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Cor-rispondenze

lunedì 18 maggio 2015

Senza discutere

https://perugiafreepress.files.wordpress.com/2012/03/il-mito-della-caverna.jpg
 
Caro professore,
Noto che il rispetto verso le altre persone di questi tempi è notevolmente calato. Trovo particolarmente irritante il fatto che sempre più spesso film, canzoni, persone, ecc., vengano giudicate con insulti senza alcuna argomentazione dietro e che quindi le persone che la pensano diversamente vengano prese di mira. È normalissimo che ci siano contrasti sulle opinioni, ma non trovo giusto “discuterne” insultandosi senza esprimere il proprio pensiero. Ciò risulta irrispettoso e infantile. Ne sono un esempio le persone che dopo aver visto “La grande bellezza” ne parlano su Twitter dove possono utilizzare 120 caratteri scrivendo cose tipo: «a me non è piaciuto perché fa schifo» e risposte come «tu non capisci niente». Tutti questi commenti sono inutili, perché non portano a nulla né a sapere perché una cosa è piaciuta o perché non lo è. Quindi mi chiedo perché le persone devono essere insultate per i loro gusti musicali o artistici in generale. Siccome la libertà di pensiero è per tutti. E una persona non può sentirsi superiore e offendere un’altra persona, mascherando questo insulto con un diritto. Questo infatti non è un suo diritto, può avere o esporre un’altra linea contrastante, ma non ha altri diritti. Perché le persone non capiscono che il loro pensiero non è verità assoluta e non devono imporsi pensando di essere migliori?
Nicole, IIIA

Cara Nicole,
Quello che racconti mi ricorda molto il film per bambini Home, in cui il capitano Smek, il gran capo dei Boov – extraterrestri con sei gambe – ha sempre ragione e ammutolisce coloro che osano dissentire dalle proprie idee colpendoli sulla testa con lo “zittone”, un bastone sormontato da una preziosa pietra ovale. Basta una botta per ristabilire la ragione e il modo per avere sempre ragione è quello di far tacere gli altri. Se il filosofo Ludwig Wittgenstein nel “Tractatus Logico-Philosophicus” (prop. 7) aveva detto che occorre dire ciò che si può enunciare chiaramente e tacere su ciò che non si può esprimere con altrettanta precisione, i giovani a cui ti riferisci vivono un paradosso: non riescono a riferire chiaramente un’idea, ma non riescono neppure a tacere. Non argomentano, perché non usano il loro vocabolario per esplicitare il punto di vista da cui guardano e giudicano, ma impiegano semplicemente il linguaggio come una clava (uno “zittone”), per affermare se stessi e interrompere l’occasionale interlocutore. Con l’impressione di indurre l’altro al silenzio, in realtà non si accorgono che anch’essi si sono ridotti al silenzio. Perché un pensiero indica una direzione dello sguardo, ma un grugnito non è un’idea e non addita vie percorribili alla ricerca. Questi ragazzi non impongono una concezione, ma semplicemente se stessi. Si collocano su un piedistallo e si autolegittimano come profondi conoscitori di qualche materia, ma non sanno dare conto dei loro giudizi, né produrre pensieri autonomi. Ripetono quello che il rumore di fondo della comunicazione dei media ha trasmesso con più efficacia. In fondo, un film – come quello di Paolo Sorrentino del 2013 – può accendere diverse emozioni e suscitare variegati commenti. Ma ogni interpretazione rivela sempre il punto di vista del soggetto: i suoi valori, le sue conoscenze, la sua visione del mondo o la sua idea (più o meno primitiva) dell’estetica, di ciò che è bello e delle ragioni per cui lo è. Si può esprimere un’insoddisfazione per un film, esplicitando i parametri su cui si concentra l’insofferenza. E le argomentazioni vengono giudicate se sono buone o cattive, conformistiche o autentiche, appiattite sull’abitudine o dotate di immaginazione creativa. Il conformismo invece vanifica ogni sforzo, azzera la novità e riduce tutto a riproduzione dell’abitudine. Ci potremmo chiedere: quale aumento di conoscenza e di comprensione abbiamo ricevuto? Nessuno. La persona che esprime il proprio “disappunto” in modo grossolano e sgarbato, e che crede di essere superiore, rivela in realtà quello che Max Horkheimer e Theodor W. Adorno (“Dialettica dell’Illuminismo”, 1947) avrebbero definito il «conformismo dei consumatori», ossia l’accettazione acritica della realtà confezionata dall’industria di massa. Non si rende neppure conto che ogni valutazione presuppone una disponibilità all’ascolto e che ogni comprensione è legata alle aspettative, alla formazione e alla disposizione del soggetto che analizza. Internet e Twitter sono ahimè diventati i luoghi dell’istinto gregario e non della mediazione; della certificazione della presenza, non dell’indagine razionale; dell’appartenenza ad un gruppo e non dell’individualità. L’anonimato, la distanza e la mancanza dell’interlocutore favoriscono i comportamenti istintivi e senza misura. Il sociologo Zigmunt Bauman ci ricorda che «l'uni­formità nutre il conformismo, e l'altra faccia del conformismo è l'intolleranza». Egli afferma che là dove c’è omogeneità è «estre­mamente difficile acquisire quelle capacità del carattere e quelle abilità pratiche necessarie per affrontare le diversità e le incertezze»: ed è per questo che – non avendo maturato tali virtù – si temono gli altri. Perché gli altri possono introdurre elementi che destabilizzano le certezze (assolute) precostituite. Tali comportamenti ricordano quelli degli schiavi della caverna di Platone: questi uomini, incatenati dalla loro ignoranza, faticano ad accettare il nuovo e disdegnano il rischiaramento prodotto dalla molteplicità delle ragioni. Si autocondannano così a reiterare la banalità (“La Repubblica”, lib. VII, 514 b – 520 a).
Un caro saluto,
Alberto

lunedì 11 maggio 2015

Soffocati dall'orgoglio


Caro professore,
Ieri stavo pensando a quante volte l’orgoglio soffochi le nostre emozioni che a loro volta non possono farsi spazio al di fuori della nostra personalità. È giusto mantenere questa maschera di orgoglio? Eppure, pensandoci, l’orgoglio è solo uno dei tanti castelli in aria che ci costruiamo per nasconderci dietro la nostra immagine per paura di esporci veramente. Perciò, in questo caso, sarebbe il nostro subconscio che ci induce a mettere dei paletti ai nostri sentimenti. Come facciamo a capire quando è giusto che l’orgoglio prenda il controllo di noi stessi oppure che in realtà ci stiamo autodistruggendo?
Daniela, IV A

Cara Daniela,
L’orgoglio è certamente una “maschera” che impedisce l’incontro con l’altro. Forse è un meccanismo di difesa che ci tutela dalla svalutazione altrui. Ma chi usa l’orgoglio per affermarsi, perché teme di non ottenere sufficiente riconoscimento, è probabile che non abbia adeguata fiducia in sé. Pensiamo sempre all’orgoglio come ad una sorta di atteggiamento individuale, ma un tempo c’era anche l’orgoglio di classe: rampolli aristocratici tronfi della loro appartenenza privilegiata. Ricorderai il libro “Orgoglio e pregiudizio” di Jane Austen (1813) in cui Mr. Darcy si rifiuta di ballare con persone che non sono del suo stesso rango. Charlotte Lucas, amica della protagonista del romanzo Elizabeth, è persino pronta a trovare una giustificazione per quel comportamento altezzoso. Ella afferma infatti che: «Non ci si può meravigliare che un giovanotto così elegante, di buona famiglia, ricco, con tutto a suo favore, non abbia un'alta opinione di sé. Se posso esprimermi così, ha diritto a essere orgoglioso. Ma l’amica replica: «È verissimo, [...] e potrei facilmente perdonare il suo orgoglio, se non avesse mortificato il mio». Ecco qua il punto: l’orgoglio altrui può mortificare il nostro. L’orgoglio umiliato provoca la collera, diceva Voltaire. «Un uomo che in guerra viene colpito da venti colpi di fucile, non va in collera. Ma un teologo ferito dal rifiuto di un assenso, diventa furioso e implacabile». In questo caso l’orgoglio di Mr. Darcy è una sorta di tracotanza nelle relazioni. Ma l’orgoglio è sempre una forma di eccesso? Non abbiamo avuto dell’orgoglio sempre la stessa idea. E anche oggi il significato di tale concetto non è univoco. Per gli antichi l’orgoglio era la «giusta considerazione di sé». Aristotele nell’“Etica nicomachea” pone la magnanimità (l’orgoglio) come virtù intermedia tra la vanità e l’umiltà. Se l’umiltà può condurre all’umiliazione del soggetto, la vanità è all’opposto un’illusoria e disperata esaltazione di sé. Ma anche per il filosofo scozzese David Hume, nel “Trattato sulla natura umana”, il significato è analogo. Scrive l’autore: «preciso che per orgoglio intendo quella piacevole impressione che nasce nella mente quando ci sentiamo soddisfatti di noi stessi per la nostra virtù, bellezza, ricchezza o potere». Ad un certo punto della propria storia, l’uomo ha cominciato a considerare non solo il giusto sentimento del proprio valore, ma ha esagerato l’opinione dei propri meriti, ha sopravvalutato i pregi, le forze ed ha assunto un atteggiamento altezzoso nei confronti degli altri. In un attimo la consapevolezza del valore e della dignità della persona si è dissolta in atteggiamenti di boria ed arroganza. Qualcosa ci è sfuggito di mano. Se affermiamo infatti che una persona è orgogliosa, è più facile che la riteniamo superba che semplicemente contenta e soddisfatta di sé. Secondo Hume l’orgoglio e l’umiltà sono passioni che pur essendo diverse hanno il medesimo oggetto. Questo oggetto è l’io, che per il filosofo non è esattamente un oggetto (una sostanza), ma «quella successione di idee e di impressioni correlate di cui abbiamo intimamente memoria e consapevolezza». Concentrati sul nostro io, a seconda che l’idea che abbiamo di noi stessi sia più o meno favorevole proveremo l’una o l’altra di queste affezioni. Così potremmo essere «sollevati dall'orgoglio o abbattuti dall'umiltà». L’autore ci ricorda che anche quando la nostra mente prende in considerazione altri temi lo fa sempre avendo di mira il soggetto, tanto che «quando non è l'io l'oggetto della nostra considerazione, non c'è più posto né per l'orgoglio né per l'umiltà». Certo, possiamo essere orgogliosi della nostra bellezza, della nostra casa, di qualche qualità, della nostra famiglia, di un lavoro ben fatto, di un obiettivo raggiunto. Ma, come diceva Mary Bennet (sorella di Elizabeth) «L'orgoglio appartiene più all'opinione che abbiamo di noi stessi, la vanità a quello che vorremmo che gli altri pensassero di noi». E l’eccessiva opinione di se stessi può portare all’autodistruzione o soffocare, perché ostacola gli incontri autentici, reprime la vitalità ed estingue la curiosità dell’altro. Se, come diceva Hume, è il nostro io ad essere «il vero oggetto della passione», allora quell’io può diventare ipertrofico e non avvertire più l’altro. Avere una giusta opinione di sé consente invece di comprendere i propri punti di forza e di debolezza, le proprie fragilità e quelle altrui. Allora è opportuno essere orgogliosi, ma non superbi, compiacersi senza essere altezzosi, essere soddisfatti di sé senza essere arroganti: chi ha una giusta stima di sé non teme lo sguardo dell’altro e non sente il bisogno di sminuirlo ed ha maggiore facilità nell’instaurare relazioni positive.
Un caro saluto,
Alberto

lunedì 4 maggio 2015

Il bene sorprende più del male



Caro professore,
Ieri mi è successa una cosa veramente strana che mi ha fatto riflettere. Una persona che in passato mi aveva fatto del male, è venuta a chiedermi scusa e a dirmi che era disposta a riparare. Io sono rimasta molto colpita da questo episodio ed il mio primo pensiero è stato: «Dov’è la fregatura»?, ma più ci penso più mi sembra che questa persona fosse sincera. Oggigiorno è il bene ad essere una sorpresa, non il male, ma quand’è che abbiamo cominciato ad essere così diffidenti verso il genere umano? Perché una buona azione ci sorprende tanto?
Deborah, IVA


Cara Deborah,
Jean Domat, il più importante giurista francese del Seicento, avvocato di Luigi XIV e amico di Pascal scriveva che «Se giudichiamo male il bene, offendiamo la verità, vale a dire che, giudicando male una buona azione facciamo torto al nostro prossimo» (“Moralisti francesi. Classici e contemporanei”, Bur, 2008). Tuttavia sappiamo anche che molte «buone azioni» nascondono vantaggi immediati non sempre particolarmente nobili. Lo storico danese Bo Lidegaard ne Il popolo che disse no (Garzanti 2014) ricorda che Werner Best e Rudolf Mildner, ufficiali nazisti in Danimarca, evitarono di perseguitare gli ebrei quando compresero che la Germania stava per perdere la guerra, perché «una volta che questo fosse accaduto, ciascuno dei membri dell’esecutivo nazista avrebbe avuto bisogno di qualsiasi “buona azione” potesse collezionare per salvare il collo». C’è dunque sempre un bieco tornaconto dietro ad una buona azione? Dobbiamo temere «tranelli», «insidie» o – come dici tu – «fregature»? Conoscendo l’astuzia e la volubilità degli uomini sappiamo che ciò è possibile, ed è per non essere troppo ingenui che ci mettiamo sulla difensiva e ci prepariamo al peggio. Tuttavia dobbiamo anche considerare che alcune ingiustizie non sono reali: non sono torti oggettivi, ma percepiti soggettivamente come tali, perché vorremmo che gli altri si comportassero secondo le nostre aspettative e la nostra visione del mondo. Ovviamente, offese effettive e umiliazioni volontarie producono grandi sofferenze. Alcune persone hanno consapevolezza del male che compiono o dell’immoralità dell’azione che attuano, ma tale cognizione non arriva a smuovere il loro comportamento per riparare un torto o un'ingiustizia. Altre invece (o le stesse in altri momenti) ritengono che per stare bene – prima di tutto con se stesse – debbano in qualche modo rimediare al male causato. Il grande filosofo di Könisberg Immanuel Kant ci ha insegnato a distinguere tra la semplice consapevolezza (Bewußtsein) e la coscienza (Gewissen), affermando che la coscienza è una voce interiore insopprimibile: una «legge interna» che ci dice che cosa è giusto, tanto che, afferma Kant, «non esiste uomo così degradato che in questa trasgressione non senta in se stesso una resistenza e non provi una ripugnanza di sé» (“Metafisica dei costumi”). Per Kant questa legge interiore è il fondamento che può spingere l’uomo a compiere buone azioni. La coscienza non rende solo consapevoli delle azioni, ma esorta ad agire e fa sentire l’uomo responsabile della propria condotta. Ed è per questo che introduciamo il tema morale nell’uomo, altrimenti parleremmo solo di istinti regolatori. Chiedi perché un’azione buona ci sorprenda tanto. Potremmo dire che, assuefatti a varie forme di opportunismo e sufficientemente disincantati sulle reali intenzioni del prossimo, valutiamo un’azione buona quasi un’anomalia che ci consente di intravedere un raggio di luce nelle relazioni umane. Non credo però che il nostro stupore derivi (solo) da questo. Credo che in noi sorga la meraviglia, perché un’azione morale non è mai un gesto scontato o automatico, perché implica lo sforzo di adeguare un comportamento a ciò che la ragione (Kant) o il sentimento (Hume) detta ad un individuo. Quando Kant dice di essere meravigliato non solo dalla fisica, ma anche dalla legge morale inscritta, a suo giudizio, nell’uomo stesso, ci ricorda che stiamo al mondo non completamente condizionati dalle leggi della fisica. Ossia non agiamo solo per necessità della nostra natura biologica, ma perché - comprendendo ciò che è giusto e ciò che non lo è - abbiamo pertanto la possibilità di compiere il bene. L’azione buona ci sorprende, perché ci riporta a questa armonia morale (una condotta che non si adegua all’utile, ma a ciò che è giusto) e perché risveglia in noi una tensione verso un comportamento che sentiamo appropriato. Il tuo amico avrebbe potuto regolarsi diversamente. E invece ha scelto di scusarsi con te e di riconoscere il proprio errore. Non sapremo forse mai se le persone con cui ci relazioniamo agiscono esclusivamente per il proprio vantaggio o seguono un principio morale. Il tuo amico ha certamente realizzato una buona azione. Potrebbe pertanto essere contento di sé. Secondo Kant dovrebbe essere soddisfatto solo dell’azione oggettiva che ha compiuto e non compiacersi troppo di se stesso, perché non conosce i motivi reconditi che gli hanno consentito di mettere in atto quella condotta. In ogni caso, questo aspetto non ci riguarda più. E se a volte facciamo bene a diffidare di certi pentimenti eccessivamente differiti, dobbiamo anche considerare che a volte potremmo fare un «torto al nostro prossimo» o «offendere la verità». Ognuno ha i suoi tempi anche per adeguare il proprio comportamento alla legge morale.
Un caro saluto,
Alberto