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Cor-rispondenze

lunedì 26 febbraio 2018

Di fronte alla malattia


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Caro professore,
La mia famiglia, circa un anno e mezzo fa, ha dovuto affrontare un grave problema. Mia mamma in seguito ad un’operazione si è ritrovata di fronte ad una delle più gravi malattie del nostro secolo: il cancro. Al contrario di quanto fa la maggior parte della gente, mia mamma invece di abbattersi e di piangere su se stessa ha tirato fuori una grande (apparente, dal mio punto di vista) serenità; forza, coraggio e voglia di vivere. Grazie a ciò abbiamo passato tre operazioni e mesi e mesi di chemioterapia in maniera assolutamente normale. La domanda che mi pongo adesso è: perché voglio portare all'esame un tema così profondo e difficile e quindi ricordare questo momento da dimenticare anziché lasciare tutto alle spalle? La ringrazio.
Elisabetta, 19 anni


Cara Elisabetta,
Quando all’avvio dell’anno scolastico mi hai parlato del tuo desiderio di fare una tesina sui tumori e mi hai mostrato il libro di Umberto Veronesi (“L’uomo con il camice bianco”, Rizzoli 2009) che tenevi tra le mani, conoscendo l’esperienza sconvolgente che stavi attraversando ho cercato di dissuaderti dalla scelta della tematica e di orientarti su una materia diversa, che potesse anche per poco allontanare i tuoi pensieri da un vissuto così amaro. Pensavo che una temporanea rimozione fosse un rimedio al dolore. Ma tu hai deciso di affrontare la malattia, e l’unico modo efficace di far fronte ad essa è stato quello di guardarla negli occhi, di comprenderne le modalità di insorgenza e l’evoluzione. La conoscenza in fondo diminuisce l’angoscia, perché riduce la brutalità di ciò che emerge inaspettato. Se l’imprevisto diventa in qualche modo pre-vedibile, ossia visibile anticipatamente, è possibile mettere in atto contromisure adeguate sia nei pensieri sia nelle azioni. All’inizio pensavo che un’eccessiva prossimità alla sofferenza fosse una conseguenza della debolezza psicofisica in cui ci veniamo a trovare quando siamo colpiti dall’angoscia, ma dimenticavo che avvicinarsi ad essa può significare esattamente l’opposto: avere sviluppato una forza di reazione per difendere la vita e la sua qualità. Credo che il tuo atteggiamento sia dunque profondamente maturo e saggio, almeno per due ragioni: perché conoscere è un modo per misurarsi con il male e per ostacolarlo, e perché conoscere è spesso la premessa per amare. Solo chi comprende il male che lo affligge è in grado di affrontarlo in modo razionale e di opporsi ad esso; e solo chi ha dimestichezza con una nuova condizione della vita può camminare accanto all’ammalato. Interessarsi al problema è segno di amore, perché nell’attenzione e nella premura si dimostra l’attaccamento alla persona e ci si unisce ad essa per combattere il male. La tua scelta, dunque, è estremamente coraggiosa. Il filosofo italiano Salvatore Natoli mi ha ricordato che il coraggio è una sofferenza che si coniuga con una forza e che spesso amore e dolore oscillano uno nell’altro. Così scrive l’autore: “Il coraggio somiglia alla malattia d'amore, come follia dolce e dolorosa: ad ogni modo, è una sofferenza che si coniuga con la forza.”[…] “molte volte amore e dolore trapassano l'uno nell'altro: in fondo, si regge nel dolore perché c'è profondo amore, e si soffre nell'amore perché si è esposti alla perdita e così al dolore”. E qual è la virtù che si sviluppa nel dolore? Natoli scrive che “la virtù consiste nel commisurarsi alla necessità e nel tenervi testa”. […] Tener testa al dolore è virtù, poiché saper soffrire equivale alla medietà tra disperazione e illusione. Né perire con il proprio male, né rimuoverlo fino al punto da lasciarsi ingannare: nell'un caso e nell'altro si ha a che fare con un perdersi, poiché si abdica alla propria identità. La preparazione consente dunque di avvicinarsi al male. Per reggerlo bisogna però aver guadagnato una “consuetudine positiva con esso”, una sorta di prossimità: per questo conoscenza e amore sono gli strumenti adeguati per non avvilirsi e per vivere pienamente. Aristotele diceva che il coraggio è la via giusta tra i due estremi: la temerarietà e la viltà. “Chi fugge e teme ogni cosa e nulla affronta diviene timido, chi invece non teme proprio nulla, ma va contro ogni cosa diviene temerario”. Il temerario è l’incosciente, il dissennato, colui che mette a rischio inutilmente la propria vita; il vile è colui che rinuncia e poiché è pauroso di tutto è codardo e debole. Ma l’eccesso e il difetto rovinano le persone, la virtù invece rappresenta il giusto rapporto che si dovrebbe instaurare con gli eventi: così il coraggio e la forza d’animo diventano strumenti indispensabili per affrontare le difficoltà. Infatti, scrive Aristotele, “abituandoci a disprezzare i pericoli e ad affrontarli, diventiamo coraggiosi, e soprattutto quando siamo divenuti tali siamo in grado di sopportare i pericoli.” La tua audacia consiste nel voler affrontare il male, pur consapevole che è rischioso addentrarsi nei meandri della sofferenza e della malattia. Ma l’abitudine ad esaminare gli ostacoli rende risoluti e in grado di sovrastare i timori. La persona impulsiva non è coraggiosa e neppure è coraggioso chi fugge. Coraggioso è chi ha la forza di sostenere la vita, perché, come dice il filosofo: “l’ardire è proprio di chi ha speranza” (“Etica nicomachea”). E dietro quella speranza c’è tutto il tuo amore.
Un caro saluto,
Alberto

lunedì 12 febbraio 2018

Patriottismo o nostalgia?

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Caro professore,
spesso, durante la mia vita ho sentito, come altre persone, il desiderio di ritornare, almeno per qualche ora nel luogo, nel paese in cui sono nato. Lo so, questa domanda può sembrare strana, ma che cos’è il patriottismo? Perché quando ci allontaniamo dal luogo in cui viviamo o in cui siamo nati avvertiamo sempre un sentimento, o meglio una voglia, di ritornare? Cosa ci spinge a farlo, c’è forse una forza nel nostro cuore che, come l’amore, ci spinge a fare determinate cose? Perché siamo così legati ad un luogo fisico a tal punto da difenderlo, desiderarlo ed amarlo?
Benoit, 3H


Caro Benoit,
Il patriottismo richiama da una parte la patria (il luogo dei nostri antenati e in cui siamo nati e della comunità che ci ha plasmato) e un patriota (il soggetto che prova un forte legame con un certo territorio). C’è dunque un rapporto: tra un soggetto e un luogo, un legame che anche a distanza di chilometri non si esaurisce. È curioso che tu abbia evocato il patriottismo, un sentimento maggiormente presente in altri tempi. Un amore per il luogo natìo che ricorda – per noi italiani – i sentimenti di lealtà e le azioni degli uomini del Risorgimento che si sono spesi con gli scritti e con la vita per un’idea di unificazione; o, dopo la seconda guerra mondiale, la passione che ha dato vita alla resistenza contro l’esercito tedesco che occupava il territorio. Non so se il sentimento che avverti sia patriottico o nostalgico (patriotique ou nostalgique), ma è vero che quando l’attaccamento è molto forte si è persino disposti a difendere il proprio paese d’origine, come per un senso di lealtà verso ciò che è patrio, come per un senso di fedeltà al padre. Forse vivi in un luogo che non senti ancora tuo: la tua patria originaria è la Francia, che in fondo non è lontana dal Piemonte, regione in cui vivi, ma questo non importa, perché anche chi si trasferisce all’interno di uno stesso Stato può avvertire un’analoga forma di straniamento che lo porta a sentirsi “confuso”. Ai direttori degli alberghi capita frequentemente questa singolare esperienza: dovendo aiutare i clienti che si rivolgono alla reception in cerca di orientamento, essi devono rassicurarli sul paese o sulla città in cui si trovano in un certo momento. L’instabilità fisica turba le persone e le fa sentire smarrite. Ci vuole tempo per creare dei legami: questa regola, che vale per le amicizie, vale anche per i luoghi. Il paese natìo rassicura, perché abbiamo la certezza che là riusciremo a raccapezzarci in ogni momento e che non perderemo i nostri riferimenti. Per questo proviamo nostalgia per un certo luogo. La parola nostalgia è tuttavia una parola relativamente recente. In un bel libro, “Nostalgia. Storia di un sentimento” (Raffaello Cortina Editore, 1992), Antonio Prete narra di un giovane studente di medicina, Johannes Hofer, che in una Dissertazione presentata all'Università di Basilea nel 1688, combinando le voci della lingua greca “nóstos” (ritorno) e “álgos” (dolore), creò il termine di questa nuova patologia: la nostalgia. Questa particolare condizione era stata catalogata tra le malattie fisiche ed era considerata persino mortale. Jean Jacques Rousseau in una lettera del 1763 scrive: «C'è in Svizzera una celebre aria popolare di montagna (ranz-des-vaches) che i pastori suonano con i loro corni facendo risuonare tutt’intorno le montagne. Questo motivo, che in sé è poca cosa, ma che fa venire in mente agli svizzeri mille pensieri relativi al paese natio, fa versare fiumi di lacrime quando lo si ascolta in terra straniera. Ha fatto morir di dolore così tanti che per ordinanza del Re è stato proibito tra le truppe svizzere». E il medico Philip Pinel nell’Encyclopédie Métodique Médecine riferisce che gli ufficiali erano costretti a congedare coloro che erano affetti da questa malattia, per evitare che il contagio si diffondesse tra i militari: «ogni soldato che si è gravemente colpito deve essere congedato prima che uno dei suoi organi sia irrimediabilmente leso». Se in passato la nostalgia segnalava persino una malattia fisica, oggi rappresenta un insieme di sentimenti che sono analizzati a fondo dalla sociologia alla letteratura. Il sociologo tedesco Hartmut Rosa (“Accelerazione e alienazione”, Einaudi 2015), esaminando le forme di alienazione del nostro tempo ha introdotto il concetto di «alienazione dallo spazio», che si connette proprio al rapporto tra “soggetto e territorio” a cui facevamo riferimento all’inizio. Poiché gli uomini percepiscono se stessi come «spazialmente collocati» hanno bisogno di creare un’intimità non solo con le persone, ma anche con i luoghi. Per stare bene occorre pertanto prendere confidenza sia con i nuovi conoscenti sia con il nuovo territorio. Anche un paese nuovo può diventare gradualmente parte di noi e ci può offrire quel calore necessario che ci fa sentire accolti e ci orienta.
Un caro saluto,
Alberto

lunedì 5 febbraio 2018

La religione unisce o separa?

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Caro professore,
In seguito a quello che sta succedendo in questo periodo nel mondo, un argomento su cui sorge spontaneo riflettere è la religione. La religione unisce o separa? Non è facile capirlo. Ho molti amici che frequentano oratori e parrocchie, che quindi vengono a contatto e hanno la possibilità di legare nel contesto della Chiesa. Personalmente, non vado molto spesso a messa e non sono legato a tale ambiente. Tuttavia, questo non fa di me un non credente. Anch’io ho modo di pregare sebbene non frequenti molto la parrocchia. La Giornata Mondiale della Gioventù a Cracovia in Polonia ha riunito tantissimi ragazzi in quella che è stata una grande festa nel nome di Cristo: pregare, divertirsi e socializzare. Un’occasione del genere ha certamente avuto come conseguenza quella di avvicinare tra loro i cattolici, appunto “unire”. Grazie a questi punti di ritrovo, si crea vicinanza ed aggregazione, però solo tra persone appartenenti allo stesso credo. Le religioni differenti sono invece spesso fonte di allontanamento e contrasto tra le persone: al giorno d’oggi vediamo come i più radicati ed estremisti della religione musulmana si siano uniti nella causa contro i cristiani, provocando (purtroppo sempre più frequentemente) attentati nelle principali città europee o vere e proprie guerre civili in Medio Oriente. Si ripropone quindi la domanda iniziale: come sarebbe il mondo se non ci fossero religioni? I popoli sarebbero forse più uniti?
Andrea, 5h


Caro Andrea,
Chiedersi quanto le religioni uniscano o dividano, in mancanza di studi risolutivi, può sollecitare i sostenitori di una fazione o dell’altra. Le religioni hanno dimostrato sia di unire sia di dividere. Storici e filosofi hanno spesso sottolineato come le vicende più cruente dei rapporti tra gli uomini siano state esasperate anche dalle tensioni religiose. Nella storia dell’Occidente conosciamo bene le guerre di religione: forse le più note sono, a partire dalla Riforma protestante, quelle che sono avvenute in Francia nel XVI secolo e la guerra dei Trent’anni in Europa (1618-1648). Se questa eredità è dolorosamente presente, è altrettanto vero che la religione può unire; in nome della fede, infatti, moltissime persone si sono dedicate e si dedicano al prossimo a tutti i livelli: dall’educazione alla cura dei malati, dalla tutela dei diritti alla salvaguardia della dignità umana. Lo scrittore marocchino Tahar Ben Jelloun, spiegando alla figlia di dieci anni alcune questioni sul razzismo, fa confluire nei suoi ragionamenti anche l’argomento religioso delle guerre di religione. Seguiamo il suo percorso: «Ma, babbo, un giorno mi hai detto che il Corano è contro il razzismo.» «Sì, il Corano, come il Vangelo e la Thorà. Tutti i libri sacri sono contro il razzismo. Il Corano dice che gli uomini sono tutti uguali davanti a Dio e sono differenti secondo l'intensità della loro fede. Nella Thorà si dice: "...se uno straniero viene a stare con te, non recargli molestia, sarà per te come uno dei tuoi compatrioti... e tu l'amerai come te stesso"; la Bibbia insiste sul rispetto del prossimo, cioè di qualsiasi altro essere umano, sia esso il tuo vicino, tuo fratello o uno straniero. Nel Nuovo Testamento è detto: "Vi ordino di amarvi l'un l'altro". Tutte le religioni predicano la pace tra gli uomini» (“Il razzismo spiegato a mia figlia”, Bompiani 2010). Ora, sembra che in ogni religione ci siano abbondanti riferimenti alla pace. Forse la questione della violenza deve essere indagata ad un livello più profondo e non può essere ridotta esclusivamente all’intolleranza religiosa. Persino Richard Dawkins, un etologo fortemente critico nei confronti della religione, sa bene questo e scrive: «Non nego che la forte tendenza dell’umanità a essere fedele al proprio gruppo e ostile ai gruppi esterni esisterebbe anche senza la religione». Uno specialista come Steven Pinker, professore di psicologia all'Università di Harvard, in un complesso studio sulla violenza (“Il declino della violenza”, Mondadori 2013) afferma che genocidi e guerre sono esistiti anche indipendentemente dalle religioni. Facendo riferimento agli studi sui massacri avvenuti nella storia, egli ricorda che gli studiosi Frank Chalk e Kurt Jonassohn hanno dichiarato nella loro “Storia e sociologia del genocidio” che: «Il genocidio è stato praticato in tutte le regioni del mondo e in tutti i periodi della storia». Anche il professore di Scienze politiche Rudolph Joseph Rummel, noto per i suoi studi sulle violenze di massa e per aver coniato il termine “democidio”, è arrivato alla seguente conclusione: «che imperatori, re, sultani, khan, presidenti, governatori, generali e simili altri capi abbiano commesso omicidio di massa contro i loro stessi sudditi e cittadini o contro coloro che erano sotto il loro controllo o protezione, fa parte (e in modo molto rilevante) della nostra storia». La tendenza alla violenza ha dunque molte ragioni: spesso chi ha potere uccide per eliminare una minaccia reale o percepita, per diffondere il terrore tra i nemici, per acquisire ricchezze economiche o per imporre la propria ideologia. La fede - ossia la fiducia dell’uomo nella trascendenza – in sé non è pericolosa, sono piuttosto gli uomini esaltati ad esserlo perché, mascherando il loro desiderio di potere e strumentalizzando la fede, si riducono a compiere azioni rovinose per la collettività.
Un caro saluto,
Alberto