Cerca nel blog

Cor-rispondenze

lunedì 29 marzo 2021

La meraviglia



Sia Platone sia Aristotele ritengono che la filosofia abbia avuto inizio dalla meraviglia. Nel “Teeteto” Platone mette in bocca a Socrate queste parole: «Ed è proprio del filosofo questo che tu provi, di esser pieno di meraviglia; né altro cominciamento ha il filosofare che questo». E sulla stessa linea è Aristotele, che nel primo libro della “Metafisica” scrive: «infatti gli uomini, sia nel nostro tempo sia dapprincipio, hanno preso dalla meraviglia lo spunto per filosofare, poiché dapprincipio essi si stupivano dei fenomeni che erano a portata di mano e di cui essi non sapevano rendersi conto». Quante volte abbiamo intuito questa verità. Di fronte al fascino di un paesaggio: dallo scenario mozzafiato che si apre da un’altura allo spettacolo di luci e colori del mare calmo o burrascoso, apparentemente senza confini; dalla sensazione di pace di una passeggiata nel bosco all’incanto dello sguardo perso nel cielo stellato, sensazione tanto cara anche a Kant. Siamo deliziati dalla natura e dalla vita, ammaliati di fronte al miracolo dell’esistenza: la storia della filosofia è in fondo un elogio di tali fenomeni. Per citare due grandi autori, vale la pena evocare lo stupore di Leibniz quando scrive alla regina Sofia Carlotta di Prussia: «Tutto ciò che ne segue di sorprendente è che le opere di Dio sono infinitamente più belle e più armoniche di quanto non si fosse creduto» o quello di Wittgenstein: «Mi meraviglio per l’esistenza del mondo». Ma ogni uomo è suggestionato dal prodigio della vita nelle sue molteplici forme e dalla bellezza della natura che prima ci sorprende e poi ci zittisce. Sbalorditi di fronte alla complessità e alla potenza della vita, alla sua unicità e inimitabilità restiamo prima disorientati, senza fiato e senza parole, ma poi ci poniamo delle domande. La vita viene ripresa nel pensiero o, per dirla con Hegel, «l’esistenza immediata si ribalta nel pensiero». La ragione di fronte alla realtà si attiva e scruta pazientemente. Forse è proprio così: abbiamo cominciato a pensare perché siamo stati “gettati” nella vita, ma quando abbiamo aperto gli occhi siamo rimasti spiazzati dalla sua bellezza e sedotti dalla sua armonia. Non ci siamo limitati a sognare e ad ammirare il piccolo luogo in cui siamo venuti al mondo, ma abbiamo cercato di produrre risposte plausibili per l’universo che provvisoriamente ci ospita. Secondo Aristotele l’abbiamo fatto «con lo scopo di sfuggire all’ignoranza». Non c’è dubbio, e probabilmente siamo un po’ tutti d’accordo con questa idea. L’incanto del mondo attiva la  curiosità e sollecita il desiderio di sapere. L’origine greca della parola meraviglia, “thauma”, ha tuttavia un significato ambivalente. Indica un profondo senso di vertigine: un insieme di compiaciuto smarrimento di fronte alla realtà e di profondo sconvolgimento di fronte all’imprevisto. Il filosofo italiano che forse ha prestato più attenzione all’origine di questa parola è il bresciano Emanuele Severino. In molte opere egli ha evidenziato che “thauma” non denota solo meraviglia («è una traduzione che porta fuori strada»), ma anche terrore; il terrore di fronte a ciò che angoscia. Quali elementi angosciano l’uomo? Il dolore e la morte. Di fronte a tali realtà gli uomini non si sarebbero più accontentati delle opinioni veicolate dai miti, ma avrebbero sentito la necessità di cercare risposte razionali: non consolatorie, ma vere. E per fare questo hanno dovuto guardare in faccia la tristezza e la disperazione. Scrive l’autore: «“Thaumaè infatti, innanzitutto, l'angosciato stupore, lo stordimento e il terrore dell'uomo dinanzi al divenire della vita, cioè dinanzi al dolore e alla morte». Ecco il doppio volto della meraviglia. Già, perché se lo stupore è lo stato d’animo che si prova di fronte all’essere, il terrore è quello che si avverte di fronte al nulla; lo stupore è per ciò che esiste, l’orrore nasce dalla consapevolezza che le cose si dissolvono e scompaiono. Chissà se abbiamo cominciato a pensare perché sollecitati dalla vita o perché scombussolati di fronte alla morte. Forse è proprio questa perenne oscillazione tra la luce dell’esistenza e il vuoto del nulla ad aver scosso l’uomo e destato il pensiero. Non conoscendo le cause dei fenomeni gli uomini non potevano stare a lungo nell’inquietudine ed hanno cominciato a cercare risposte credibili che riducessero le loro preoccupazioni. Insomma, secondo Severino, l’uomo era spaventato dal divenire «inteso come l'uscire dal niente e il ritornarvi». Stupore per la vita e paura della morte, ammirazione per l’armonia e sgomento per il suo disfacimento. C’è molta verità anche in questa interpretazione. Tuttavia, se è vero che dalla meraviglia nasce la filosofia, ossia il pensiero razionale, è però vero anche l’opposto: dalla filosofia si origina la meraviglia. In ogni epoca il pensiero razionale ha gettato una nuova luce sulla realtà e ha innescato riflessioni o teorie, e pertanto ha continuamente generato altra meraviglia. Gli esempi sono infiniti: tra i tanti, lasciano a bocca aperta il nuovo modo di concepire la conoscenza, la morale o l’estetica di Kant o l’idea che il finito sia una variazione dell’infinito di Hegel. C’è dunque un rapporto biunivoco tra meraviglia e filosofia: il primo stato d’animo – positivo o negativo – suscita il pensiero, ma poi la filosofia determina un ulteriore miracolo: origina insolite visioni del mondo e invita a considerare i problemi in modo nuovo.

Un caro saluto,

Alberto

lunedì 22 marzo 2021

La ricerca

 




«Una vita senza ricerca non è degna di essere vissuta», afferma Socrate nell’ “Apologia” scritta da Platone. Quale vita è degna di essere vissuta? Il tema in gioco non è certo una più o meno inquietante riflessione sul diritto alla vita. Dato per scontato che ogni vita ha valore, deve essere garantita e tutelata, ma anche assistita nel suo divenire e nel suo sviluppo, c’è un modo di chiedersi quale condotta maggiormente si addica ad un uomo razionale. Qual è il modo più decoroso di vivere, lo stile con cui affrontare il percorso più o meno lungo che ci attende? Potremmo ribaltare la domanda e individuare quegli elementi la cui mancanza impedisce la piena realizzazione della vita. Forse «una vita senza amore», «senza amicizia», «senza affetti» è meno degna di essere vissuta? Percepiamo immediatamente che c’è del vero in ogni sentenza, perché sappiamo quanto siano vitali l’amore, l’amicizia e le relazioni, e quanto sia dolorosa la loro assenza. Ma potremmo annoverare altre privazioni: «senza lavoro», «senza diritti», «senza salute», «senza denaro», «senza prospettive», «senza libertà» e continuare ad elencare molte altre carenze fondamentali. È pertanto necessario intenderci sul significato da attribuire all’aggettivo “degno”. Se intendiamo degno nel senso di dignitoso, allora ci riferiamo alla qualità della vita, e affermiamo giustamente che una vita propriamente umana è tale solo se beneficia di diritti, libertà e relazioni. Ma se intendiamo “degno” in riferimento al modo più opportuno per ogni singolo uomo di condurre la propria vita, allora ci accorgiamo che, anche con più o meno diritti, libertà e relazioni soddisfacenti, ciò che è specifico dell’uomo è l’uso del pensiero in ogni occasione e in qualunque condizione egli sia costretto a vivere. Si può infatti essere privati provvisoriamente della libertà esteriore, ma non di quella interiore di pensiero; si può godere di scarsa salute, ma si possono esercitare adeguatamente le proprie facoltà razionali; si può beneficiare di un numero modesto di diritti e, nonostante questo, essere in grado di ideare soluzioni per creare nuovi ordinamenti giuridici o correggere quelli esistenti. Secondo Socrate, dunque, non è la condizione che ci è capitata ad essere indegna, ma sono l’assenza di pensiero, di ricerca razionale e di una costante tensione verso la verità a svilire l’uomo. Tutti sanno che Socrate non ha lasciato scritti e non ha veicolato una concezione del mondo definitiva, ma ha messo in evidenza il modo in cui egli credeva fosse necessario disporsi nei confronti della vita. Voleva insegnare che la ricerca è più importante delle opere stesse. Non poteva fare a meno della ricerca, perché diceva che «non è possibile io viva quieto», in quanto questo avrebbe significato «disobbedire al dio», alla sua chiamata interiore che gli imponeva di aiutare il prossimo a non accontentarsi dell’ovvietà, dell’abitudine, della routine, delle tradizioni e dei costumi. Se uno vuole avvicinarsi a Socrate non deve imparare e replicare una “dottrina”, ma deve abbracciare un metodo: la pratica costante dell’indagine. Egli in fondo non cercava ripetitori o followers, ma valorizzava le persone per la loro capacità di generare un dialogo costante finalizzato alla conoscenza della verità; ha rinunciato alla fama per mostrarci uno stile, ha rifiutato la risonanza e la popolarità delle sue intuizioni, affinché considerassimo che il bene maggiore è «ragionare ogni giorno della virtù e degli altri argomenti sui quali m’avete udito disputare e far ricerche su me stesso e sugli altri», e questo perché «una vita che non faccia di cotali ricerche non è degna d’esser vissuta». Socrate è così fortemente convinto dell’importanza della ricerca che, nel momento in cui viene condannato a morte, chiede ai suoi concittadini di esigere verso i propri figli quello che lui ha richiesto alle persone che ha incontrato: rinunciare all’apparenza e pretendere la verità. Nelle ultime pagine dell’ “Apologia” egli infatti afferma: «Ora io a costoro non ho da fare altra preghiera che questa: i miei figlioli, quando siano fatti grandi, castigateli, o cittadini, cagionando loro gli stessi fastidi che io cagionavo a voi, se a voi sembra si diano cura delle ricchezze o di beni altrettali piuttosto che della virtù; e se diano mostra di essere qualche cosa non essendo nulla, svergognateli, com’io svergognavo voi, che non curino ciò che dovrebbero e credano valer qualche cosa non valendo nulla. Se così farete, io avrò avuto da voi quel ch’era giusto che avessi: io e i miei figlioli». È il più bel testamento non solo di un filosofo, ma di un padre, che non ha come obiettivo quello di lasciare in eredità ai propri figli vasti terreni, colossali ricchezze o prestigiose posizioni di potere, ma un bene più prezioso: la ricerca dell’autenticità. Poiché questo processo di “umanizzazione” è lungo e il risultato è arduo da conseguire, Socrate ritiene che debba essere coinvolta la comunità intera. La ricerca rende allora la vita degna di essere vissuta perché rappresenta la modalità corretta di disporsi in qualunque tipo di relazione: d’amore, di amicizia, di lavoro o nel campo del sapere più in generale, perché permette di non cristallizzare le relazioni né la conoscenza: di non trasformare gli altri in oggetti per i nostri fini, di vincere i pregiudizi sociali e le ostinazioni culturali. 
Un caro saluto,
Alberto

lunedì 15 marzo 2021

L' ingiustizia

 



La morale di Socrate contiene indubbi elementi di novità rispetto alla mentalità greca. Uno di questi è la massima secondo cui «è preferibile subire il male piuttosto che commetterlo». Si tratta di un principio morale, naturalmente, e non ha a che fare con la sfera del diritto. Il male in un ordinamento giuridico civile va punito in base alla sua entità, dunque per gradi: maggiore o minore è il danno, maggiore o minore sarà la pena. Ma la scelta di Socrate si riferisce al modo più opportuno di amministrare il proprio comportamento: qual è il modo migliore di vivere, di stare al mondo, di reagire alle azioni altrui? Ognuno, naturalmente, può scegliere di ribellarsi, di contrastare o di anticipare l’avversario compiendo un’ingiustizia, mentre, secondo Socrate, chi si astiene dal compiere il male si trova in una condizione privilegiata: non solo è virtuoso, ma è più felice. È una credenza che si lega alla sua concezione della virtù: secondo il filosofo ateniese solo l’uomo virtuoso e giusto può essere soddisfatto, appagato e felice, mentre chi si comporta in modo immorale ed ingiusto, oltre ad abbruttire la propria anima, con il passare del tempo renderà la propria esistenza povera, sventurata e, pertanto, infelice. L’opera di riferimento è il “Gorgia” di Platone. Socrate dialoga con Polo di Agrigento, allievo del grande sofista a cui è intitolato il libro. Egli afferma dunque che «il male supremo che ci possa capitare è quello di commettere ingiustizia». Polo, come forse ogni uomo comune, non nasconde una certa diffidenza e si chiede come sia possibile che compiere un’ingiustizia sia da considerarsi un male così grande. Non è forse peggio dover subire un male e affliggersi per l’ingiustizia altrui? Socrate si oppone a questa visione – ovviamente non vorrebbe né patire né commettere soprusi o ingiustizie – ma, se fosse costretto a scegliere, preferirebbe subire il male piuttosto che compierlo. Per Polo si tratta di una stravaganza o di un paradosso. Basta infatti conoscere un po’ gli uomini per sapere che molte persone pur commettendo abusi o prepotenze sono felici. Per contrastare quindi il motto socratico, apparentemente bizzarro, Polo evoca la storia di Archelao – figlio di Perdicca – governatore della Macedonia. Sostiene che non avrebbe dovuto ottenere il potere, perché figlio di una donna schiava di Alceta, fratello di Perdicca. Quindi, secondo il diritto, anche lui avrebbe dovuto essere considerato uno schiavo. Un giorno, però, Archelao invita Alceta con il pretesto di restituirgli il governo e dopo averlo ospitato lo fa ubriacare, lo sgozza e lo fa sparire. Polo afferma, ironicamente, che compiuto quel delitto Archelao «non si accorse di essere diventato estremamente infelice e non si pentì». E dopo poco tempo, invece di crescere onestamente suo fratello – figlio legittimo di Perdicca – un fanciullo di sette anni cui secondo giustizia sarebbe spettato il governo, lo getta in un pozzo e lo fa annegare. Poi si reca dalla madre, Cleopatra, e le dice che il ragazzo inseguendo un’oca è precipitato in un pozzo ed è morto. Alceta, pur commettendo gravissimi delitti, è riuscito a sfuggire alla giustizia, a diventare capo di un immenso regno e ad avere ampi poteri. Non è affatto disgraziato, ma è felice: pare persino che molti macedoni vorrebbero essere al suo posto, godere della sua agiatezza e del suo ruolo di comando. Socrate allora interviene e chiede al suo interlocutore di individuare i mali dell’uomo. Entrambi concordano che questi sono la povertà, la malattia e l’ingiustizia. I primi due sono mali del corpo, il terzo è un male dell’anima, in fondo il più brutto dei mali, perché chi è ingiusto provoca danni non solo agli altri ma anche a sé. Allora Socrate ricorda che gli uomini afflitti dalla malattia sono di solito disponibili a sopportare qualche dolore pur di tornare sani, mentre chi, al contrario, contraendo una malattia si volesse sottrarre al giudizio dei medici non potrebbe guarire e farebbe del male a se stesso. Analoga è la situazione per i mali dell’anima: è necessaria l’azione della giustizia per fare in modo che l’anima torni ad essere sana. Se liberarsi dalla malvagità significa diventare migliori, sottrarsi alla pena rivela, secondo Socrate, il perdurare del male. Come l’antica crematistica – l’arte di saper produrre ricchezza – libera l’uomo dalla povertà e la medicina dalle malattie, la giustizia libera l’uomo dal vizio e dall’ingiustizia. Ora si può cercare di essere retti, perché si teme un giudizio. Platone mette infatti in bocca a Socrate queste parole: «guardo di fare in modo di potere un giorno mostrare al giudice quanto più sana è possibile l’anima mia», oppure si può preservare la propria anima sul sentiero della giustizia, perché si pensa che sia un buon modo di sovrintendere il proprio viaggio individuale senza doversi mai dolere delle proprie azioni. È una decisione morale: l’uomo sceglie di comportarsi bene perché vuole conservare la rettitudine nel corso del tempo. In questo caso, la più grande soddisfazione per un uomo virtuoso consiste nel riuscire ad essere giusto anche in mezzo a persone corrotte, arriviste e malvage. Una vita buona diventa allora una vita bella, ed è per questo che produce felicità. Chissà se la psiche dell’uomo contemporaneo è ancora in grado di registrare che l’ingiustizia lo abbruttisce e lo rende misero in quanto assoggettato al male.

Un caro saluto,

Alberto


lunedì 8 marzo 2021

Conosci te stesso 3/3

 


Quando Ulisse e i suoi compagni sbarcano nella terra dei Ciclopi sono immediatamente catturati da Polifemo che li tiene prigionieri dentro una caverna la cui uscita è ostruita da un masso. Mentre Ulisse porge del vino al gigante, quest’ultimo vuole conoscere il nome dell’uomo che gli ha offerto da bere. Ulisse allora risponde: «Ciclope, tu mi domandi il mio nome. E io te lo dirò. [...] Nessuno è il mio nome: Nessuno mi chiamano la madre e il padre e anche tutti i compagni». Polifemo ribatte: «Nessuno, io, per ultimo me lo mangerò». Ma quando riesce a tornare sulla nave, Ulisse non afferma più di essere “Nessuno”, ma urla il proprio nome: «Ciclope, se qualcuno ti domanda, tra gli uomini mortali, di questo sconcio accecamento dell’occhio, dirai che ti accecò Odisseo, il distruttore di città: sì, il figlio di Laerte, che ha in Itaca le sue case». Chi è l’uomo alla nascita? Potremmo parafrasare questa storia e rispondere allo stesso modo di Ulisse lasciando intendere che è “Nessuno”, ma sappiamo che prima di congedarsi dalla vita quasi ogni uomo gradirebbe rispondere in modo cristallino e riferire una precisa identità: vorrebbe infatti poter dire chi è e chi è stato. L’identità è l’essenza dell’uomo. E poiché l’essenza (chi siamo) non è stabilita una volta per tutte nel momento in cui veniamo al mondo – come avviene per una rosa o un albero –, per comprendere se stessi è importante scorgere il movimento della propria vita: la direzione del sentiero che infinite scelte più o meno meditate e ripetute tracciano, giorno dopo giorno, nella formazione del carattere, nella decisione della professione, nel modo di guardare il mondo e di stare al mondo. Molti filosofi del Novecento hanno ribadito che l’essenza dell’uomo non è fissata una volta per tutte, ma si determina gradualmente nel corso dell’esistenza. Martin Heidegger in “Essere e tempo” (1927) sostiene che «l’essenza dell’Esserci [dell’uomo] consiste nella sua esistenza» e qualche anno dopo  Jean Paul Sartre nell'opera “L’esistenzialismo è un umanismo” (1946) afferma che «l’esistenza precede l’essenza». Entrambi – anche se seguiranno strade molto diverse – ritengono che le possibilità che si aprono all’uomo gli consentono di determinarsi. Sartre intende dire che l’uomo «si trova, sorge nel mondo, e [...] si definisce dopo. L’uomo, secondo la concezione esistenzialistica, non è definibile in quanto all’inizio non è niente. Sarà solo in seguito, e sarà quale si sarà fatto». L’uomo diventa dunque quello che “vuole” essere o, per dirla con le parole del filosofo, «l’uomo non è altro che ciò che si fa». C’è dunque una sorta di tensione essenziale che accompagna la vita: tra tante possibilità, l’uomo è libero di scegliere ed è responsabile di ciò che diviene e dell’esistenza che realizza. Indagare le ragioni che spingono a prediligere alcuni valori rispetto ad altri significa mettere in luce gli obiettivi individuali che rendono unica la vita di ciascuno  (“la causa finale”). Allora: è davvero possibile conoscere se stessi? E soprattutto: è possibile farlo da soli? C’è un bel dialogo di Platone intitolato “Alcibiade” in cui Socrate e Alcibiade si interrogano sulla sentenza dell’oracolo di Delfi e sulla possibilità di conoscere l'anima. Socrate dice: «Hai osservato poi che a guardare qualcuno negli occhi si scorge il volto nell’occhio di chi sta di faccia, come in uno specchio, che noi chiamiamo pupilla perché è quasi un’immagine di colui che la guarda». « – È vero –», risponde il giovane amico. E Socrate allora conclude: «Dunque se un occhio guarda un altro occhio e fissa la parte migliore dell’occhio, con la quale anche vede, vedrà se stesso. [...] Ora, caro Alcibiade, anche l’anima se vuole conoscere se stessa, dovrà fissare un’anima, e soprattutto quel tratto di questa in cui si trova la virtù dell’anima, la sapienza, e fissare altro a cui questa parte sia simile». Come guardando attentamente nel foro al centro dell’iride si vede una piccola immagine di sé – e questo è il motivo del nome “pupilla”, “bambina” – così attraverso l’altro è possibile vedere riflessa non solo la propria immagine fisica, ma la natura della propria “anima”. Forse l’uomo sarà sempre un «mostro incomprensibile», come diceva Pascal, ma è certo che attraverso il rapporto con l’altro ogni individuo matura un’esperienza di sé. Perché l’uomo è relazione: con il passato, grazie al legame con la civiltà a cui appartiene e con la propria storia famigliare; con il presente, nei nessi inesauribili con il mondo fisico e interpersonale; e con il futuro, nel riferimento agli obiettivi e ai valori in cui crede. Da sempre, dunque, egli si comprende e si determina nella relazione. Quel signor “Nessuno”, che «all’inizio non è niente», impara qualcosa di sé proprio mentre quotidianamente muta, si forma, si educa, si corregge, si peggiora o si migliora. La conoscenza di sé, per quanto approssimativa, se da una parte non è riconducibile alla conoscenza di un oggetto del mondo, dall’altra non è neppure un’impresa del tutto impossibile. È una «conoscenza itinerante», paziente e scrupolosa che accompagna l’uomo per tutta la vita e che non si esaurisce mai. Chi ha chiaro che tale sapere passa attraverso la relazione con il mondo e con il prossimo, forse alla fine della propria vita potrà dichiarare con maggiore o minore lealtà – come Ulisse – chi era o chi aveva immaginato di essere.

Un caro saluto,

Alberto