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Cor-rispondenze

lunedì 22 marzo 2021

La ricerca

 




«Una vita senza ricerca non è degna di essere vissuta», afferma Socrate nell’ “Apologia” scritta da Platone. Quale vita è degna di essere vissuta? Il tema in gioco non è certo una più o meno inquietante riflessione sul diritto alla vita. Dato per scontato che ogni vita ha valore, deve essere garantita e tutelata, ma anche assistita nel suo divenire e nel suo sviluppo, c’è un modo di chiedersi quale condotta maggiormente si addica ad un uomo razionale. Qual è il modo più decoroso di vivere, lo stile con cui affrontare il percorso più o meno lungo che ci attende? Potremmo ribaltare la domanda e individuare quegli elementi la cui mancanza impedisce la piena realizzazione della vita. Forse «una vita senza amore», «senza amicizia», «senza affetti» è meno degna di essere vissuta? Percepiamo immediatamente che c’è del vero in ogni sentenza, perché sappiamo quanto siano vitali l’amore, l’amicizia e le relazioni, e quanto sia dolorosa la loro assenza. Ma potremmo annoverare altre privazioni: «senza lavoro», «senza diritti», «senza salute», «senza denaro», «senza prospettive», «senza libertà» e continuare ad elencare molte altre carenze fondamentali. È pertanto necessario intenderci sul significato da attribuire all’aggettivo “degno”. Se intendiamo degno nel senso di dignitoso, allora ci riferiamo alla qualità della vita, e affermiamo giustamente che una vita propriamente umana è tale solo se beneficia di diritti, libertà e relazioni. Ma se intendiamo “degno” in riferimento al modo più opportuno per ogni singolo uomo di condurre la propria vita, allora ci accorgiamo che, anche con più o meno diritti, libertà e relazioni soddisfacenti, ciò che è specifico dell’uomo è l’uso del pensiero in ogni occasione e in qualunque condizione egli sia costretto a vivere. Si può infatti essere privati provvisoriamente della libertà esteriore, ma non di quella interiore di pensiero; si può godere di scarsa salute, ma si possono esercitare adeguatamente le proprie facoltà razionali; si può beneficiare di un numero modesto di diritti e, nonostante questo, essere in grado di ideare soluzioni per creare nuovi ordinamenti giuridici o correggere quelli esistenti. Secondo Socrate, dunque, non è la condizione che ci è capitata ad essere indegna, ma sono l’assenza di pensiero, di ricerca razionale e di una costante tensione verso la verità a svilire l’uomo. Tutti sanno che Socrate non ha lasciato scritti e non ha veicolato una concezione del mondo definitiva, ma ha messo in evidenza il modo in cui egli credeva fosse necessario disporsi nei confronti della vita. Voleva insegnare che la ricerca è più importante delle opere stesse. Non poteva fare a meno della ricerca, perché diceva che «non è possibile io viva quieto», in quanto questo avrebbe significato «disobbedire al dio», alla sua chiamata interiore che gli imponeva di aiutare il prossimo a non accontentarsi dell’ovvietà, dell’abitudine, della routine, delle tradizioni e dei costumi. Se uno vuole avvicinarsi a Socrate non deve imparare e replicare una “dottrina”, ma deve abbracciare un metodo: la pratica costante dell’indagine. Egli in fondo non cercava ripetitori o followers, ma valorizzava le persone per la loro capacità di generare un dialogo costante finalizzato alla conoscenza della verità; ha rinunciato alla fama per mostrarci uno stile, ha rifiutato la risonanza e la popolarità delle sue intuizioni, affinché considerassimo che il bene maggiore è «ragionare ogni giorno della virtù e degli altri argomenti sui quali m’avete udito disputare e far ricerche su me stesso e sugli altri», e questo perché «una vita che non faccia di cotali ricerche non è degna d’esser vissuta». Socrate è così fortemente convinto dell’importanza della ricerca che, nel momento in cui viene condannato a morte, chiede ai suoi concittadini di esigere verso i propri figli quello che lui ha richiesto alle persone che ha incontrato: rinunciare all’apparenza e pretendere la verità. Nelle ultime pagine dell’ “Apologia” egli infatti afferma: «Ora io a costoro non ho da fare altra preghiera che questa: i miei figlioli, quando siano fatti grandi, castigateli, o cittadini, cagionando loro gli stessi fastidi che io cagionavo a voi, se a voi sembra si diano cura delle ricchezze o di beni altrettali piuttosto che della virtù; e se diano mostra di essere qualche cosa non essendo nulla, svergognateli, com’io svergognavo voi, che non curino ciò che dovrebbero e credano valer qualche cosa non valendo nulla. Se così farete, io avrò avuto da voi quel ch’era giusto che avessi: io e i miei figlioli». È il più bel testamento non solo di un filosofo, ma di un padre, che non ha come obiettivo quello di lasciare in eredità ai propri figli vasti terreni, colossali ricchezze o prestigiose posizioni di potere, ma un bene più prezioso: la ricerca dell’autenticità. Poiché questo processo di “umanizzazione” è lungo e il risultato è arduo da conseguire, Socrate ritiene che debba essere coinvolta la comunità intera. La ricerca rende allora la vita degna di essere vissuta perché rappresenta la modalità corretta di disporsi in qualunque tipo di relazione: d’amore, di amicizia, di lavoro o nel campo del sapere più in generale, perché permette di non cristallizzare le relazioni né la conoscenza: di non trasformare gli altri in oggetti per i nostri fini, di vincere i pregiudizi sociali e le ostinazioni culturali. 
Un caro saluto,
Alberto

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