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Cor-rispondenze

lunedì 22 febbraio 2010

Il senso della vita


Sovente mi capita di pensare al mondo e alla vita prima della mia nascita: c'era già tutto ciò che al giorno d'oggi è presente, magari non alcune evoluzioni nel campo della tecnologia e della scienza, ma il mondo c'era già. Ciò che mancava eravamo noi. A volte mi chiedo perché noi non ci ricordiamo nulla della nostra nascita e dei primi anni della nostra vita, eppure eravamo noi, gli stessi di oggi. La nostra vita è come un ciclo chiuso. Ogni giorno, ogni singolo istante può essere eterno, crescendo di volta in volta. Noi siamo entrati a far parte del mondo, della vita, alla nostra nascita; ma se già tutto esisteva, perché siamo nati? Forse per uno scopo o per un qualche motivo preciso? E perché proprio in questa parte del mondo?
Federica



Cara Federica,
Il tumulto dei sentimenti, contrastanti e contraddittori, la molteplicità delle opinioni, la difficoltà di conciliare le varie convinzioni in una coerente visione del mondo, il mutamento improvviso delle certezze, aumentano il nostro senso di insicurezza esistenziale. Siamo condannati alla libertà, ma siamo sempre esposti al dubbio. Talvolta, quando siamo meno assorbiti dai rumori del mondo, ci chiediamo che senso abbia il nostro fare, che ne sarà di noi. Siamo solo un aggregato di atomi, come dicevano epicurei e stoici, o la nostra vita ha un senso che va oltre. Possiamo sapere se esiste un senso della vita esterno all’uomo o siamo condannati a muoverci nel mondo senza mai scoprire il motivo per cui siamo al mondo? “Ogni cosa ha la durata d'un giorno, sia chi ricorda, sia chi è ricordato”, scrive l’imperatore Marc’Aurelio nei suoi Ricordi. E poi aggiunge: “Infatti tutto dilegua e tosto diviene leggendario e presto sarà anche travolto totalmente dall'oblio. Io, naturalmente, alludo a quelli che, in certo qual modo, rifulsero per straordinario splendore; ché, riguardo agli altri, appena esalato l'ultimo respiro, son «dileguati, ignoti»”. E allora consiglia di accettare il destino, di accogliere con la ragione quanto non piace alla nostra sensibilità: “Non smettere di osservare come tutto abbia origine da una trasformazione, e abituati a comprendere che la natura non tende che a trasformare le cose esistenti, a crearne altre della medesima specie, perché ogni cosa è in certo qual modo il germe di quella che nascerà da essa”.
Ma ogni cosa è solo materia per generare nuove forme, gli atomi sono solo pezzi di un puzzle che si ricompongono in modi diversi a formare nuove sagome come in un semplice gioco combinatorio? La ragione può anche accettare la razionalità delle proposizioni degli stoici, ma la volontà dell’uomo e le emozioni spesso respingono o rigettano quelle conclusioni. L’emotività, gli affetti, ma anche il senso della giustizia impongono alla ragione di cercare nuove risposte, la sospingono ad indagare ancora e a non arrendersi. Il grande psichiatra viennese Victor Frankl, in Come ridare senso alla vita, 2007, racconta un episodio di quando era ragazzo: “Sono passati ormai cinquant'anni da quando il mio professore di storia naturale alle scuole medie, camminando su e giù per la classe, affermava: « La vita, in fin dei conti, non è altro che un processo di combustione, di ossidazione ». Al che io, senza chiedere la parola, balzai in piedi e con foga gli tirai secca questa domanda: «E va bene; ma allora che senso ha tutta la vita?»”.
Sentiamo il vuoto esistenziale, qualcuno dice l’assurdità o la gratuità dell’esistenza, ma siamo come dei naufragi abbandonati nel mare della vita. Il senso di un oggetto va oltre i pezzi di cui è formato: anche se ho tutti i pezzi di un orologio, ingranaggi, rotelle e lancette, la loro somma non fa ancora un orologio. Questo vale anche per l’uomo. Non è nella somma delle sue componenti che si trova il senso della vita. Al di là dei significati religiosi che si possono attribuire a questa domanda e che, se vuoi, prenderemo in considerazione un’altra volta, per ora cerchiamo di rimanere nell’ambito del finito. Il senso dell’esistenza non può essere dato da un’altra persona. Oppure ci può essere suggerito, indicato, consigliato, per una ragione o per un’altra. Il senso della vita però deve essere trovato. Ognuno trova il suo. Diceva Nietzsche: « Chi ha un perché per vivere, sopporta qualsiasi come vivere». Vale a dire: chi riesce a dare un senso alla sua vita, è aiutato da questa consapevolezza a affrontare con successo la complessità delle situazioni in cui deve agire e anche i suoi smarrimenti interiori. Spesso dobbiamo solo essere incoraggiati a ricercare un significato per la vita, perché talvolta i significati che le abbiamo attribuito si logorano e non reggono la prova del tempo e delle esperienze. Io non credo che il senso della vita si comprenda alla fine, il senso della vita è ciò che guida la tua esistenza e ti permette di viverla pienamente. In questo modo, quando la nostra fiammella si spegnerà, sarai comunque certa di aver vissuto.
Un caro saluto,
Alberto

lunedì 15 febbraio 2010

Nuova concezione di Dio


Un’esperienza che ha cambiato il mio modo di vedere Dio.
Ho ricevuto un'educazione cattolica, e nei miei anni d'infanzia sono stata molto credente.
Tuttavia, dopo la cresima, mi sono resa conto di aver accettato questa religione più per abitudine che per vera fede. Ho cominciato a chiedermi se era davvero possibile che tutto ciò che diceva la Chiesa fosse vero. Ho capito che dentro di me non ci avevo mai creduto. Sono diventata atea. Le parole della Chiesa mi sembravano sempre più assurde e prive di senso. Ho continuato tuttavia a frequentare il gruppo scout di Fossano, nel quale ero entrata ormai da tempo. L'esperienza prevede anche un cammino di fede, ma io non ci ho mai dato molta importanza.
Almeno fino ad un anno fa.
Tra le varie attività, ci sono anche gli “hike”, esperienze di due o tre giorni da vivere in gruppi di due o tre ragazzi, spesso facendo volontariato presso qualche parrocchia. La scorsa primavera sono capitata, insieme a un altro ragazzo, in un monastero ortodosso vicino a Revello. Mi aspettavo tre giorni di noiose preghiere e messe interminabili. Invece è stata un'esperienza unica. A parte la bellezza del posto, immerso nella natura, sono proprio entrata a contatto con un modo diverso di intendere la religione. Non mi hanno imposto nessuna preghiera e nessuna messa, ma mi hanno invitato a parlare di religione e di Chiesa in generale. Questi monaci avevano spesso idee diverse rispetto alla Chiesa, ma era incredibile quante cose conoscessero non solo sulla Bibbia e sulla teologia cristiana, ma anche riguardo ad altre religioni. Adesso mi è difficile ricordare di quante cose abbiamo parlato, ma ricordo che mi aveva stupito il grande rispetto che avevano per me, nonostante sapessero bene che non la pensavo come loro. Ma soprattutto mi hanno aiutato a capire una cosa che in effetti era ovvia, ma che io avevo totalmente ignorato: che Dio non è legato alla religione o alla Chiesa. L'idea di Dio è innata, è in ogni uomo. Prima non avevo mai saputo separare Dio da Gesù, dal Papa e da tutte le tradizioni cristiane. E mi sono accorta che, se ero certa che il Dio cristiano fosse falso, non ero affatto certa che Dio, in quanto ente supremo, non esistesse. Il mio modo materialistico di vedere la realtà è crollato, dopo quell'esperienza, riaprendo tante questioni che pensavo di aver risolto abbandonando la religione cattolica. Molte delle domande che sono ricomparse in quei tre giorni sono ancora senza risposta, ma sono felice di non essermi fermata al semplice materialismo scientifico. Forse non arriverò mai a condividere il pensiero di quei monaci, ma è ancora presto per dirlo.
Giulia



Cara Giulia,
Dall’infanzia all’adolescenza sono davvero molti i cambiamenti a cui andiamo incontro: di solito ci soffermiamo soprattutto sui mutamenti del corpo, per la metamorfosi radicale che in esso avviene in questo periodo e consideriamo meno le trasformazioni culturali, che sono delle vere e proprie rivoluzioni. Non solo semplici preoccupazioni momentanee che tormentano, ma veri e propri cambiamenti di orbita rispetto alle convinzioni del passato. A volte, per non deludere la famiglia o il gruppo di appartenenza, le persone continuano ad accettare e ad accogliere quello che è stato loro insegnato: non vogliono disattendere le aspettative dei genitori o quelle della comunità in cui vivono. Ma, prima o poi, ognuno deve fare i conti con definizioni che vanno a formare il senso delle idee, con concetti che orientano le valutazioni sugli eventi della vita, con espressioni che si radicano a fondo nella mente. E la ragione non si fa attendere. Si diventa allora rapidamente allergici verso ciò che non persuade a fondo, insofferenti alle banalizzazioni, ribelli nei confronti di ciò che è infantile. Le persone non accettano certamente di essere sprovvedute, ingenue, ridicole e desiderano sbarazzarsi presto di pezzi di cultura incoerenti che sopravvivono nei pensieri.
Gli antichi filosofi della Scolastica avrebbero detto però: “fides quaerens intellectum”, ossia che la fede ha bisogno della ragione, ne esige il chiarimento. Il monaco benedettino Anselmo d’Aosta (1033-1109) scriveva: “Così anche se il giusto ordine esige che prima di presumere di discuterla razionalmente, crediamo nella profondità della fede cristiana, mi sembra pigrizia mentale il non cercare di comprendere ciò che crediamo, dopo essere stati confermati nella fede” (Cur Deus homo). Pigrizia mentale era dunque considerata la rinuncia ad approfondire con la ragione le questioni della fede.
Certo, la ragione non necessariamente può condurre a credere, e i sentieri della ragione possono avere approdi molto diversi; ma non si può fare a meno della ragione se non si vuole buttare via tutto. Gli psicologi dell’età evolutiva dicono che i bambini quando non riescono a mettere insieme i pezzi di un giocattolo lo buttano via incolleriti. Anche per la fede credo che accada qualcosa di simile: se non si riescono più a mettere insieme i pezzi, si rigetta tutto in blocco. Per questo occorre mettere in atto un comportamento maturo, adulto. Credo che anche nelle questioni di fede ci voglia pazienza e anche sforzo: attenzione nel riconsiderare le risposte che la tradizione culturale ha consegnato, interesse a lasciare aperto lo spazio del mistero; coraggio nell’approfondire il senso di certe esperienze che provengono da una tradizione e che con il passare del tempo si sono cristallizzate e talvolta svuotate di significato.
Credo che, a distanza di tempo, la ragione ci possa condurre a due posizioni: in questo momento non penso tanto all’alternativa radicale tra un energico e definitivo disprezzo per le idee trasmesse e un’accettazione irrazionale: una dicotomia a cui la cultura contemporanea ci ha spesso abituati. Penso piuttosto a due alternative più moderate. La prima, incarnata dal filosofo francese contemporaneo André Comte-Sponville che, consapevole della storia che costituisce ognuno di noi, non respinge con asprezza la religione, ma con essa convive e dialoga, pur da una posizione diversa: “Sono stato educato nella religione cristiana, - scrive - e nei suoi confronti non nutro animosità né collera, anzi: a quella religione, e quindi anche a quella Chiesa (nel caso specifico la Chiesa cattolica), devo una parte essenziale di ciò che sono, o di ciò che cerco di essere. La mia morale, anche dopo che ho smesso di credere, non è per nulla cambiata, e neppure la mia sensibilità. Persino il mio modo di essere ateo resta marchiato dalla fede della mia infanzia e della mia adolescenza. Perché dovrei vergognarmene? Perché dovrei stupirmene? È la mia storia, o meglio: è la nostra storia. Cosa sarebbe l'Occidente senza il cristianesimo? Cosa sarebbe il mondo senza i suoi dèi? Essere atei non è una buona ragione per perdere la memoria. L'umanità è una sola e la religione ne fa parte, l'irreligione anche, e l'una non può fare a meno dell'altra”. (Lo spirito dell’ateismo [2006] 2007)
La seconda posizione, invece, è più simile a quella del teologo italiano Vito Mancuso. In molti libri si sforza di verificare cosa oggi della religione si accorda con la scienza e cosa invece deve essere riveduto. Egli indaga soprattutto alcune posizioni che nel corso della storia si sono trasformate in certezze metafisiche e che oggi invece sono meno giustificate. Ha scritto alcuni libri interessanti, Rifondazione della fede [2005] 2008 e L’anima e il suo destino [2007]. Mancuso ad es. fa riferimento ad una fede più matura che non ha paura di abbandonare alcune idee che nel corso del tempo si sono rivelate errate e si concentra di più sui contenuti essenziali della religione; egli parla dell’amore come movente principale che porta l’uomo alla fede in Dio. Così scrive: “l'amore (esistenziale e insieme intellettuale) è l'unico vero motore che porta a credere in Dio. Tutte le altre argomentazioni elaborate dalla teologia lungo i secoli per motivare la fede (grazia divina, obbedienza a Dio che si rivela e alla Chiesa che ne annuncia la rivelazione, fedeltà alla tradizione) non sono altro che tentativi indiretti di fondare l'unico, perenne, a mio avviso indistruttibile motivo che, da sempre, è alla base dello sguardo che dalla terra si rivolge al cielo, e che consiste precisamente nell'amore per la vita e per gli uomini in essa. È l'amore per gli uomini a condurre la mente a postulare l'esistenza di un senso alle loro esistenze che appaiono e scompaiono nel tempo, e a chiamare questo senso "Dio".”
Anch’io penso che tu faccia bene a rinunciare al materialismo scientifico. Il mondo è più complesso di quanto riusciamo a comprendere. Roberto Giovanni Timossi ha scritto un libro dal titolo L’Illusione dell’ateismo. Perché la scienza non nega Dio (Milano, San Paolo 2009) in cui valuta le perentorie affermazioni di alcuni scienziati che presentano come scientifiche anche le loro convinzioni personali e, tra le altre, riporta questa bella frase di Louis Pasteur: “Poca scienza allontana da Dio, ma molta scienza riconduce a Lui”.
Ho sempre apprezzato un grande matematico del Novecento, Alfred North Whitehead che in un libro dal titolo La scienza e il mondo moderno [1926] (Boringhieri 1979) dice che non dobbiamo spaventarci delle divergenze che possono nascere in noi o dei contemporanei conflitti tra religione e scienza perché: “il contrasto è segno che vi sono verità più ampie e prospettive più raffinate nel cui ambito si troverà la conciliazione di una religione più profonda e di una scienza più acuta” […] “un contrasto di teorie non è una sciagura; è una possibilità da sfruttare”.
E più avanti dice che mentre la scienza continua a cercare di rinnovarsi e di migliorare, la religione per molto tempo “è rimasta sulla difensiva, una fiacca difensiva” […]; quando Darwin o Einstein proclamano teorie che modificano le nostre idee riconosciamo che si tratta di un trionfo della scienza. Non ci preoccupiamo affatto che si dica che la scienza ha subìto un’altra sconfitta per il fatto di aver abbandonato sue vecchie convinzioni. Siamo invece ben consci che si è compiuto un nuovo passo avanti nella comprensione scientifica. La religione non recupererà la sua vecchia forza finché non riuscirà ad affrontare i cambiamenti con lo stesso spirito della scienza. I suoi principi possono essere eterni, ma la loro espressione necessita di un costante sviluppo”.
Whitehead intende questo sviluppo come una liberazione di alcune idee che sono state concepite in altri tempi per comprendere il messaggio autentico.
A me è sempre piaciuto molto un passo dei Pensieri di Pascal. Di quel Pascal grande matematico e uomo sensibilissimo che, pur ricordando che la ragione è ciò che l’uomo ha di più elevato, ha anche l’audacia (e l’umiltà) di dire che la razionalità ha comunque dei limiti e che pertanto occorre ricordare che “l’ultimo passo della ragione sta nel comprendere che vi sono infinite ragioni che la sorpassano”.
Un caro saluto,
Alberto

lunedì 8 febbraio 2010

Il bene e il male


Caro professore,
La definizione di bene e male è una definizione che riguarda solo la legge morale oppure esistono momenti storici in cui i concetti giuridici - e prima ideologici - di una società modificano i paradigmi di riferimento?
Oggi, con il senno del poi, possiamo dire che il nazismo con i campi di concentramento rappresenti il male assoluto, ma l'uomo della strada nella Germania del 1940 con quali riferimenti morali si confrontava? E come poteva capire che egli era parte di una società "malvagia"?
Se esiste un male assoluto, può esistere un bene assoluto? Se esiste la definizione di male radicale (che Kant introduce come la tendenza della volontà umana a seguire, nelle decisioni etiche, le inclinazioni della sensibilità anziché rispettare i principi morali comandati dalla legge morale universale e razionale che pure ogni uomo conosce) può esistere una definizione del suo opposto? E se essa esiste, perché gli uomini non la esprimono e non vi tendono? Evidentemente non esiste un "bene assoluto" o almeno non esiste un'unica definizione di "bene assoluto", e probabilmente vi sono anche definizioni di "bene assoluto" incompatibili o addirittura antitetiche tra loro.
Possiamo quindi presumere che anche per il male assoluto non esista un'unica definizione, quindi un'unica forma di male.
Come può quindi l'uomo, come esorta la Arendt, munirsi degli strumenti intellettivi per "essere vigilante" e non consentire la riedizione di totalitarismi che siano una nuova interpretazione del male assoluto?
Quello dei nazisti è stato un vero attentato ontologico all'umanità, come lo definisce la Arendt, cioè un intervento finalizzato alla progettazione di un nuovo essere, di una nuova natura umana che non si opponga al regime totalitario.
In questi giorni mi sono documentata molto, attraverso libri, fotografie e fonti cinematografiche: a partire dal processo ad Eichmann fino al trattamento subito dagli ebrei nei campi di concentramento e sterminio, la domanda che mi sorge naturale è: come è stato possibile tutto questo, come persone normali, ragionieri, insegnanti, padri e madri, hanno potuto trasformarsi in perfidi aguzzini, commettere atrocità immani pensando di poter continuare la loro vita normale perseguendo l’aspirazione alla felicità come ogni uomo? A quale sovrastruttura culturale un intero popolo è approdato per poter considerare quegli atti come dovuti? Cosa avremmo fatto noi al posto loro?
Grazie
Rossana



Cara Rossana,
In uno scritto anonimo del IV sec. a. C., dal titolo Discorsi duplici, l’autore mostra esempi di relativismo morale e culturale: “I Massageti dopo avere fatto a pezzi i genitori, li mangiano e credono che la tomba più bella sia l’essere sepolti nei figli; se, invece, in Grecia qualcuno compisse queste azioni, sarebbe cacciato in bando dall’Ellade, e morirebbe nell’infamia, in quanto autore di azioni turpi e orrende” (90, 2, 14). E l’autore conclude dicendo: “credo che se qualcuno ordinasse a tutti gli uomini di radunare in un sol luogo tutte quelle usanze che ciascuno considera brutte, e poi di eliminare dal mucchio quelle che ciascuno considera belle, non ne resterebbe nemmeno una, ma tutti le riprenderebbero tutte. Infatti non tutti hanno le stesse convinzioni” (Diels-Kranz, I presocratici, Bompiani 2006, [90, 2, 18]). Come a dire che non esistono valori assoluti né per il bene né per il male. Esiste però il male assoluto?, ed esiste anche il suo contrario, ossia il bene assoluto? O esistono definizioni di “bene assoluto” incompatibili tra loro? Ad un primo livello possiamo dire che il bene assoluto è la vita, perché solo a partire da questo bene possono discendere altri beni. Privati di questo bene, nulla è più possibile. Viceversa il male assoluto è innanzitutto l’annientamento della persona, proprio perché nulla è più possibile. Anche il male estremo di un sistema dispotico e autoritario può non essere assoluto, perché – almeno in via teorica – si può sempre pensare che qualcosa cambi. Quindi non è proprio esatto che non si possa stabilire che cosa è bene e che cosa è male. Se poi le società si organizzano ritenendo che alcune cose siano preferibili ad altre, e quindi siano beni più facilmente perseguibili, nulla toglie che, senza il bene primario della vita, il resto sia vano.
1. Ma da dove deriva la nostra capacità di giudizio morale?
A) dal Sentimento; B) dalla Ragione;
Consideriamo innanzitutto due grandi tradizioni: quella che dice che la morale deriva dal sentimento e quella che considera la morale come un prodotto della ragione.
A) Si può pensare, con Hume, che la facoltà morale derivi dal sentimento, dalla capacità di immedesimarsi negli altri, dall’empatia. Hume infatti riteneva che a partire dalla “simpatia” gli uomini fossero in grado di penetrare l’animo umano e di formulare successivamente i giudizi di giusto e ingiusto. Così scrive infatti: “ed è in questo modo – cioè attraverso la simpatia - che riusciamo a entrare tanto profondamente nelle opinioni e nelle affezioni altrui ogni volta che le scopriamo” […] “E’ certo evidente che quando proviamo simpatia per le passioni e i sentimenti degli altri, questi moti dell'animo appaiono inizialmente nella nostra mente come mere idee, e vengono pensati come appartenenti a un'altra persona, non diversamente da come concepiamo qualsiasi altro dato di fatto. E’ altresì evidente che le idee delle affezioni altrui si convertono nelle impressioni stesse che rappresentano e che le passioni sorgono in conformità alle immagini che ce ne formiamo.” (Sulle passioni, II, Laterza 2004).
Due bellissimi libri che sviluppano riflessioni in questa direzione da un punto di vista dello sviluppo psicologico e da un punto di vista sociale sono quello di Martin Hoffman, Empatia e sviluppo morale (Il Mulino 2008), e quello di Lynn Hunt, La forza dell'empatia. Una storia dei diritti dell'uomo (Laterza 2010). Lynn Hunt in questa bellissima storia dei diritti dell’uomo, facendo riferimento anche ai grandi romanzi del Settecento e dell’Ottocento, dice che “I diritti umani riuscirono a fiorire soltanto quando gli individui impararono a pensare agli altri come a loro pari, fondamentalmente uguali a loro”. E più avanti scrive: “prima di qualsiasi ragionamento, la compassione agiva come una specie di forza gravitazionale sociale per far sì che le persone si aprissero agli altri.”
B) Oppure si può pensare, con Kant, che la facoltà morale sia un prodotto della ragione (Critica della ragion pratica, [1788] Laterza 2006). Se nel mondo della fisica tutto avviene per necessità, cioè per causa ed effetto (l’acqua bolle a 100 gradi; se divento rosso ci sono delle cause precise), esiste però la possibilità attraverso la ragione di non essere completamente determinati dal mondo fisico, perché la ragione, una volta che riconosce il dovere – ciò che è giusto fare - può determinare la volontà a compierlo oppure no. In questo senso, esiste per l’uomo la libertà. Secondo Kant decidere seguendo o assecondando le emozioni non permetterebbe di conseguire l’universalità o l’imparzialità. Per spiegare il carattere incondizionato del dovere morale, Kant formula questo imperativo: “agisci in modo che la massima della tua volontà possa sempre valere nello stesso tempo come principio di una legislazione universale” (Critica della ragion pratica). Dice cioè di prendere la massima che dovrebbe motivare l’azione (fai questo o fai quello), e ipotizzare che diventi una legge universale (tutti devono fare così). Attraverso questa generalizzazione, gli uomini possono comprendere se l’azione che vogliono compiere è morale oppure no. L’uomo è libero, perché - una volta riconosciuta la legge morale - può decidere se seguirla oppure no.

2. Come è possibile che persone normali si possano trasformare in perfidi aguzzini?

Dopo le efferatezze compiute nei regimi totalitari, verso la fine degli anni Sessanta vennero messe in atto delle ricerche di psicologia sociale che dimostrarono che persone normali, prive di anomalie psicologiche o idee politiche o religiose estreme, in certi contesti potevano essere indotte a compiere azioni di particolare violenza e gravità. Cito due soli esempi: quello di Stanley Milgram e quello di Philip Zimbardo.
1. Stanley Milgram organizzò nell’Università di Yale un famoso esperimento per studiare gli effetti del condizionamento e l’obbedienza all’autorità. Invitò persone normali a prendere parte ad un esperimento, che venne presentato come un esperimento sulla memoria. Le persone che si presentarono ebbero la consegna di fare una “l’insegnante” l’altra “l’allievo”. Lo scopo dichiarato consisteva nella memorizzazione di coppie di parole. Se l’associazione ripetuta era corretta, l’insegnante avrebbe dovuto dire “Bene”o “Giusto”, mentre ad ogni risposta sbagliata avrebbe dovuto somministrare delle scosse elettriche per sanzionare l’errore. Era stato costruito un generatore (finto) con 30 interruttori; partiva da 15 volt e, di 15 in 15, giungeva a 450 volt. Quando l’allievo (finto) cominciava a fare errori, “l’insegnante” premeva gli interruttori. Che cosa accadde? Ad un certo punto “l’allievo” cominciava a lamentarsi e addirittura a chiedere la sospensione dell’esperimento, mentre “l’insegnante”, consigliato da un uomo con il camice bianco, anche nei momenti di incertezza seguiva però le istruzioni dell’autorità. Nell’esperimento di Milgram il 65% dei volontari è arrivato a somministrare fino a 450 volt (anche quando non sentiva più la voce della persona nella stanza attigua).
2. Philip Zimbardo negli anni seguenti fece a Stanford un altro esperimento: cercò di reclutare degli studenti per uno studio sulla vita carceraria. Grazie ad un annuncio su un giornale riuscì a convocare molte persone. Dopo un’attenta valutazione psicologica di ogni candidato, le persone vennero divise tra carcerieri e prigionieri. Zimbardo voleva studiare che cosa significava psicologicamente essere un detenuto o una guardia carceraria. Vennero fornite delle regole con cui vivere all’interno del carcere per due settimane. Con il passare del tempo gli studiosi notarono però una progressiva perdita di umanità dei prigionieri: venivano infatti considerati privi di valore da parte delle guardie. A causa della violenza e del pervertimento dei carcerieri, l’esperimento divenne pericoloso per i prigionieri stessi e pertanto fu sospeso.
Puoi trovare questi esperimenti - e molti altri ancora - nel bel volume di Philip Zimbardo dal titolo L’effetto Lucifero [2007] (Raffaello Cortina 2008).
3. Puoi anche leggere le riflessioni dello storico Christopher Browning (1944), che ha pubblicato il libro Uomini comuni. Polizia tedesca e «soluzione finale» in Polonia, Einaudi 2004).
In tutti questi episodi viene messo in luce come contesti particolari agiscano anche profondamente sulla nostra facoltà morale. Ma questi fatti non cancellano comunque le responsabilità individuali.

3. Banalità del male e banalità del bene.

Faccio ora un rimando a due importanti pubblicazioni che hanno titoli contrapposti, ma che ovviamente si richiamano: a quella di Hannah Arendt, La banalità del male, (Feltrinelli [1963] 2006) e a quella di Enrico Deaglio, La banalità del bene, (Feltrinelli 1993). Voglio raccontarti qualche aspetto dei protagonisti dei due libri che hanno incarnato aspetti del male e del bene: Adolf Eichmann e Giorgio Perlasca.

Adolf Eichmann (1906-1962)

Faccio pertanto riferimento al processo ad Adolf Eichmann che si svolse a Gerusalemme nel 1961. La filosofa Hannah Arendt, che lo racconta, al tempo era corrispondente per il The New Yorker. Eichmann era un funzionario tedesco zelante, definito persino uno “specialista” per la sua capacità di risolvere i problemi organizzativi e pianificare le partenze dei treni per i campi di concentramento e di sterminio. Eichmann aveva inoltre partecipato alla Conferenza di Wannsee, il 20 gennaio 1942, in cui venne decisa la “soluzione finale” della questione ebraica (Endlösung der Judenfrage). Nel resoconto del processo Arendt mise però in luce la “normalità” dell’uomo, una “normalità” intesa come assenza di spietatezza e brutalità che caratterizzarono invece altri nazisti.
"Personalmente" - scrive Hannah Arendt - egli non aveva mai avuto nulla contro gli ebrei; anzi, aveva sempre avuto molte "ragioni private" per non odiarli”. Il Pubblico Ministero, i giudici e anche il suo difensore faticarono però a comprenderlo perché stentavano – scrive la filosofa - ad “ammettere che una persona comune, "normale," non svanita né indottrinata né cinica, potesse essere a tal punto incapace di distinguere il bene dal male. Da alcune occasionali menzogne preferirono concludere che egli era fondamentalmente un "bugiardo" — e cosí trascurarono il piú importante problema morale e anche giuridico di tutto il caso. Essi partivano dal presupposto che l'imputato, come tutte le persone "normali," avesse agito ben sapendo di commettere dei crimini; e in effetti Eichmann era normale nel senso che "non era una eccezione tra i tedeschi della Germania nazista," ma sotto il Terzo Reich soltanto le "eccezioni" potevano comportarsi in maniera "normale." Questa semplice verità pose i giudici di fronte a un dilemma insolubile, e a cui tuttavia non ci si poteva sottrarre”. Per il contrasto tra la sproporzione dell’accaduto e la mancanza di coscienza, per l’enormità delle conseguenze e la leggerezza con cui furono commesse, Arendt coniò una espressione che ancora oggi è famosa: “la banalità del male”. Eichmann svolgeva le mansioni affidategli e, come ebbe a dire, non secondo la propria “inclinazione”; dunque non si considerava un assassino. Dopo la conferenza di Wannsee in cui avevano parlato i personaggi più significativi del Terzo Reich, Eichmann disse al giudice: “In quel momento mi sentii una specie di Ponzio Pilato, mi sentii libero da ogni colpa.” Non era stato lui in prima persona a decidere, c’erano altri più importanti: lui eseguiva solo gli ordini e dunque si sentiva sollevato: non si sentiva in colpa.
Hannah Arendt scrive: “quando io parlo della "banalità del male," lo faccio su un piano quanto mai concreto. Eichmann non era uno Iago né un Macbeth, e nulla sarebbe stato piú lontano dalla sua mentalità che "fare il cattivo" — come Riccardo III — per fredda determinazione. Eccezion fatta per la sua eccezionale diligenza nel pensare alla propria carriera, egli non aveva motivi per essere crudele, e anche quella diligenza non era, in sé, criminosa; è certo che non avrebbe mai ucciso un suo superiore per ereditarne il posto. Per dirla in parole povere, egli non capi mai che cosa stava facendo. […] Non era uno stupido; era semplicemente senza idee (una cosa molto diversa dalla stupidità), e tale mancanza d'idee ne faceva un individuo predisposto a divenire uno dei piú grandi criminali di quel periodo. E se questo è "banale" e anche grottesco, se con tutta la nostra buona volontà non riusciamo a scoprire in lui una profondità diabolica o demoniaca, ciò non vuol dire che la sua situazione e il suo atteggiamento fossero comuni”.
Quando venne giustiziato disse: “"Tra breve, signori, ci rivedremo. Questo è il destino di tutti gli uomini. Viva la Germania, viva l'Argentina, viva l'Austria. Non le dimenticherò." Hannah Arendt conclude dicendo che: “Di fronte alla morte aveva trovato la bella frase da usare per l'orazione funebre. Sotto la forca la memoria gli giocò l'ultimo scherzo: egli si sentì "esaltato" dimenticando che quello era il suo funerale.
Era come se in quegli ultimi minuti egli ricapitolasse la lezione che quel suo lungo viaggio nella malvagità umana ci aveva insegnato — la lezione della spaventosa, indicibile e inimmaginabile banalità del male.”


Giorgio Perlasca (1910-1992)

Giorgio Perlasca, nel 1944, riuscì invece a salvare migliaia di ebrei ungheresi che erano stati destinati a deportazione nei campi di concentramento. Era un commerciante di carni che, come ricorda Enrico Deaglio, fu bloccato a Budapest dall’8 settembre. Internato con altri italiani riuscì a fuggire nel periodo finale della guerra e si rifugiò nella sede diplomatica spagnola ottenendo un falso passaporto. Quando l'ambasciatore spagnolo dovette lasciare l'Ungheria, invece di pensare solo a se stesso e a salvare la propria vita, si autonominò nuovo rappresentante della Spagna davanti al governo filonazista ungherese. Una cosa che, a pensarci, è pazzesca. E non fu solo per qualche giorno, ma durò dal 1° dicembre 1944 al 16 gennaio 1945. Come autorevole e competente ambasciatore di una nazione neutrale, riuscì a salvare più di 5000 ebrei ungheresi: li nascose in edifici posti sotto la giurisdizione spagnola, trattò con i nazisti che li volevano deportare, e li salvò dalle bande di fanatici che li volevano uccidere. Enrico Deaglio scrive: “Ma quello che fece Perlasca è unico e clamoroso. Non aveva una funzione, ma se la creò. La sua azione non si esaurì in un solo gesto, ma durò mesi e venne portata a termine con grandi doti di organizzazione che produssero risultati insperati, nelle condizioni più rischiose”.
Quello che stupisce di questa vicenda è il fatto che quando la sua famiglia si era trasferita da Como a Trieste, lui, ragazzino, aveva prima aderito al fascismo, era stato a favore dell’impresa di Fiume di D’Annunzio, era andato volontario in Abissinia, e nel 1936 era andato a combattere in Spagna come artigliere. Ma quando gli venne chiesto perché rischiò ogni giorno la vita per salvare gli ebrei, rispose: “perché non potevo sopportare la vista di persone marchiate come degli animali. Perché non potevo sopportare di veder uccidere dei bambini. Credo che sia stato questo, non credo di essere stato un eroe. Alla fine dei conti, io ho avuto un’occasione e l'ho usata”.
Mi ha sempre commosso la frase che Perlasca disse al giornalista che lo intervistava: “Lei, che cosa avrebbe fatto al mio posto?”, perché in fondo è già una risposta. Nell’apparente semplicità che sembra minimizzare il gesto, abbassarlo quasi alla normalità, rivela invece la natura morale della persona. Voglio dire che l’uomo può essere sottoposto a mille condizionamenti, e in un certo senso avere anche mille ragioni, ma poi, di fronte ad un fatto cruciale nella vita, deve decidere. Bisogna immaginarsi la scena. Quando l’ultima macchina non era più disponibile, “Jorge” Perlasca se ne andava in giro a piedi per Budapest seguito da un gendarme che reggeva la bandiera spagnola. In mezzo alla guerra. Lui dirà: “ Mi sembrava di essere un guerriero medievale… ma guardi che era utile portare la bandiera. Era molto utile”. Un uomo seguito da un altro uomo con una bandiera per le strade della città, in mezzo ai Crocefrecciati ungheresi che non avrebbero esitato un secondo ad ammazzarlo. Avrebbe potuto fuggire, o rinunciare dopo un po’, e invece niente. Rimase lì, in quel contesto pazzesco, a recitare quella parte, ogni giorno, davanti a soldati e ufficiali, procurando intanto lettere di salvacondotto per migliaia di persone. In un’occasione pericolosa che poteva essergli fatale, lui ha scelto di agire. Liberamente. E per gli altri. E allora penso che in quella domanda così semplice, ma decisiva, ci sia tutta la dignità di un uomo e la risposta che, nonostante tutti i condizionamenti, ogni uomo può decidere che cosa fare.
Un caro saluto,
alberto

1. (Su Perlasca puoi anche vedere il nuovo lavoro di Dalbert Hallenstein e Carlotta Zavattiero appena uscito dall’editore Chiarelettere, Giorgio Perlasca. Un italiano scomodo - 2010).
2. (Come potrai vedere nel libro – L’effetto Lucifero - Philip Zimbardo userà anche il concetto di “banalità dell’eroismo”).

lunedì 1 febbraio 2010

Sogni che si avverano



Non vi è mai capitato di vedere film dove la protagonista ha dei sogni premonitori? Vi siete mai chiesti se questi sogni possono esistere o no? Beh, io posso dire di essere sicura della loro esistenza perché mi è capitato di farne due, ma l’ultimo in particolare era esattamente uguale alla realtà.
Ero in classe durante la lezione di fisica ed eravamo tutti agitati perché il professore avrebbe dovuto scegliere gli alunni da interrogare….si era appoggiato al davanzale della finestra vicino alla cattedra e aveva detto: “Sa, interroghiamo….” e poi ha pronunciato il mio nome.
Il giorno dopo (nella realtà intendo) lo stesso professore avrebbe appunto dovuto interrogare; io stavo aspettando che chiamasse qualcuno e, esattamente come nel sogno, si è appoggiato al davanzale dicendo: “Sa, interroghiamo…” …e indovinate? Ebbene sì, aveva detto il mio nome. Per fortuna, nelle ore prima avevo ripassato e l’interrogazione non è andata male, ma non è questo il problema….il problema è: come è stato possibile? Semplice coincidenza? Oppure esiste un contatto, un legame tra qualcosa, spirito, inconscio, anima, mente?
Lucia

Quando in classe abbiamo parlato dell’ambiguità dei sogni mi è venuto in mente un fatto alquanto strano. Quest’estate ho sognato che un mio amico mi diceva: “Eleonora, sai che ho preso la patente?” ed io gli rispondevo: “sono proprio contenta! Adesso vieni a casa mia e ti faccio il caffè!”. Nella scena successiva del sogno mi sono vista nella cucina di casa mia. Mentre gli preparavo il caffè ho rotto la macchina per farlo.
Il giorno dopo, nel pomeriggio, questo mio amico mi ha telefonato dicendomi proprio di aver finalmente preso la patente ed io l’ho invitato da me per un caffè. La sera, mentre stavo preparando il caffè per me, ho proprio rotto la macchinetta!
Sono rimasta stupita, ma allo stesso tempo divertita: com’è possibile un fenomeno simile? Il nostro inconscio è cioè in grado di dirci cosa succederà in futuro?
La ringrazio,
Eleonora


Care Lucia e Eleonora,
Quello che vi è capitato rientra nella classificazione dei sogni che Artemidoro di Daldi nel II sec. d. C. - che di professione faceva l’oniromante, ossia l’interprete di sogni (Il libro dei sogni, Bur, 2006) -, definisce “sogni visivi”: “Per quanto riguarda l'insieme dei sogni, - scrive - ne chiamiamo alcuni visivi, altri allegorici: visivi quelli che si avverano esattamente come sono stati visti, allegorici quelli che mostrano il loro significato attraverso enigmi.”
È impossibile dare conto di quanti sogni in qualche modo si siano avverati esattamente con le caratteristiche con cui sono stati sognati, ma certamente la letteratura e anche l’esperienza quotidiana sono ricchissimi di sogni analoghi. Sogni che “anticipano” o “predicono” il futuro sono frequenti nell’antichità: pensiamo anche solo ai sogni narrati nella Bibbia e a quella grande raccolta dei sogni nel mondo antico composta proprio da Artemidoro. Nella storia della filosofia, curiosamente, anche il fondatore del razionalismo moderno, ossia Cartesio, fece tre “sogni premonitori” (1619) a cui diede molta importanza, perché raccontava che in questi sogni gli furono rivelati i “fondamenti” della scienza, e proprio a seguito di tali rivelazioni fece persino il voto di andare in pellegrinaggio a Loreto. Più avanti, Schopenhauer scrisse persino un libretto dal titolo: “Saggio sulle visioni del mondo e su quanto vi è connesso” (in Parerga e Paralipomena, Adelphi 2003) in cui esprimeva con forza la propria convinzione sulla realtà dei sogni. Era così certo della loro consistenza che scriveva: “Chi dubita al giorno d'oggi dei dati di fatto sul magnetismo animale e sulla chiaroveggenza connessavi, non è da chiamarsi un incredulo, ma un ignorante”. Ma sogni che anticipano il futuro sono frequenti anche oggi; per ricordare un episodio famoso, pare che prima della partenza del Titanic molte persone abbiano fatto sogni di una grande nave che affondava.
La meraviglia che avete provato constatando che il contenuto del sogno si è poi verificato nella realtà è la stessa che è stata descritta anche da Schopenhauer. Anche lui annotò un episodio analogo ai vostri; un’esperienza singolare come un prodigio della mente stessa. Così racconta: “Infine anche altri avvenimenti, talvolta abbastanza irrilevanti sono minutamente preannunziati nei sogni di alcuni uomini, cosa di cui lo stesso mi sono convinto per un'esperienza che non lascia adito a dubbi. Voglio riferirla, poiché essa mette al tempo stesso nella luce più chiara la rigida necessità di ogni divenire, persino di ciò che appare estremamente casuale. Stavo scrivendo un mattino con grande impegno una lunga lettera di affari in inglese, per me assai importante. Quando ebbi finito la terza pagina, afferrai il calamaio invece che la polverina assorbente, e lo rovesciai sopra la lettera: l'inchiostro cadde dal leggio sul pavimento. La fantesca accorsa al mio scampanellare prese dell'acqua da un secchio e strofinava il pavimento, perché non vi penetrassero le macchie. Mentre stava lavorando mi disse: « Ho sognato questa notte di strofinare qui, per cancellare delle macchie d'inchiostro sul pavimento ». Al che io: « Non può essere vero ». Ed ella di nuovo: « è vero, e nello svegliarmi l'ho raccontato all'altra ragazza che dorme con me ». In questo momento arriva casualmente l'altra fantesca, di circa diciassette anni, per chiamare quella che stava strofinando. Io le vado incontro mentre entra e le chiedo: « Cosa ha sognato costei questa notte? ». Risposta: « Non lo so ». E io di nuovo: « Eppure te l'ha raccontato quando si è svegliata ». La ragazza allora: « Ah sì, ha sognato di strofinare qui per cancellare delle macchie d'inchiostro sul pavimento”.
Egli era convinto del carattere di presagio dei sogni, in modo particolare (come scrisse Artemidoro e come dirà anche Freud) di quelli che si riferiscono allo stato di salute del soggetto in cui si manifesta il sogno. Scrive infatti: “Si rivelano più frequentemente come profetici i sogni riferentisi allo stato di salute di chi sogna, sogni che per lo più preannunziano malattie, anche improvvise e mortali […] ciò è analogo al fatto che anche i sonnambuli chiaroveggenti predicono assai sovente e nel modo più sicuro il corso della loro malattia, delle sue crisi, eccetera. Oltre a ciò vengono anche annunziate talvolta da sogni delle disgrazie esterne, come incendi, esplosioni, naufragi, e soprattutto casi di morte". Prima di Aristotele gli antichi credevano che i sogni fossero prodotti “da un'ispirazione di origine divina” e non dalla psiche stessa, ma già il grande filosofo macedone non concordava più con questa ipotesi (infatti dedicò un’opera al sogno dal titolo Sui sogni, -Marsilio 2003-) e Freud nel suo grande studio sui sogni ricorda inoltre che nell’antichità i sogni venivano distinti in due categorie: quelli rivelatori di qualche evento positivo o negativo e quindi utili al soggetto, e quelli semplicemente prodotti dell’immaginazione, e dunque fatui e ingannevoli. Nella categoria dei sogni significativi e vantaggiosi vi erano sia sogni che si riferivano al passato sia sogni che, come i vostri, si riferivano al futuro. La classificazione di tali sogni prevedeva le seguenti tipologie: profezie, predizioni e sogni simbolici. Così scrive Freud: 1) la profezia diretta ricevuta in sogno (çrûmatismös, oraculum); 2) (quello che è accaduto a voi) la predizione di un avvenimento imminente (hörama, visio); 3) e il sogno simbolico, richiedente un'interpretazione (öneiros, somnium) (L’interpretazione dei sogni [1900] 1997). Spesso pensiamo che i sogni siano importanti, talvolta crediamo che siano rivelatori e a volte, quando il contenuto anticipa un certo evento, pensiamo che veramente venga offerta al soggetto la possibilità di preannunciare un evento futuro. Per questo in fondo si dà importanza ai contenuti che agitano le nostre notti. I fenomeni di predizione non rientrano però nella teoria freudiana che, come è noto, considera il sogno come “l’appagamento camuffato di un desiderio rimosso”. In questi casi è difficile parlare sia di rimozione sia di camuffamento, perché il sogno non ha nulla di celato né presenta la realtà a cui si riferisce in modo simbolico; inoltre riguarda il futuro, non il passato o il presente: potremmo invece dire che i vostri sogni sono curiose o significative anticipazioni. Forse sono aspettative che si realizzano o forse nascondono qualcosa di più profondo e misterioso. Chissà. Per ora, e per le mie conoscenze, non posso che unirmi a Freud e dire che: “i tentativi di interpretazione psicologica sono insufficienti a spiegare la totalità dei fatti conosciuti”.
Un caro saluto,
alberto