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Cor-rispondenze

lunedì 1 ottobre 2012

Confidarsi



Caro professore,
Sono una persona piuttosto diffidente, che prima di aprirsi con una persona deve essere sicura di fidarsi e di non essere giudicata. Fatico a raccontare ciò che mi capita durante la giornata o il pomeriggio persino ai miei familiari, anche se so che di loro posso fidarmi al 100 %. Molti dei miei coetanei raccontano e si confidano con una persona più grande, io invece tendo sempre a raccontare poco su di me e i miei pensieri a tenermeli per me. Anche se sembro una persona molto aperta, perché sono sempre sorridente in realtà fatico a raccontare le cose mie personali a chi mi vuole bene. Per cui mi domando se un giorno riuscirò mai a sbloccarmi ed ad aprirmi un po’ di più, anche solo con un mio familiare.
Erica


Cara Erica,

«Oserò io contare su di te? ...Si racconta di uomini che per crimini atroci si votarono a mutuo silenzio: io ti ho confidato un segreto che è la mia vita e il contenuto della mia vita... Non hai da confidarmi niente di così significativo, di così bello, di così casto che si scatenerebbero forze soprannaturali qualora fosse tradito? Tuo Johannes»


Poiché questa è una rubrica che ha l’obiettivo di fare più riferimento alla filosofia che alla psicologia, mi sono chiesto se tra i filosofi vi sia stato qualcuno che si è sentito come te. Ho pensato allora a Soeren Kierkegaard (Johannes), un filosofo danese della prima metà dell’Ottocento, che nei suoi scritti sottolinea una certa difficoltà nel confidarsi agli altri. Nell’opera Aut-Aut ad un certo punto egli scrive: «Io ho solo un amico, è l'eco: e perché è mio amico? perché io amo il mio dolore e l'eco non me lo toglie. Io ho un solo confidente, è il silenzio della notte. E perché è il mio confidente? Perché il silenzio tace». Ho pensato che, talvolta, un po’ come Kierkegaard, anche noi amiamo il nostro dolore, la nostra inquietudine e cerchiamo di «tenere per noi stessi» i nostri pensieri e i nostri vissuti. Può sembrare strano, ma è vero che, soprattutto quando siamo inquieti, preferiamo custodire per noi stessi la malinconia, come se fosse una buona compagna di vita. Credo che ci sia un aspetto positivo in questo atteggiamento, in fondo non ci spaventiamo di noi stessi né dei pensieri che si originano in noi; con loro dialoghiamo e ci intratteniamo senza doverli necessariamente raccontare agli altri. Fanno parte del mondo dell’interiorità, rappresentano un sottofondo di significati appena accennati che si agita in noi. Mentre lasciamo che le parole esplicite incontrino il mondo, sappiamo che la loro impronta invece continua a dialogare con noi. Confidarsi al «silenzio della notte» non è per definizione qualcosa di negativo, un ritrarsi dalla società e dagli amici. Può rappresentare la volontà e il bisogno di meditare a fondo i pensieri, di sostare sugli embrioni delle idee che si stanno plasmando e osservare ciò che prende forma. Prima di confidare agli altri qualcosa, costruiamo dunque uno spazio tutto nostro, qualcosa di intimo e di interno col quale dialoghiamo. Prima di rivelarci alle persone, in qualche modo serbiamo con cura qualcosa in noi. Chi non riesce a compiere questa operazione e confida tutto immediatamente, forse non riesce a costruire la propria interiorità, a costruire la propria anima, perché respinge immediatamente ciò che sente agitarsi nel profondo. Per Kierkegaard il silenzio può diventare un confidente, perché il silenzio «tace»; ciò significa che non siamo disposti a consegnare la nostra intimità neppure ai genitori di cui ci fidiamo al 100%, perché consegnando qualcosa che è in evoluzione rischiamo che venga oggettivato, frainteso, banalizzato, facilmente risolto nel quotidiano, mentre in noi qualcosa di importante sta ancora prendendo forma. Per usare le parole del filosofo, confidare un segreto profondo è come esalare l’anima. C’è in fondo un momento in cui la sofferenza non viene consegnata a nessuno e la tristezza viene affidata solo alla custodia del proprio cuore. Anche i progetti che si coltivano, i pensieri che si alimentano chiedono di maturare lentamente, spesso accompagnati dal silenzio. Quindi non credo che la mancata confidenza sia segno di timidezza, riservatezza o impaccio. Credo che la frequentazione quotidiana della propria interiorità, apra prima un terreno in cui ci si abitua alla confidenza con se stessi e successivamente consenta di dischiudere la propria intimità, o parte di essa, ad alcune persone significative. Visto che abbiamo scomodato il filosofo, che sotto lo pseudonimo di Johannes scrive alla sua amata Cordelia, leggiamo come anche Johannes, che non sembra essere particolarmente portato alla confidenza, alla fine decida di affidarsi a qualcuno: «Un segreto io ho da confidarti, mia confidente... E a chi lo dovrei confidare? All'eco? Lo tradirebbe. Alle stelle? Sono fredde. Agli uomini? Non lo capiscono. Solo a te oso confidarlo, perché lo sai serbare...» .

Un caro saluto,

Alberto

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