritiene che il mondo postmoderno non solo stemperi i dogmatismi, ma dissolva ogni certezza nel relativismo e c’è chi all’opposto considera che l’incertezza del nostro tempo sia prodotta dagli effetti di un’ossatura solidamente determinata dalle leggi del capitalismo. La mancanza di speranza sembrerebbe inevitabile, perché ogni visione profetica sarebbe impossibilitata ad emergere e ad illuminare oltre un certo tempo la società o perché fagocitata dalla struttura instabile su cui si fonda o perché soffocata da un’inamovibile base economica. Dici che avremmo bisogno di figure carismatiche, ma lo storico britannico Eric J. Hobsbawm ne “Il secolo breve” ci ha tuttavia insegnato che nel secolo scorso molte figure carismatiche «hanno arringato le folle e da queste sono state idolatrate» e che non sempre il carisma si coniuga con il bene. E se gettiamo uno sguardo retrospettivo sul Novecento non ci conforta neppure sapere che per diciannove anni non è stato consegnato il Premio Nobel per la pace e che nel 1948 la motivazione esplicita era che «non c'era nessun candidato idoneo vivente». Potremmo allora pensare di vivere in un inferno e che le speranze saranno sempre infrante. Trovo però molto importante ciò che Italo Calvino fa pronunciare a Marco Polo nelle “Città invisibili”. Scrive Calvino: «L'inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n'è uno, è quello che è già qui, l'inferno cha abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l'inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all'inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio». Penso che sia in chiave laica sia in chiave religiosa abbiamo bisogno di buoni testimoni ordinari e non tanto di figure straordinarie. Il filosofo Remo Bodei scrive infatti che «oltre che di maîtres à penser, ci sia oggi bisogno di maîtres d'existence» (“Immaginare altre vite. Realtà, progetti, desideri”, 2013). E anche il priore della comunità Monastica di Bose, Enzo Bianchi, ritiene che al cristianesimo servano «testimoni non te­stimonial» (“Per un’etica condivisa”, 2009). E allora bisogna saper guardare con attenzione instancabile a persone e a comportamenti che, come scrive Calvino, meritano di essere imitati e riprodotti. Ci sono tantissimi uomini ordinari – meravigliosi maîtres d'existence – che selezionano il bene e cercano di “farlo durare, e dargli spazio”. Le “menti illuminate” ci sono, basta che uno sappia scegliere ciò che vuole salvare e come vuole vivere. E anche a livello mondiale ci sono testimoni. Quest’anno, infatti, il Nobel per la Pace è stato assegnato. All’indiano Kailash Satyarthi e alla giovane pakistana Malala Yousafzai, “per la loro lotta contro la soppressione dei bambini e dei giovani e per il diritto di tutti i bambini all'istruzione”. La speranza individuale è sempre alimentata da relazioni di cura. Queste relazioni sono, secondo me, gli "esempi positivi" da preservare.
Un caro saluto,
Alberto

lunedì 15 dicembre 2014

Come sarà crescere?




Caro professore,
volevo parlarle di questo periodo, che è il classico momento adolescenziale che tutti vorrebbero dimenticare, perché credo che sfogarsi con un foglio sia molto più liberatorio che farlo con una persona... È come se tutte le ansie, le responsabilità e le paure mi stessero schiacciando e non mi sento pronta ad affrontarle... credo che la cosa più difficile sia dover scegliere, per qualsiasi cosa vorrei che qualcun altro lo facesse per me. Qualche settimana fa ho dovuto prendere una decisione, e con questa mi sento di aver deluso un po’ tutti. La cosa che più mi fa stare male è essermi “divisa” dal mio migliore amico; può sembrare banale, ma mi manca molto e quello che mi preoccupa è che io non manco a lui. In parte ero preparata a questa reazione, ma speravo che avremmo provato a continuare la nostra amicizia anche non vendendoci più tutti i giorni. Io gli scrivo con qualsiasi scusa solo per sentirlo e sapere come sta, ma da parte sua non c’è nessun interesse... forse mi ero illusa, ma mi sento inutile. Nessuno si accorge di me e a nessuno importa come sto, i viaggi in treno, poi, non aiutano, mi fanno pensare, e a volte credo che il problema sia io, forse non piaccio alle persone. Ed è in questi momenti che mi odio, odio il mio carattere, vorrei essere più impulsiva e sicura, ma non ce la faccio, mi sento sempre sottomessa alle altre persone, mi sento indesiderata e costantemente giudicata. Potrei continuare ad annoiarla con le mie paranoie, ma mi sento egoista e superficiale a parlare di queste banalità, quando ci sono persone che soffrono per motivi molto più validi. Quindi, la domanda che le pongo, tra tutte quelle che le vorrei fare è: sarà sempre così “difficile” vivere? O quando si cresce, cambia? Insomma, com’è l’essere adulti? È questo, forse, quello che mi spaventa.
Alice, IVA

Cara Alice,
Fabio Volo ne “Il tempo che vorrei” ha inventato un personaggio, Lorenzo, che ha costruito il proprio rapporto positivo con la lettura il giorno in cui un amico ha scelto un libro per lui. In certi casi una “mano” che seleziona nella babele della vita può facilitare un incontro, aprire nuove direzioni allo sguardo ordinario e all’ideazione rituale. Ma nelle relazioni interpersonali siamo noi a scegliere e ogni scelta può anche generare sconforto. Si deludono le persone quando non si corrisponde alle loro proiezioni sulla nostra vita. Tuttavia, non sempre possiamo agire secondo le aspettative, perché non siamo attori che recitano quotidianamente uno stesso copione teatrale (come avviene ad esempio dal 1952 al New Ambassadors Theatre di Londra per la rappresentazione del grande classico di Agatha Christie “Trappola per topi”, “The Mousetrap”), e non viviamo per soddisfare le attese o per conformarci a regole che altri hanno stabilito per noi. Cercando di essere graditi a tutti, dimentichiamo il nostro compito più impegnativo: vivere creando la nostra specifica individualità. Soren Kierkegaard diceva che «la scelta decide circa il contenuto della personalità» (“Aut-Aut”), pertanto nelle scelte deliberiamo qualcosa di molto importante: stabiliamo chi vogliamo diventare. Così, talvolta, i nostri comportamenti possono apparire inopportuni, ma diventano indispensabili per non diventare prigionieri di desideri che non ci appartengono. Certo, poiché viviamo di relazioni, scontentare qualcuno significa anche modificare il rapporto e ogni assestamento relazionale produce sofferenza o genera  un’ansia eccessiva che può impedire il cambiamento. Preferiremmo non essere giudicati e vedere famigliari e compagni come osservatori imparziali che accettano i nostri cambiamenti. Ma per essere autentici, ci possiamo concedere anche il privilegio di deludere qualcuno. Ricordo che lo psichiatra francese André Christophe diceva che gli uomini si devono concedere qualche licenza. Ne elencava cinque: «il diritto di sbagliarsi, il diritto di fermarsi, il diritto di cambiare idea, il diritto di deludere, il diritto di arrivare a un risultato imperfetto». Abbiamo dunque anche il diritto di deludere. Non perché ci prendiamo gioco di una persona, certo, ma perché nel tentativo di dare forma alla nostra esistenza selezioniamo ciò che è coerente con i nostri ideali e ciò che non lo è. Il senso di colpa è il prezzo che si paga quando si prende una decisione in conformità al proprio senso morale e alla propria sensibilità. Credo che tu ti senta in colpa almeno per due motivi: per «senso di responsabilità» e per aver originato «una separazione». Nel primo caso considera che anche i genitori si sentono in colpa quando si ammala un figlio e si chiedono se potevano stare più attenti o fare di più. Altrettanto accade quando si lavora in gruppo: a volte ci si sente responsabili per sofferenze di cui non si è causa diretta. E poi ti senti in colpa «per la separazione». Ma in ogni cultura, tuttavia, il momento del distacco dalla famiglia o dalla comunità è segno di maturazione, perché se manca la separazione non si genera l’autonomia. Fino ad ora hai considerato solo la delusione degli altri, ma è bene che tu consideri anche la tua, in fondo anche tu provi sconforto per non vedere realizzate le tue speranze. Chiedi se quando si cresce questo senso di sconfitta cambierà. In parte, perché gli adulti hanno già passato al setaccio del tempo le amicizie, ma anch’essi soffrono per le scelte che devono compiere: ad esempio: a chi essere fedeli? Ad una tradizione religiosa o politica, al proprio passato o ad un nuova valutazione della vita? Si può rispondere in molti modi, ma se uno rimane affezionato alla ricerca della verità e alla propria autenticità metabolizzerà senza tanto rammarico i propri cambiamenti come costituenti necessari di una buona vita.
Un caro saluto,
Alberto