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Cor-rispondenze

lunedì 8 febbraio 2010

Il bene e il male


Caro professore,
La definizione di bene e male è una definizione che riguarda solo la legge morale oppure esistono momenti storici in cui i concetti giuridici - e prima ideologici - di una società modificano i paradigmi di riferimento?
Oggi, con il senno del poi, possiamo dire che il nazismo con i campi di concentramento rappresenti il male assoluto, ma l'uomo della strada nella Germania del 1940 con quali riferimenti morali si confrontava? E come poteva capire che egli era parte di una società "malvagia"?
Se esiste un male assoluto, può esistere un bene assoluto? Se esiste la definizione di male radicale (che Kant introduce come la tendenza della volontà umana a seguire, nelle decisioni etiche, le inclinazioni della sensibilità anziché rispettare i principi morali comandati dalla legge morale universale e razionale che pure ogni uomo conosce) può esistere una definizione del suo opposto? E se essa esiste, perché gli uomini non la esprimono e non vi tendono? Evidentemente non esiste un "bene assoluto" o almeno non esiste un'unica definizione di "bene assoluto", e probabilmente vi sono anche definizioni di "bene assoluto" incompatibili o addirittura antitetiche tra loro.
Possiamo quindi presumere che anche per il male assoluto non esista un'unica definizione, quindi un'unica forma di male.
Come può quindi l'uomo, come esorta la Arendt, munirsi degli strumenti intellettivi per "essere vigilante" e non consentire la riedizione di totalitarismi che siano una nuova interpretazione del male assoluto?
Quello dei nazisti è stato un vero attentato ontologico all'umanità, come lo definisce la Arendt, cioè un intervento finalizzato alla progettazione di un nuovo essere, di una nuova natura umana che non si opponga al regime totalitario.
In questi giorni mi sono documentata molto, attraverso libri, fotografie e fonti cinematografiche: a partire dal processo ad Eichmann fino al trattamento subito dagli ebrei nei campi di concentramento e sterminio, la domanda che mi sorge naturale è: come è stato possibile tutto questo, come persone normali, ragionieri, insegnanti, padri e madri, hanno potuto trasformarsi in perfidi aguzzini, commettere atrocità immani pensando di poter continuare la loro vita normale perseguendo l’aspirazione alla felicità come ogni uomo? A quale sovrastruttura culturale un intero popolo è approdato per poter considerare quegli atti come dovuti? Cosa avremmo fatto noi al posto loro?
Grazie
Rossana



Cara Rossana,
In uno scritto anonimo del IV sec. a. C., dal titolo Discorsi duplici, l’autore mostra esempi di relativismo morale e culturale: “I Massageti dopo avere fatto a pezzi i genitori, li mangiano e credono che la tomba più bella sia l’essere sepolti nei figli; se, invece, in Grecia qualcuno compisse queste azioni, sarebbe cacciato in bando dall’Ellade, e morirebbe nell’infamia, in quanto autore di azioni turpi e orrende” (90, 2, 14). E l’autore conclude dicendo: “credo che se qualcuno ordinasse a tutti gli uomini di radunare in un sol luogo tutte quelle usanze che ciascuno considera brutte, e poi di eliminare dal mucchio quelle che ciascuno considera belle, non ne resterebbe nemmeno una, ma tutti le riprenderebbero tutte. Infatti non tutti hanno le stesse convinzioni” (Diels-Kranz, I presocratici, Bompiani 2006, [90, 2, 18]). Come a dire che non esistono valori assoluti né per il bene né per il male. Esiste però il male assoluto?, ed esiste anche il suo contrario, ossia il bene assoluto? O esistono definizioni di “bene assoluto” incompatibili tra loro? Ad un primo livello possiamo dire che il bene assoluto è la vita, perché solo a partire da questo bene possono discendere altri beni. Privati di questo bene, nulla è più possibile. Viceversa il male assoluto è innanzitutto l’annientamento della persona, proprio perché nulla è più possibile. Anche il male estremo di un sistema dispotico e autoritario può non essere assoluto, perché – almeno in via teorica – si può sempre pensare che qualcosa cambi. Quindi non è proprio esatto che non si possa stabilire che cosa è bene e che cosa è male. Se poi le società si organizzano ritenendo che alcune cose siano preferibili ad altre, e quindi siano beni più facilmente perseguibili, nulla toglie che, senza il bene primario della vita, il resto sia vano.
1. Ma da dove deriva la nostra capacità di giudizio morale?
A) dal Sentimento; B) dalla Ragione;
Consideriamo innanzitutto due grandi tradizioni: quella che dice che la morale deriva dal sentimento e quella che considera la morale come un prodotto della ragione.
A) Si può pensare, con Hume, che la facoltà morale derivi dal sentimento, dalla capacità di immedesimarsi negli altri, dall’empatia. Hume infatti riteneva che a partire dalla “simpatia” gli uomini fossero in grado di penetrare l’animo umano e di formulare successivamente i giudizi di giusto e ingiusto. Così scrive infatti: “ed è in questo modo – cioè attraverso la simpatia - che riusciamo a entrare tanto profondamente nelle opinioni e nelle affezioni altrui ogni volta che le scopriamo” […] “E’ certo evidente che quando proviamo simpatia per le passioni e i sentimenti degli altri, questi moti dell'animo appaiono inizialmente nella nostra mente come mere idee, e vengono pensati come appartenenti a un'altra persona, non diversamente da come concepiamo qualsiasi altro dato di fatto. E’ altresì evidente che le idee delle affezioni altrui si convertono nelle impressioni stesse che rappresentano e che le passioni sorgono in conformità alle immagini che ce ne formiamo.” (Sulle passioni, II, Laterza 2004).
Due bellissimi libri che sviluppano riflessioni in questa direzione da un punto di vista dello sviluppo psicologico e da un punto di vista sociale sono quello di Martin Hoffman, Empatia e sviluppo morale (Il Mulino 2008), e quello di Lynn Hunt, La forza dell'empatia. Una storia dei diritti dell'uomo (Laterza 2010). Lynn Hunt in questa bellissima storia dei diritti dell’uomo, facendo riferimento anche ai grandi romanzi del Settecento e dell’Ottocento, dice che “I diritti umani riuscirono a fiorire soltanto quando gli individui impararono a pensare agli altri come a loro pari, fondamentalmente uguali a loro”. E più avanti scrive: “prima di qualsiasi ragionamento, la compassione agiva come una specie di forza gravitazionale sociale per far sì che le persone si aprissero agli altri.”
B) Oppure si può pensare, con Kant, che la facoltà morale sia un prodotto della ragione (Critica della ragion pratica, [1788] Laterza 2006). Se nel mondo della fisica tutto avviene per necessità, cioè per causa ed effetto (l’acqua bolle a 100 gradi; se divento rosso ci sono delle cause precise), esiste però la possibilità attraverso la ragione di non essere completamente determinati dal mondo fisico, perché la ragione, una volta che riconosce il dovere – ciò che è giusto fare - può determinare la volontà a compierlo oppure no. In questo senso, esiste per l’uomo la libertà. Secondo Kant decidere seguendo o assecondando le emozioni non permetterebbe di conseguire l’universalità o l’imparzialità. Per spiegare il carattere incondizionato del dovere morale, Kant formula questo imperativo: “agisci in modo che la massima della tua volontà possa sempre valere nello stesso tempo come principio di una legislazione universale” (Critica della ragion pratica). Dice cioè di prendere la massima che dovrebbe motivare l’azione (fai questo o fai quello), e ipotizzare che diventi una legge universale (tutti devono fare così). Attraverso questa generalizzazione, gli uomini possono comprendere se l’azione che vogliono compiere è morale oppure no. L’uomo è libero, perché - una volta riconosciuta la legge morale - può decidere se seguirla oppure no.

2. Come è possibile che persone normali si possano trasformare in perfidi aguzzini?

Dopo le efferatezze compiute nei regimi totalitari, verso la fine degli anni Sessanta vennero messe in atto delle ricerche di psicologia sociale che dimostrarono che persone normali, prive di anomalie psicologiche o idee politiche o religiose estreme, in certi contesti potevano essere indotte a compiere azioni di particolare violenza e gravità. Cito due soli esempi: quello di Stanley Milgram e quello di Philip Zimbardo.
1. Stanley Milgram organizzò nell’Università di Yale un famoso esperimento per studiare gli effetti del condizionamento e l’obbedienza all’autorità. Invitò persone normali a prendere parte ad un esperimento, che venne presentato come un esperimento sulla memoria. Le persone che si presentarono ebbero la consegna di fare una “l’insegnante” l’altra “l’allievo”. Lo scopo dichiarato consisteva nella memorizzazione di coppie di parole. Se l’associazione ripetuta era corretta, l’insegnante avrebbe dovuto dire “Bene”o “Giusto”, mentre ad ogni risposta sbagliata avrebbe dovuto somministrare delle scosse elettriche per sanzionare l’errore. Era stato costruito un generatore (finto) con 30 interruttori; partiva da 15 volt e, di 15 in 15, giungeva a 450 volt. Quando l’allievo (finto) cominciava a fare errori, “l’insegnante” premeva gli interruttori. Che cosa accadde? Ad un certo punto “l’allievo” cominciava a lamentarsi e addirittura a chiedere la sospensione dell’esperimento, mentre “l’insegnante”, consigliato da un uomo con il camice bianco, anche nei momenti di incertezza seguiva però le istruzioni dell’autorità. Nell’esperimento di Milgram il 65% dei volontari è arrivato a somministrare fino a 450 volt (anche quando non sentiva più la voce della persona nella stanza attigua).
2. Philip Zimbardo negli anni seguenti fece a Stanford un altro esperimento: cercò di reclutare degli studenti per uno studio sulla vita carceraria. Grazie ad un annuncio su un giornale riuscì a convocare molte persone. Dopo un’attenta valutazione psicologica di ogni candidato, le persone vennero divise tra carcerieri e prigionieri. Zimbardo voleva studiare che cosa significava psicologicamente essere un detenuto o una guardia carceraria. Vennero fornite delle regole con cui vivere all’interno del carcere per due settimane. Con il passare del tempo gli studiosi notarono però una progressiva perdita di umanità dei prigionieri: venivano infatti considerati privi di valore da parte delle guardie. A causa della violenza e del pervertimento dei carcerieri, l’esperimento divenne pericoloso per i prigionieri stessi e pertanto fu sospeso.
Puoi trovare questi esperimenti - e molti altri ancora - nel bel volume di Philip Zimbardo dal titolo L’effetto Lucifero [2007] (Raffaello Cortina 2008).
3. Puoi anche leggere le riflessioni dello storico Christopher Browning (1944), che ha pubblicato il libro Uomini comuni. Polizia tedesca e «soluzione finale» in Polonia, Einaudi 2004).
In tutti questi episodi viene messo in luce come contesti particolari agiscano anche profondamente sulla nostra facoltà morale. Ma questi fatti non cancellano comunque le responsabilità individuali.

3. Banalità del male e banalità del bene.

Faccio ora un rimando a due importanti pubblicazioni che hanno titoli contrapposti, ma che ovviamente si richiamano: a quella di Hannah Arendt, La banalità del male, (Feltrinelli [1963] 2006) e a quella di Enrico Deaglio, La banalità del bene, (Feltrinelli 1993). Voglio raccontarti qualche aspetto dei protagonisti dei due libri che hanno incarnato aspetti del male e del bene: Adolf Eichmann e Giorgio Perlasca.

Adolf Eichmann (1906-1962)

Faccio pertanto riferimento al processo ad Adolf Eichmann che si svolse a Gerusalemme nel 1961. La filosofa Hannah Arendt, che lo racconta, al tempo era corrispondente per il The New Yorker. Eichmann era un funzionario tedesco zelante, definito persino uno “specialista” per la sua capacità di risolvere i problemi organizzativi e pianificare le partenze dei treni per i campi di concentramento e di sterminio. Eichmann aveva inoltre partecipato alla Conferenza di Wannsee, il 20 gennaio 1942, in cui venne decisa la “soluzione finale” della questione ebraica (Endlösung der Judenfrage). Nel resoconto del processo Arendt mise però in luce la “normalità” dell’uomo, una “normalità” intesa come assenza di spietatezza e brutalità che caratterizzarono invece altri nazisti.
"Personalmente" - scrive Hannah Arendt - egli non aveva mai avuto nulla contro gli ebrei; anzi, aveva sempre avuto molte "ragioni private" per non odiarli”. Il Pubblico Ministero, i giudici e anche il suo difensore faticarono però a comprenderlo perché stentavano – scrive la filosofa - ad “ammettere che una persona comune, "normale," non svanita né indottrinata né cinica, potesse essere a tal punto incapace di distinguere il bene dal male. Da alcune occasionali menzogne preferirono concludere che egli era fondamentalmente un "bugiardo" — e cosí trascurarono il piú importante problema morale e anche giuridico di tutto il caso. Essi partivano dal presupposto che l'imputato, come tutte le persone "normali," avesse agito ben sapendo di commettere dei crimini; e in effetti Eichmann era normale nel senso che "non era una eccezione tra i tedeschi della Germania nazista," ma sotto il Terzo Reich soltanto le "eccezioni" potevano comportarsi in maniera "normale." Questa semplice verità pose i giudici di fronte a un dilemma insolubile, e a cui tuttavia non ci si poteva sottrarre”. Per il contrasto tra la sproporzione dell’accaduto e la mancanza di coscienza, per l’enormità delle conseguenze e la leggerezza con cui furono commesse, Arendt coniò una espressione che ancora oggi è famosa: “la banalità del male”. Eichmann svolgeva le mansioni affidategli e, come ebbe a dire, non secondo la propria “inclinazione”; dunque non si considerava un assassino. Dopo la conferenza di Wannsee in cui avevano parlato i personaggi più significativi del Terzo Reich, Eichmann disse al giudice: “In quel momento mi sentii una specie di Ponzio Pilato, mi sentii libero da ogni colpa.” Non era stato lui in prima persona a decidere, c’erano altri più importanti: lui eseguiva solo gli ordini e dunque si sentiva sollevato: non si sentiva in colpa.
Hannah Arendt scrive: “quando io parlo della "banalità del male," lo faccio su un piano quanto mai concreto. Eichmann non era uno Iago né un Macbeth, e nulla sarebbe stato piú lontano dalla sua mentalità che "fare il cattivo" — come Riccardo III — per fredda determinazione. Eccezion fatta per la sua eccezionale diligenza nel pensare alla propria carriera, egli non aveva motivi per essere crudele, e anche quella diligenza non era, in sé, criminosa; è certo che non avrebbe mai ucciso un suo superiore per ereditarne il posto. Per dirla in parole povere, egli non capi mai che cosa stava facendo. […] Non era uno stupido; era semplicemente senza idee (una cosa molto diversa dalla stupidità), e tale mancanza d'idee ne faceva un individuo predisposto a divenire uno dei piú grandi criminali di quel periodo. E se questo è "banale" e anche grottesco, se con tutta la nostra buona volontà non riusciamo a scoprire in lui una profondità diabolica o demoniaca, ciò non vuol dire che la sua situazione e il suo atteggiamento fossero comuni”.
Quando venne giustiziato disse: “"Tra breve, signori, ci rivedremo. Questo è il destino di tutti gli uomini. Viva la Germania, viva l'Argentina, viva l'Austria. Non le dimenticherò." Hannah Arendt conclude dicendo che: “Di fronte alla morte aveva trovato la bella frase da usare per l'orazione funebre. Sotto la forca la memoria gli giocò l'ultimo scherzo: egli si sentì "esaltato" dimenticando che quello era il suo funerale.
Era come se in quegli ultimi minuti egli ricapitolasse la lezione che quel suo lungo viaggio nella malvagità umana ci aveva insegnato — la lezione della spaventosa, indicibile e inimmaginabile banalità del male.”


Giorgio Perlasca (1910-1992)

Giorgio Perlasca, nel 1944, riuscì invece a salvare migliaia di ebrei ungheresi che erano stati destinati a deportazione nei campi di concentramento. Era un commerciante di carni che, come ricorda Enrico Deaglio, fu bloccato a Budapest dall’8 settembre. Internato con altri italiani riuscì a fuggire nel periodo finale della guerra e si rifugiò nella sede diplomatica spagnola ottenendo un falso passaporto. Quando l'ambasciatore spagnolo dovette lasciare l'Ungheria, invece di pensare solo a se stesso e a salvare la propria vita, si autonominò nuovo rappresentante della Spagna davanti al governo filonazista ungherese. Una cosa che, a pensarci, è pazzesca. E non fu solo per qualche giorno, ma durò dal 1° dicembre 1944 al 16 gennaio 1945. Come autorevole e competente ambasciatore di una nazione neutrale, riuscì a salvare più di 5000 ebrei ungheresi: li nascose in edifici posti sotto la giurisdizione spagnola, trattò con i nazisti che li volevano deportare, e li salvò dalle bande di fanatici che li volevano uccidere. Enrico Deaglio scrive: “Ma quello che fece Perlasca è unico e clamoroso. Non aveva una funzione, ma se la creò. La sua azione non si esaurì in un solo gesto, ma durò mesi e venne portata a termine con grandi doti di organizzazione che produssero risultati insperati, nelle condizioni più rischiose”.
Quello che stupisce di questa vicenda è il fatto che quando la sua famiglia si era trasferita da Como a Trieste, lui, ragazzino, aveva prima aderito al fascismo, era stato a favore dell’impresa di Fiume di D’Annunzio, era andato volontario in Abissinia, e nel 1936 era andato a combattere in Spagna come artigliere. Ma quando gli venne chiesto perché rischiò ogni giorno la vita per salvare gli ebrei, rispose: “perché non potevo sopportare la vista di persone marchiate come degli animali. Perché non potevo sopportare di veder uccidere dei bambini. Credo che sia stato questo, non credo di essere stato un eroe. Alla fine dei conti, io ho avuto un’occasione e l'ho usata”.
Mi ha sempre commosso la frase che Perlasca disse al giornalista che lo intervistava: “Lei, che cosa avrebbe fatto al mio posto?”, perché in fondo è già una risposta. Nell’apparente semplicità che sembra minimizzare il gesto, abbassarlo quasi alla normalità, rivela invece la natura morale della persona. Voglio dire che l’uomo può essere sottoposto a mille condizionamenti, e in un certo senso avere anche mille ragioni, ma poi, di fronte ad un fatto cruciale nella vita, deve decidere. Bisogna immaginarsi la scena. Quando l’ultima macchina non era più disponibile, “Jorge” Perlasca se ne andava in giro a piedi per Budapest seguito da un gendarme che reggeva la bandiera spagnola. In mezzo alla guerra. Lui dirà: “ Mi sembrava di essere un guerriero medievale… ma guardi che era utile portare la bandiera. Era molto utile”. Un uomo seguito da un altro uomo con una bandiera per le strade della città, in mezzo ai Crocefrecciati ungheresi che non avrebbero esitato un secondo ad ammazzarlo. Avrebbe potuto fuggire, o rinunciare dopo un po’, e invece niente. Rimase lì, in quel contesto pazzesco, a recitare quella parte, ogni giorno, davanti a soldati e ufficiali, procurando intanto lettere di salvacondotto per migliaia di persone. In un’occasione pericolosa che poteva essergli fatale, lui ha scelto di agire. Liberamente. E per gli altri. E allora penso che in quella domanda così semplice, ma decisiva, ci sia tutta la dignità di un uomo e la risposta che, nonostante tutti i condizionamenti, ogni uomo può decidere che cosa fare.
Un caro saluto,
alberto

1. (Su Perlasca puoi anche vedere il nuovo lavoro di Dalbert Hallenstein e Carlotta Zavattiero appena uscito dall’editore Chiarelettere, Giorgio Perlasca. Un italiano scomodo - 2010).
2. (Come potrai vedere nel libro – L’effetto Lucifero - Philip Zimbardo userà anche il concetto di “banalità dell’eroismo”).

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