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Cor-rispondenze

lunedì 25 aprile 2011

Il dolore innocente


Riporto una risposta alla domanda di una bambina giapponese di papa Benedetto XVI trasmessa nel pomeriggio di venerdì 22 aprile da Rai uno nel programma "A sua immagine. Domande su Gesù", condotto da Rosario Carello.

"Mi chiamo Elena, sono giapponese ed ho sette anni. Ho tanta paura perché la casa in cui mi sentivo sicura ha tremato, tanto tanto, e molti miei coetanei sono morti. Non posso andare a giocare nel parco. Chiedo: perché devo avere tanta paura? Perché i bambini devono avere tanta tristezza? Chiedo al Papa, che parla con Dio, di spiegarmelo".

Cara Elena, ti saluto di cuore. Anche a me vengono le stesse domande: perché è così? Perché voi dovete soffrire tanto, mentre altri vivono in comodità? E non abbiamo le risposte, ma sappiamo che Gesù ha sofferto come voi, innocente, che il Dio vero che si mostra in Gesù, sta dalla vostra parte. Questo mi sembra molto importante, anche se non abbiamo risposte, se rimane la tristezza: Dio sta dalla vostra parte, e siate sicuri che questo vi aiuterà. E un giorno potremo anche capire perché era così. In questo momento mi sembra importante che sappiate: "Dio mi ama", anche se sembra che non mi conosca. No, mi ama, sta dalla mia parte, e dovete essere sicuri che nel mondo, nell'universo, tanti sono con voi, pensano a voi, fanno per quanto possono qualcosa per voi, per aiutarvi. Ed essere consapevoli che, un giorno, io capirò che questa sofferenza non era vuota, non era invano, ma che dietro di essa c'è un progetto buono, un progetto di amore. Non è un caso. Stai sicura, noi siamo con te, con tutti i bambini giapponesi che soffrono, vogliamo aiutarvi con la preghiera, con i nostri atti e siate sicuri che Dio vi aiuta. E in questo senso preghiamo insieme perché per voi venga luce quanto prima.

Perché è così? Potremmo aspettarci dal papa Benedetto XVI raffinati ragionamenti, scorciatoie razionali della teologia sistematica, espedienti logici nel tentativo di fornire una risposta generale e risolutiva. Ma il papa ha scelto un’altra strada, ha scelto di dire quello che tutti gli uomini intimamente sentono, quello che sta sotto la superficie delle parole e delle ideologie: «non abbiamo le risposte», intendendo che non è l’uomo la misura di tutte le cose, ma che esiste una verità più grande che l’uomo non può ridurre completamente alla propria ragione. Il papa esprime un’analogia con la sofferenza di Cristo, irrazionale, ingiustificata, incomprensibile per chi crede che Cristo sia Dio, ma esprime la fiducia in un Dio che è amore e che non può essere contro l’uomo. E questo gli fa dire «questa sofferenza non era vuota, non era invano, ma che dietro di essa c'è un progetto buono, un progetto di amore». Bisogna crederci, perché non si possiedono certezze, perché la verità del mondo e dell’essere più in generale supera ancora di molto la comprensione. Che dire. Anch’io spero la stessa cosa, che ci sia un senso al dolore che lavora l’uomo da dentro, alla sofferenza lenta che guasta, sfinisce e corrode i corpi, che fa esplodere pensieri martellanti nelle menti, che annebbia la fiducia e la speranza. Anch’io spero che le sofferenze non siano invano. Che non siano invano le sofferenze di tutti coloro che nella vita non hanno avuto possibilità, non hanno avuto alternative e non hanno avuto amore.
alberto

lunedì 18 aprile 2011

lunedì 11 aprile 2011

Momenti sempre impressi


Caro professore,
Perché ci sono dei momenti nella vita che ci rimangono sempre impressi e non possiamo fare nulla per dimenticarli? Penso che la mia vita è cambiata molto da quando ho visto soffrire una persona a me cara, e in certi momenti (per problemi di salute) ho anche rischiato di perderla per sempre. Pensare a ciò mi fa male e non riesco a cancellare questo momento perché anche oggi - e credo per sempre - ci saranno delle conseguenze di questo fatto. Tutti i momenti che ho vissuto fanno parte della mia vita e purtroppo mi seguiranno sempre.
Rosa



Cara Rosa,
Portiamo dentro le impressioni dell’infanzia, i ricordi belli di alcune giornate trascorse con gli amici o a casa un compagno caro, le prime esplorazioni del mondo mano nella mano dei genitori. Ma portiamo nel nostro animo anche ricordi che vorremmo cancellare: eventi sgradevoli che vorremmo non fossero successi, brutte figure in pubblico, o eventi dolorosi per la perdita di persone care. Portiamo nell’intimo le parole di un tempo lontano, parole che riscaldano il cuore e riaccendono il sorriso e parole che conservano ancora una brutta eco. Potremmo chiederci quali avvenimenti (e quali parole) abbiano conseguenze rilevanti sulla nostra vita e quali no. Forse Freud direbbe che le ripercussioni ci sono comunque e lavorano nella nostra psiche in modo sotterraneo, anche se non ne siamo consapevoli. Come possiamo stabilire se un evento incide o meno sulla vita futura? E poi perché un solo evento si imprime in modo così duraturo nella memoria e una serie di eventi ripetuti possono essere dimenticati?
La macchia di sangue sulla mano di Macbeth può essere cancellata: incancellabile è la macchia invisibile che l'aver commesso il crimine lascia in un'anima criminale. «What's done is done», dice lady Macbeth”, scrive Jankelevic in un bellissimo libro intitolato “La morte” [1977] [Einaudi 2009]. I ricordi in alcuni casi sono come macchie invisibili: l’evento è dissolto dal tempo, ma la macchia si insedia in profondità e modifica la tavolozza dei colori con cui guardiamo il mondo. Il filosofo Henri Bergson nell’opera “Materia e memoria”[1896][Laterza 1996], scriveva che “In realtà non c'è percezione che non sia impregnata di ricordi. Ai dati immediati e presenti dei nostri sensi noi mischiamo mille e mille dettagli della nostra esperienza passata. Il più delle volte, questi ricordi spostano le nostre reali percezioni, delle quali, allora, non riteniamo che qualche indicazione, semplici «segni», destinati a farci ricordare vecchie immagini”. Questo per dire che un po’ tutto quello che accade nella storia individuale orienta lo sguardo sul mondo e che certe situazioni del presente richiamano immediatamente ricordi lontani, talvolta rinnovano la sofferenza, talvolta ci rendono più sensibilizzati verso la vita. L’esposizione alla sofferenza di una persona, e ancor di più di un familiare, destabilizza emotivamente e cognitivamente chiunque. Gli eventi dolorosi portano dinanzi agli occhi la natura tragica dell’esistenza e richiamano alla mente la caducità dell’uomo. Nell’altro che soffre e poi muore scopriamo una delle caratteristiche peculiari della vita, la fragilità. Nella fragilità, nella sofferenza e nella morte dell’altro, vediamo un’anticipazione della nostra morte. Non solo temiamo di perdere le persone care, ma ci rendiamo conto che anche la nostra vita non è infinita, ma è instabile e precaria e si sviluppa nello spazio delle possibilità. Eppure sono gli eventi dolorosi a rendere acute le riflessioni, è la fragilità che acquisiamo a renderci più attenti, più premurosi, più concentrati, talvolta più impegnati. Attraverso la sofferenza prendiamo congedo dalle proteiformi illusioni sulla vita che ci siamo creati. Impariamo che la vita non ci appartiene completamente e conosciamo la reale condizione dell’uomo. Perdiamo certamente delle certezze, ma le certezze che abbandoniamo erano persuasioni infantili, sicurezze superficiali, convincimenti approssimativi. Nel mare della vita non abbiamo bisogno di astratte razionalizzazioni fantastiche, consolatorie e contemporaneamente inefficaci, ma di affinare la sensibilità, per comprendere meglio la vita che ci ospita e le persone che ci sono accanto. Vivendo intensamente anche i momenti dolorosi, sviluppiamo l’empatia necessaria per comprendere i nostri simili, affiniamo la tavolozza dei sentimenti e, insieme, una comprensione più profonda della vita. Attraverso l’autoeducazione forgiata dagli eventi della vita, costruiamo una cartina dei sentimenti e delle ragioni più raffinata. La fragilità allora diventa una grande forza che ci permette di comprendere meglio le persone con cui entriamo in relazione, di capirne gli affanni, di giustificarne alcune debolezze, di abbracciare così globalmente le caratteristiche complessive di ogni persona. Può sembrare strano, ma la fragilità ci arricchisce di conoscenza e di empatia. Questa nuova sensibilità accresciuta è la prova che diventiamo più umani.
Un caro saluto,
alberto

lunedì 4 aprile 2011

Fortuna-sfortuna?



Caro professore,
Ci sono periodi in cui mi sento davvero sfortunata. Una persona che credevo amica mi ha rubato il fidanzato, ho passato un compito ad un compagno e lui ha preso un voto più alto del mio nell'interrogazione...Potrei continuare...A volte penso che ci siano persone a cui va sempre tutto bene e altre che nonostante gli sforzi non hanno proprio fortuna nella vita.
Roberta



Cara Roberta
Una storiella, per cominciare...
"C’era una volta in un lontano paesetto un povero contadino che traeva di che vivere da un campicello che lavorava assieme alla moglie e al figlio e con l’aiuto di un cavallo. Un giorno il recinto venne lasciato inavvertitamente aperto e il cavallo fuggì. I vicini, appresa la notizia, esclamarono: “Poveretto, che sfortuna, e adesso come farai a lavorare?”. Il contadino rispose: “Sfortuna, fortuna, e chi può dirlo!” I vicini restarono perplessi nel sentire quella strana risposta. Dopo qualche settimana il cavallo che era scappato tornò portandosi dietro una mandria di cavalli selvaggi che furono rinchiusi nel recinto. I vicini, vedendo tutti quei cavalli, esclamarono: “Che fortuna!” E il contadino ancora una volta rispose: “Fortuna, sfortuna, e chi può dirlo!” I vicini restarono ancora più perplessi nel sentire quella risposta. Dopo qualche giorno, mentre il figlio stava domando uno dei cavalli, cadde a terra e si ruppe un piede. I vicini subito esclamarono: “Che sfortuna, e adesso come fai?!” E il contadino ancora una volta rispose: “Sfortuna, fortuna, e chi può dirlo!”. I vicini non sapevano più che cosa pensare del vecchio. "Forse è matto!", pensarono. Dopo qualche settimana comparvero in paese alcuni soldati che reclutavano i giovani validi per la guerra. Quando entrarono nella capanna trovarono il giovanotto zoppicante e naturalmente lo scartarono, mentre tutti gli altri giovani furono reclutati. I vicini non ci videro più: “Che mazzo, che fortuna!” E il vecchio contadino ancora una volta rispose imperturbabile: “Fortuna, sfortuna, e chi può dirlo”. "
...
Ho ritrovato questa storiella divertente riportata in un libro (ma si trova anche in internet). A volte definiamo le esperienze che contrastano le nostre aspettative come eventi sfortunati. Ma la vita, anche con le sue brusche sterzate, non necessariamente deve essere considerata sfortunata. Molto dipende dall'atteggiamento con cui interpretiamo o affrontiamo gli eventi. La storiella insegna che ciò che appare a noi (o alla maggioranza delle persone) un evento sfortunato, in realtà - anche se fa soffrire - non necessariamente deve essere considerato negativamente. La rottura di un'amicizia importante genera profonda sofferenza, ma può anche essere lo stimolo per renderci attivi per incontrare nuove persone con le quali possiamo scoprire maggiori affinità. L'abitudine a ritenere che la vita debba scorrere liscia su binari perfetti ci fa ritenere il cambiamento improvviso una sfortuna, ma la vita è fatta di eventi che, come gli scarti ferroviari, deviano il nostro cammino in una direzione o in un'altra. E' meglio considerare ogni cambiamento come una nuova opportunità che la vita ci offre. Gradualmente scoprirai che proprio alcuni cambiamenti, inaspettati e difficili da accettare, possono metterci di fronte nuove prospettive che non avevamo considerato e che permettono invece di gettare nuova luce (e felicità) nella nostra vita.
Un caro saluto,
alberto