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Cor-rispondenze

lunedì 29 ottobre 2012

Essere ricordati


Caro professore,
Tutti i giorni, o quasi, ci ritroviamo a parlare di personaggi vissuti nel passato. Ci ricordiamo di persone vissute anche millenni prima di noi, le ricordiamo per i loro incarichi, per le loro scoperte o per le loro idee. Ogni giorno facciamo rivivere qualcuno, ricordando le sue opere, le sue decisioni o i suoi comportamenti. I libri di storia citano centinaia di persone; forse, facendo un rapido calcolo, nel corso dei nostri studi ci ritroviamo a parlare di un migliaio di persone vissute nel passato. Nel corso dei secoli, però, la Terra ha visto molte più persone di quello scarso migliaio di cui ci ricordiamo: infatti, molte vengono dimenticate dopo due o tre generazioni. Per questo alcune tombe vengono svuotate dopo alcuni anni: i discendenti ora vivi non si ricordano più di un trisnonno vissuto cento anni prima. E' come se le persone che non hanno fatto "niente" per essere ricordate, già solo dopo cento anni è come se non fossero mai vissute. Non essere nessuno, vivere una vita nella media significa, dunque, non aver mai vissuto? Bisogna per forza diventare qualcuno per essere ricordati e dunque aver davvero vissuto?
Marco


Caro Marco,
A sentire le tue parole, mi vengono subito in mente i versi conclusivi de La sera del dì di festa di Leopardi: «E fieramente mi si stringe il core, / A pensar come tutto al mondo passa, / E quasi orma non lascia. [...]Or dov’è il suono / Di que’ popoli antichi? or dov’è il grido /De’ nostri avi famosi, e il grande impero /Di quella Roma, e l’armi, e il fragorio /Che n’andò per la terra e l’oceano? /Tutto è pace e silenzio, e tutto posa /Il mondo, e più di lor non si ragiona.?» (La sera del dì di festa) . Degli uomini non si ragiona più, non si parla più. Tutto è sparito, l’orizzonte dello sguardo sul passato è limitato e sfumato. Tant’è che anche i suoni («il suono», «il grido») non giungono più a noi. Nel Dialogo di un folletto e di uno gnomo, contenuto nelle Operette morali, Leopardi affida inoltre al folletto queste parole: «Ma ora che ei sono tutti spariti, la terra non sente che le manchi nulla, e i fiumi non sono stanchi di correre, e il mare, ancorché non abbia più da servire alla navigazione e al traffico, non si vede che si rasciughi» . Non solo gli uomini non si ricordano dei loro antenati e di essi non «si ragiona», ma anche la terra «non sente che le manchi nulla». A ben pensarci, vengono in mente anche i versi di Lucrezio del De rerum natura ove l’autore rammenta come chi viene al mondo non ha sentore del rumore assordante delle guerre puniche: anche se «tutte le cose, scosse dal tumulto di guerra, / hanno vibrato d’orrore e tremato sotto la volta del cielo». Cosa ricordiamo di ciò che «ha tremato sotto la volta del cielo?» Nulla. Cosa ricordiamo dei milioni di morti delle guerre mondiali? Nulla. Apprendiamo certo dai libri di storia gli avvenimenti, ma per noi sono semplici narrazioni, informazioni, per l’appunto, da imparare. In ogni caso, ignoriamo la vita della maggior parte delle persone. La scrittrice Marguerite Yourcenar ne Il tempo grande scultore, ricorda che non basterebbe un solo giorno per ricordare tutte le persone scomparse: «Ma vi sono anche, il bambino se ne rende già conto, miliardi e miliardi di morti la cui sorte nell'altro mondo non è nota, e che quelle ventiquattro ore del 2 novembre sembrano troppo brevi per onorarli tutti» . Non potremo mai onorare tutti i morti e siamo in grado di ricordare solo pochissime persone. Come vedi, non solo le «vite nella media», ma anche quelle che vengono ricordate un po’ più a lungo non sopravvivono alla potenza distruttrice tempo. Si è certi di «aver vissuto», non perché il proprio nome dura nel tempo (anche il nome di un terrorista o di un pazzo può durare quanto quello di uno scienziato o di un benefattore), ma perché si dà significato a ciò che si fa. C’è un limite nel passato oltre il quale non possiamo andare, così come c’è un limite per il futuro. Meditare sulla sparizione della nostra esistenza, sul periodo in cui lasciamo un breve segno sul «foglio dello spazio e del tempo» non deve condurre né all’esaltazione febbrile di ogni attimo né alla cupa disperazione. Puoi però essere certo di aver vissuto se cominci ad interessarti al tuo passato: alla vita del tuo «trisnonno» e delle altre persone, se ti prendi cura di quelle vite e delle persone che incontri e se ti relazioni autenticamente agli altri in vista di un futuro che sarà accolto da chi oggi non riesci ancora a vedere.
Un caro saluto,
alberto

lunedì 22 ottobre 2012

Piccoli e grandi problemi


Caro professore,
Un giorno stavo male perché una persona a me cara era morta. Passeggiando ho poi visto due persone che litigavano e più avanti un funerale con persone che piangevano un defunto. Così ho pensato che per quanto grandi potevano essere i miei problemi, già solo andando pochi metri più lontano da me non interessavano a nessuno. E, se ci spingiamo più lontano, l'universo cosa sa di noi? La nostra vita con i suoi problemi cos'è in confronto all'universo? Il problema più grande per noi, che può essere la morte di una persona cara, cos'è in confronto alla grandezza dell'universo? Niente. Però le chiedo: perché quando succede qualcosa è così difficile pensare alla grandezza dell'universo e stiamo male per i nostri piccoli problemi?
Simone


Caro Simone,
Nella tua lettera ci sono tre aspetti che credo si possano evidenziare: 1. l’incapacità di sentire oltre una certa misura; 2. una natura indifferente all’uomo; 3. il male che fa concentrare l’uomo non sul mondo, ma sull’organo malato.
1. C’è un «dislivello» tra la nostra capacità di agire e la capacità di sentire, scrive Gunther Anders in L'uomo è antiquato. 1.Considerazioni sull'anima nell'epoca della seconda rivoluzione industriale [Torino, Bollati Boringhieri, 2007]: «Assassinare, possiamo migliaia di persone; immaginare, forse dieci morti; piangere o rimpiangere, tutt'al più uno». La nostra capacità di sentire è limitata: possiamo piangere per un nostro caro, fare le condoglianze al nostro vicino di casa, ma non andiamo in angoscia per centinaia di persone che muoiono. Abbiamo una facoltà di sentire e di immedesimarci empaticamente piuttosto ridotta. Non è detto che ciò sia un male: Gunther Anders scrive: «è probabile anzi che biologicamente sarebbe uno svantaggio e non avrebbe alcun senso che le singole facoltà fossero tutte equipollenti, che la loro capacità e la loro «portata» fossero altrettanto grandi». Forse biologicamente siamo stati programmati così, altrimenti vivremmo in uno stato di angoscia perenne e la vita sarebbe impossibile. Quindi, a differenza di altre nostre facoltà, la capacità di sentire è “limitata”. Gli altri, incontrati casualmente per strada, non solo non conoscono le nostre tragedie, ma anche se le apprendessero e fossero solidali con noi, non potrebbero vivere il nostro disagio né cogliere i nostri affanni. Per certi aspetti, viviamo isolati tra persone che ignoriamo e che ci ignorano.
2. Quanto alla natura indifferente all’uomo e ai suoi problemi, c’è solo l’imbarazzo della scelta. Moltissimi autori hanno sottolineato che la natura è ignara delle vicende umane. Terremoti, eruzioni vulcaniche, catastrofi ambientali gettano nel terrore gli uomini, ma lasciano impassibile la natura che neppure si accorge delle specie che quotidianamente scompaiono, della vita che avvizzisce, degli animali e degli uomini devastati dal dolore. Valga per tutti il bellissimo frammento trovato tra le carte di Goethe intitolato La natura [1792-1793]: «Natura! Noi siamo da essa circondati e avvinti, senza poter da essa uscire e senza poter entrare in essa più profondamente. Non invitati e non avvertiti, essa ci prende nel giro della sua danza e ci attrae nel vortice, finché, stanchi, cadiamo nelle sue braccia» . Forse è inquietante, ma ridimensiona alcune pretese eccessive dell’uomo.
3. Questo aspetto credo sia quello più interessante, ed è quello a cui fai riferimento nell’ultima parte della tua lettera: «perché quando succede qualcosa è così difficile pensare alla grandezza dell'universo e stiamo male per i nostri piccoli problemi?» L’uomo è un essere in relazione col mondo e con le persone e non un oggetto tra gli oggetti. Quando proviamo dolore, la relazione si riduce fino a scomparire: non siamo più interessati al mondo, ma al nostro organismo, alla parte dell’organismo che duole. Il dolore, come scriveva il filosofo Salvatore Natoli «è vita che si riduce», e in questa riduzione diminuiscono le nostre capacità di percepire e di agire, dunque ci si isola dal mondo e spesso ci si riduce «al silenzio o al grido», ma il grido altro non è che la voce del male, mentre il silenzio è la progressiva riduzione dei richiami interiori e dei pensieri. Il filosofo Umberto Galimberti nel libro intitolato Il corpo scrive: «Non è una parte dell'organismo che soffre, ma è il rapporto col mondo che s'è contratto, è la mia distanza dalle cose» . Nell’esperienza del dolore sentiamo dunque il corpo e non il mondo. Siamo contratti su di noi e quelli che chiami piccoli problemi in confronto all’universo non sono poi tanto piccoli se portano con sé il rischio della sparizione definitiva, della morte del soggetto e, insieme, del mondo a cui esso è legato.
Un caro saluto,
alberto

lunedì 15 ottobre 2012

Un gattino affettuoso




Caro professore,
Com'è possibile che un essere talmente piccolo da stare in una mano mi abbia sconvolto la vita? Da quando in famiglia è arrivato Coral, un gattino vivace ed affettuoso, tutto è cambiato. Prima che arrivasse lui non pensavo di potermi affezionare così tanto ad un animale. Cosa posso avere io in comune con un gatto?! Eppure ora ho scoperto che qualcosa in comune dobbiamo avercelo. La mia domanda è: come fanno a volersi bene due esseri che non hanno nemmeno una lingua in comune?
Alessia

Cara Alessia,
Mi è capitato di leggere qualche tempo fa l’Autobiografia spirituale di Nikolaj Berdjaev, un importante filosofo cristiano russo vissuto a cavallo tra Ottocento e Novecento. Tra le tante informazioni personali che rivela nel libro, il filosofo parla anche del proprio rapporto con gli animali. Scrive: «Mi era facile esprimere la mia vita emotiva solo in rapporto agli animali, su di loro riversavo tutto il mio patrimonio di tenerezza. Può darsi che dipenda proprio da questo il carattere esclusivo del mio amore per gli animali. È l'amore di un uomo che ha bisogno di amore ma che difficilmente può esprimerlo nei suoi rapporti con i propri simili. [...] Ma più che a ogni altro animale mi affezionai al mio gatto Murri, stupendo, intelligentissimo, un vero incantatore. Quando si ammalò fu per me una vera e propria angoscia». Un animale così piccolo da stare in una mano può dunque sconvolgere una vita? Sì, e credo per una serie di ragioni, in parte accennate anche dall’autore. La frase che più corrisponde all’idea che ho del rapporto con gli animali (anche per me il gatto ha avuto un ruolo importante) è la seguente: «È l'amore di un uomo che ha bisogno di amore». Abbiamo bisogno d’amore e lo sguardo non giudicante dell’animale riesce ad approdare là dove molti occhi umani non riescono ad incunearsi, perché non hanno pazienza di “stare nello sguardo”, di ascoltare senza condannare o assolvere, di osservare senza occultare il volto, di contenere le emozioni semplicemente tacendo. In fondo esprimiamo e conosciamo la nostra vita emotiva anche attraverso le relazioni con gli animali: sappiamo che spesso le parole aspirano a chiarire i sentimenti, e che talvolta invece li coprono o li camuffano, mentre un semplice sguardo diretto e prolungato, anche di un animale piccolo e indifeso, consente un feedback affettivo immediato, netto e totale. Quando si tratta dello sguardo del gatto, poi, il legame è irresistibile e trascinante. La piccola presenza segnala una volontà affettiva senza riserve, senza impedimenti, tentennamenti o deterrenti. Il gatto rimane lì, con quegli occhi buffi, interamente orientati verso di noi, attende qualche variazione della nostra espressione e, nello stesso tempo, completamente rapito dal nostro sguardo, sta a ricordarci che prima di tutto siamo già stati scelti senza riserve. Lo sguardo dell’animale dunque ci accoglie e ci cerca, in qualche modo sentiamo che se esprimesse un giudizio su di noi, sarebbe positivo, per assolverci da qualche mancanza, e che se i suoi occhi ci esaminano è perché ci apprezza, se stabiliscono un contatto è per avviare la relazione. Berdjaev dice di aver riversato sugli animali tutto il proprio patrimonio di tenerezza. Credo che nella relazione con un animale pian piano scopriamo anche la tenerezza di cui siamo capaci, attraverso le parole, le coccole e la cura continua. Molto probabilmente anche il tuo gatto è «stupendo, intelligentissimo», ed è «un vero incantatore». In fondo siamo incantati dalla meraviglia per ciò che è altro da noi, per ciò che misterioso, apparentemente incomprensibile. Diverso. Nessuno può dire di conoscere perfettamente un animale, meno che mai di “possedere” un animale. Credo che sia anche ciò che caratterizza la relazione d’amore tra le persone: non finiamo mai di conoscerle e meno che mai le possediamo. Ogni nostro tentativo di definire l’animale e il nostro rapporto con lui viene regolarmente aggiornato. Nel tentativo di comprenderlo procediamo per tentativi ed errori e siamo consapevoli che stiamo contemplando una forma di vita che è “altro” da noi, ma che in alcuni momenti e per chissà quale grazia diventa limpida e intelligibile. «Come fanno a volersi bene due esseri che non hanno nemmeno una lingua in comune?» Il grande psicanalista e sociologo tedesco Eric Fromm, vissuto nella metà del secolo scorso, nel libro L’arte di amare [1956] secondo me ha chiarito molto bene che la caratteristica principale dell’amore è «il carattere attivo» del soggetto, che in tutte le forme d’amore sviluppa alcune caratteristiche. Scrive Fromm: «Al di là dell'elemento del dare, il carattere attivo dell'amore diviene evidente nel fatto che si fonda sempre su certi elementi comuni a tutte le forme d'amore. Questi sono: la premura, la responsabilità, il rispetto e la conoscenza. L’amore è premura soprattutto nell'amore della madre per il bambino. Noi non avremmo nessuna prova di questo amore se la vedessimo trascurare il suo piccolo, se lei tralasciasse di nutrirlo, lavarlo, curarlo; e restiamo colpiti dal suo amore se la vediamo assistere il suo bambino. Non c'è differenza anche nell'amore per gli animali o per i fiori. Se una donna ci dicesse di amare i fiori, e noi la vedessimo dimenticare di innaffiarli, non crederemmo nel suo «amore» per i fiori. «Amore è interesse attivo per la vita e la crescita di ciò che amiamo.» Là dove manca questo interesse, non esiste amore». L’amore non ha dunque bisogno di essere veicolato da un linguaggio verbale condiviso, perché l’amore è già il linguaggio condiviso e la grammatica di quel linguaggio sono i gesti di tenerezza, di premura e di cura che già manifesti per il tuo piccolo Coral.
Un caro saluto,
alberto

lunedì 8 ottobre 2012

L'idea di una sola vita mi tormenta


Caro professore,
Anche per fare questo "compito" me lo sono chiesto. Perché?

Perché per 9 mesi all'anno devo alzarmi alle 7 di mattina, tornare a casa, fare i compiti, studiare per poi cominciare tutto da capo? Perché devo costantemente convivere con l'ansia di un’interrogazione, l'angoscia di un compito in classe e la pesantezza della giornata? La risposta, mi dicono, è che sia per poter entrare in una buona università, trovarmi un buon lavoro e vivere bene. Farmi una famiglia, anche. Allora è così? Lavorare per tutta la nostra giovinezza per poter infine avere un’esistenza tranquilla, senza problemi? E' questo il senso del mio essere qui, in questo luogo? Io vivo una vita sola. Una soltanto. E la passerò cercando di confondermi con la massa, nascondermi tra la folla e seguire ciò che altri credano sia giusto per me? Sì. Sì, perché non conosco altre vie. Mi sarebbe piaciuto nascere in un mondo in cui non devi preoccuparti di ciò che sembri, ma soltanto di ciò che sei, un mondo in cui ogni persona viaggia per conoscere, non per giudicare, un mondo dove la mattina nessuno ha fretta, perché ogni mattina è come quella di una domenica in campagna, a casa della nonna. Profumo di spezie, suoni di campanellini e uccelli mattutini, voci familiari e rassicuranti e brezze leggere che muovono le foglie e accarezzano i capelli. Purtroppo però non è così. Io andrò all'università, mi laureerò e troverò un lavoro stabile. Niente di terribile, per carità, ma è ciò che desidero veramente? E se volessi semplicemente sdraiarmi su un prato fiorito e guardare le nuvole? Andare da paese in paese, di continente in continente e arricchire la mia vita? Non potrei, avrei bisogno di soldi, e per avere i soldi dovrei lavorare, e per avere un lavoro dovrei aver frequentato ottime università, e così via, fino al mio primo "perché". L'idea di una vita sola mi tormenta. Però ci sono anche persone speciali al mondo. Le ammiro molto, quelle persone. Quelle a cui non importa. Quelli che si mettono a ballare sotto la pioggia mentre tutti li guardano straniti. Amo il loro modo di vedere il mondo. Sto imparando a smettere di essere lo sconosciuto tra la folla. Sto imparando ad essere la ballerina sotto la pioggia.
Liu

Cara Liu,
L’idea di una sola vita ci tormenta, perché getta nell’angoscia immaginare infinite vite che avremmo potuto vivere e invece abbiamo scartato. Ora vivi con l’ansia di rendere conto dei tuoi lavori scolastici, alcune preoccupazioni accompagnano l’esecuzione dei tuoi doveri e qualche apprensione si origina per la valutazione per tuo operato; ti chiedi perché alla fine bisogna proprio scegliere una sola vita, un certo lavoro, una parte di mondo dove abitare. Siamo in fondo aperti a tante possibilità, ma man mano che passano i mesi e gli anni siamo costretti a orientarci verso poche occupazioni, forse un solo mestiere. Il filosofo francese Henri Bergson nell’opera L’evoluzione creatrice [1907] (Milano, Raffaello Cortina Editore, 2002) richiama una differenza tra la nostra vita e la vita della natura. Potremmo pensare che la natura sia più fortunata di noi, perché nel corso dell’evoluzione può azzardare tante strade, generando varie forme vegetali fino all’uomo, e può conservare tutti i prodotti della propria evoluzione. In qualche modo non è costretta a scegliere, perché l’energia di cui dispone è così abbondante che può custodire nel presente infinite varietà di specie vegetali e animali. Tuttavia, anche se sembra possedere un privilegio su di noi, la natura è all'oscuro di tutto ciò che conserva. Prova tutte le strade, miliardi di volte, ma è ignara del proprio percorso e dei propri risultati. L’uomo, invece, è consapevole, ma deve scegliere cosa diventare. Questa scelta, che implica attività del soggetto e non passività, può tuttavia condurre a risultati insoddisfacenti. Poiché quando si disegna la propria vita non si fa solo un prospetto mentale che può essere immediatamente rettificato con la fantasia, ma si investe per molti anni e con molti sacrifici in un progetto, seguendo alcuni sentieri più o meno tortuosi. Sappiamo che il tempo per vivere un’altra storia o un altro disegno è un tempo finito inscritto nel tempo più generale che la vita ci mette a disposizione. Se quando siamo piccoli possiamo immaginare infinite possibilità, più passano gli anni più le opportunità sono condizionate dalle scelte precedenti. (Per me sarebbe ora difficile diventare medico, ingegnere o violinista). Scrive il filosofo: «Ciascuno di noi, lanciando uno sguardo retrospettivo sulla propria storia, constaterà che la sua personalità infantile, per quanto indivisibile, riuniva in sé persone diverse che potevano restare fuse insieme solo perché si trovavano allo stato nascente: tale indecisione ricca di promesse è, del resto, uno degli aspetti più affascinanti dell'infanzia. Ma crescendo, le personalità che prima si compenetravano diventano incompatibili, e siccome ciascuno di noi vive una vita soltanto è costretto a fare una scelta. In realtà, scegliamo di continuo, e di continuo rinunciamo a molte cose. La via che percorriamo nel tempo è cosparsa dei detriti di tutto ciò che avevamo incominciato a essere, di tutto ciò che saremmo potuti diventare. Ma la natura, che dispone di un incalcolabile numero di vite, non è affatto costretta a simili sacrifici. Essa conserva le diverse tendenze che, crescendo, si sono biforcate e crea con esse serie divergenti di specie che si evolveranno separatamente». Poco più avanti, Bergson paragona la nostra vita a quella di un romanzo e scrive: «L'autore che comincia un romanzo costruisce il suo protagonista con una quantità di cose cui è costretto a rinunciare via via che procede» . Già, anche noi costruiamo il nostro percorso abbandonando progetti in cui abbiamo fortemente creduto, convinzioni scambiate per verità, pensieri stimati come certezze. Però è in questo progressivo distacco che abbozziamo la nostra storia individuale, percorrendo una strada segnata dai «detriti di tutto ciò che avevamo incominciato a essere, di tutto ciò che saremmo potuti diventare». Anche se è doloroso, come per lo scrittore, rinnegare alcune scelte che sembravano ben fondate, il romanzo della nostra vita non è costituito da tutte le parole del vocabolario, ma solo da alcune di esse organizzate in un certo modo. Non dobbiamo dispiacerci del fatto che non abbiamo percorso tutte le strade possibili, ma dobbiamo dare il giusto valore alle nostre scelte. Vivere a fondo le attività in cui siamo impegnati è un modo per non subire quello che facciamo, che ci consente di «ballare sotto la pioggia» in molte più occasioni di quante avremmo immaginato. L’espressione molto bella ed efficace che hai utilizzato suggerisce la volontà di una vita senza troppi condizionamenti e senza troppe limitazioni, ma davvero vorresti rinunciare alla complessità della vita senza aumentare le tue conoscenze? Certo, a volte è necessario liberarsi da alcuni vincoli opprimenti, ma si può in qualche modo trovare il modo di danzare «sempre», magari lasciando che un pubblico anonimo ci guardi con occhi “straniti”: basta conservare l’entusiasmo per la vita e per le piccole attività, perché la vita non è un compito da eseguire, ma un’avventura da inventare. Danzare, allora, diventa un modo di “attraversare la vita” e non un’occasione postulata da rincorrere come fuga dalle ansie della quotidianità.
Un caro saluto,
alberto

lunedì 1 ottobre 2012

Confidarsi



Caro professore,
Sono una persona piuttosto diffidente, che prima di aprirsi con una persona deve essere sicura di fidarsi e di non essere giudicata. Fatico a raccontare ciò che mi capita durante la giornata o il pomeriggio persino ai miei familiari, anche se so che di loro posso fidarmi al 100 %. Molti dei miei coetanei raccontano e si confidano con una persona più grande, io invece tendo sempre a raccontare poco su di me e i miei pensieri a tenermeli per me. Anche se sembro una persona molto aperta, perché sono sempre sorridente in realtà fatico a raccontare le cose mie personali a chi mi vuole bene. Per cui mi domando se un giorno riuscirò mai a sbloccarmi ed ad aprirmi un po’ di più, anche solo con un mio familiare.
Erica


Cara Erica,

«Oserò io contare su di te? ...Si racconta di uomini che per crimini atroci si votarono a mutuo silenzio: io ti ho confidato un segreto che è la mia vita e il contenuto della mia vita... Non hai da confidarmi niente di così significativo, di così bello, di così casto che si scatenerebbero forze soprannaturali qualora fosse tradito? Tuo Johannes»


Poiché questa è una rubrica che ha l’obiettivo di fare più riferimento alla filosofia che alla psicologia, mi sono chiesto se tra i filosofi vi sia stato qualcuno che si è sentito come te. Ho pensato allora a Soeren Kierkegaard (Johannes), un filosofo danese della prima metà dell’Ottocento, che nei suoi scritti sottolinea una certa difficoltà nel confidarsi agli altri. Nell’opera Aut-Aut ad un certo punto egli scrive: «Io ho solo un amico, è l'eco: e perché è mio amico? perché io amo il mio dolore e l'eco non me lo toglie. Io ho un solo confidente, è il silenzio della notte. E perché è il mio confidente? Perché il silenzio tace». Ho pensato che, talvolta, un po’ come Kierkegaard, anche noi amiamo il nostro dolore, la nostra inquietudine e cerchiamo di «tenere per noi stessi» i nostri pensieri e i nostri vissuti. Può sembrare strano, ma è vero che, soprattutto quando siamo inquieti, preferiamo custodire per noi stessi la malinconia, come se fosse una buona compagna di vita. Credo che ci sia un aspetto positivo in questo atteggiamento, in fondo non ci spaventiamo di noi stessi né dei pensieri che si originano in noi; con loro dialoghiamo e ci intratteniamo senza doverli necessariamente raccontare agli altri. Fanno parte del mondo dell’interiorità, rappresentano un sottofondo di significati appena accennati che si agita in noi. Mentre lasciamo che le parole esplicite incontrino il mondo, sappiamo che la loro impronta invece continua a dialogare con noi. Confidarsi al «silenzio della notte» non è per definizione qualcosa di negativo, un ritrarsi dalla società e dagli amici. Può rappresentare la volontà e il bisogno di meditare a fondo i pensieri, di sostare sugli embrioni delle idee che si stanno plasmando e osservare ciò che prende forma. Prima di confidare agli altri qualcosa, costruiamo dunque uno spazio tutto nostro, qualcosa di intimo e di interno col quale dialoghiamo. Prima di rivelarci alle persone, in qualche modo serbiamo con cura qualcosa in noi. Chi non riesce a compiere questa operazione e confida tutto immediatamente, forse non riesce a costruire la propria interiorità, a costruire la propria anima, perché respinge immediatamente ciò che sente agitarsi nel profondo. Per Kierkegaard il silenzio può diventare un confidente, perché il silenzio «tace»; ciò significa che non siamo disposti a consegnare la nostra intimità neppure ai genitori di cui ci fidiamo al 100%, perché consegnando qualcosa che è in evoluzione rischiamo che venga oggettivato, frainteso, banalizzato, facilmente risolto nel quotidiano, mentre in noi qualcosa di importante sta ancora prendendo forma. Per usare le parole del filosofo, confidare un segreto profondo è come esalare l’anima. C’è in fondo un momento in cui la sofferenza non viene consegnata a nessuno e la tristezza viene affidata solo alla custodia del proprio cuore. Anche i progetti che si coltivano, i pensieri che si alimentano chiedono di maturare lentamente, spesso accompagnati dal silenzio. Quindi non credo che la mancata confidenza sia segno di timidezza, riservatezza o impaccio. Credo che la frequentazione quotidiana della propria interiorità, apra prima un terreno in cui ci si abitua alla confidenza con se stessi e successivamente consenta di dischiudere la propria intimità, o parte di essa, ad alcune persone significative. Visto che abbiamo scomodato il filosofo, che sotto lo pseudonimo di Johannes scrive alla sua amata Cordelia, leggiamo come anche Johannes, che non sembra essere particolarmente portato alla confidenza, alla fine decida di affidarsi a qualcuno: «Un segreto io ho da confidarti, mia confidente... E a chi lo dovrei confidare? All'eco? Lo tradirebbe. Alle stelle? Sono fredde. Agli uomini? Non lo capiscono. Solo a te oso confidarlo, perché lo sai serbare...» .

Un caro saluto,

Alberto