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Cor-rispondenze

giovedì 11 dicembre 2008

Oscillazioni


Caro professore,

La mia vita è l’altalena più oscillante. Vivo momenti di felicità straordinaria, altissima, mi ritengo fortunata perché gli impegni da me presi sono sempre un successo: scolastico, sportivo, a livello relazionale. Motivo di questa felicità è fondamentalmente una persona: solo con lei il mio mondo si colora, si carica di un’energia potentissima che mi dà la forza di affrontare qualsiasi cosa. Per me è un sostegno e un faro nella tempesta più minacciosa che si scatena nel mio mare. È un mare molto spesso di solitudine: mi sento lontana da molte cose, che ora non mi suscitano alcuno stato d’animo, che prima credevo fossero parte del mio quotidiano. Spesso mi capita di non avere alcun pensiero, emozione, interesse: soffro per questo, ma non ho voglia di trovare una soluzione. Mi viene da piangere per le cose più banali, soffocata dallo sconforto, dalla noia, dalla consapevolezza di essere lontana da ciò che mi circonda. Come posso essere così felice ed innamorata, ma allo stesso tempo così triste e impaurita dalla solitudine?

Alessia

Hai la sensazione di essere capace e ricevi molti riconoscimenti sociali. L’amore e l’innamoramento nutrono la tua fiducia nei confronti della vita e danno senso alle tue esperienze. Le variazioni d’umore, cara Alessia, sono però proprie delle persone normali. Le oscillazioni dello stato d’animo fanno parte di quel movimento del mare interiore a cui fai riferimento, un movimento dato da un’onda che va verso il mondo e che poi si ritrae da esso, per la sua natura; un flusso e un riflusso dell’onda interiore, perché i pensieri e le emozioni sono sempre in movimento. Quindi, si può essere enormemente felici e innamorati e anche insicuri e tristi. Le preoccupazioni semmai nascono quando uno è sempre felice o euforico oppure è sempre triste e impaurito. Il problema sorge dalla cristallizzazione del movimento che consente la nostra evoluzione. La “patologia” è data dall’incapacità di creare o di accettare il movimento. Non temere la solitudine, Alessia. Pensa che Seneca aveva così fiducia nel suo amico Lucilio che gli disse: “E nota quale stima ho di te: oso affidarti a te stesso”. Lo affida a se stesso, perché sa che farà buon uso della solitudine e che, essendo un brava persona, acquisirà nuove energie e nuova forza proprio attraverso i momenti di ritiro in se stesso. Mi dici che riesci ad avere buone relazioni con le persone e che riesci ad ottenere risultati positivi nelle tue occupazioni. Quindi anche quando ti senti sola, sappi che sei in buona compagnia. Pensa che Seneca, a questo proposito, racconta un episodio divertente. Un certo Cratete, vedendo un ragazzo che andava a passeggio in un luogo appartato, gli chiese che cosa facesse lì da solo. «Parlo con me stesso», rispose. E Cratete replicò: «Mi raccomando, fa’ molta attenzione: stai parlando con un cattivo soggetto». Noi non siamo dei cattivi soggetti e non ci dobbiamo spaventare della solitudine. Seneca aveva molta fiducia nel suo amico e confidente e per questo lo raccomandava a se stesso. La tua non è una solitudine che evita le amicizie, che evita di simpatizzare con gli altri, quindi non è una solitudine negativa. Nel mare della solitudine senti l’angoscia dell’esistenza, e la difficoltà di sopravvivere da sola, perché la solitudine ci mette a contatto con la nostra vera natura: mette in discussione le sicurezze, le certezze, le abitudini. La solitudine però è un momento di passaggio, è come dici tu, un’altalena e non è il tuo destino. Nella solitudine, certamente, talvolta ci perdiamo o percepiamo le cose in modo differente. Dici che a volte nulla sembra avere valore, e che a volte non hai “voglia di trovare una soluzione”, forse perché le soluzioni a volte implicano dei cambiamenti e non sempre abbiamo voglia di cambiare. L’oscillazione è la conferma di un costante adattamento tra noi e ciò che ci accade. È come l’oscillazione del respiro, un movimento necessario per vivere. Anche Agostino racconta l’esperienza del pianto nella solitudine. Nelle “Confessioni”, scrive: “Quando da un fondo arcano la profonda meditazione ebbe scavata tutta la mia tristezza e l’ebbe accumulata sotto gli occhi del cuore, una tempesta si scatenò violenta, e greve d’un diluvio di lacrime. […] Io mi trovai non so come disteso sotto un albero di fico, e diedi libero sfogo alle lacrime, due fiumi in piena nel cavo degli occhi”. Nella solitudine – dice l’autore - abbiamo un rapporto intimo con noi stessi, la meditazione scava la tristezza, l’accumula sotto gli occhi del cuore e la consegna alle lacrime che come fiumi in piena la consegnano al mondo. La solitudine può far paura e riempirci di tristezza, ma come vedi nella solitudine scaviamo dentro di noi, ascoltiamo il riverbero profondo dei nostri sentimenti e dei nostri pensieri, riusciamo dare il giusto valore alle parole dette o ascoltate e alle attività che compiamo. In questa forma di isolamento e di provvisorio distacco dal mondo sembra che le cose non ci interessino più e non “suscitino più i nostri stati d’animo”, invece riconsideriamo le esperienze della vita: quelle che fino a poco tempo prima erano rilevanti, vengono nuovamente interrogate e valutate. A volte, proviamo sofferenza perché ci rendiamo conto di dover abbandonare alcune certezze a cui eravamo affezionati. I piccoli cambiamenti, e insieme il distacco da ciò che ci ha accompagnato nel corso del tempo, creano sempre smarrimento, paura, tristezza. Dis-orientamento. Ci sentiamo provvisoriamente dis-orientati, perché non riconosciamo più la nostra direzione. Poiché la direzione della nostra vita non è già stata decisa, è proprio grazie a queste continue valutazioni delle situazioni che noi creiamo il nostro percorso: che è fatto di piccoli o grandi distacchi, di riconsiderazioni delle nozioni che abbiamo ritenuto importanti, perché vogliamo che la nostra vita sia autentica e non si disperda nell’esteriorità o segua le idee e le valutazioni degli altri. È grazie a questi momenti che la tua vita diventa più vera. È grazie alla tua capacità di ascoltare la tua voce interiore che riuscirai a dare giusto valore a quello che senti importante, e non rimarrai delusa dalla vita. Se ti sai ascoltare nel profondo, saprai scegliere quello che vale veramente per te e ti rende felice. Gli psicologi dicono che la solitudine è una sorta di “porta stretta” di un processo che si chiama individuazione, ossia del percorso che ognuno di noi deve fare per diventare se stesso. Ci si interroga su ciò che sembrava immutabile: sulle idee e sui sentimenti che sembravano eterni, sulle amicizie, sull’appartenenza ad un gruppo, sui valori. Forse è questo il senso dell’ “altalena oscillante”, che non è altro che un costante movimento verso il mondo e verso noi stessi; nella solitudine ci poniamo domande e ascoltiamo che si riveli il senso delle nostre esperienze, ma poi ritorniamo nella relazione con gli altri e con le “cose”, e tutto acquista un colore nuovo o semplicemente diverso. Dall’esteriorità all’interiorità e viceversa, in un movimento continuo, come un costante esercizio che consente di creare rapporti autentici attraverso un instancabile apporto di alimento alle relazioni e alle idee. Nella solitudine nasce la nostra soggettività non come esclusione dal mondo, ma come presa di coscienza del mondo e consapevolezza di noi stessi. Ci vuole tempo per costruire la nostra individualità e i momenti dell’interiorità e della solitudine sono indispensabili perché ognuno coltivi la propria natura, la propria sensibilità. E la solitudine è indispensabile non solo per la maturità psicologica, ma anche per la crescita esistenziale. Martin Buber (Il principio dialogico) dice che: “la solitudine è la condizione perché l'uomo si ponga il problema dell'uomo”. È vero, la solitudine a volte ci impaurisce perché ci getta in una situazione di crisi, ma è solo grazie a questi momenti di crisi che diventiamo capaci di porci in modo autentico il problema della nostra vita. Nella solitudine diventiamo sensibili a noi stessi, agli altri e al mondo. Questa sensibilità ci fa sentire la nostra fragilità, ma questa delicatezza ci consente di sentire veramente quello che ci si muove dentro di noi e di adattarci creativamente al mondo. A volte si scatenano delle “tempeste minacciose nel nostro mare interiore”, perché noi non siamo degli oggetti. Il mare interiore non è mai fermo, è in continuo movimento, alcuni movimenti sono lenti, impercettibili, altri più impetuosi. Ma non è mai fermo. Ed è grazie a questo continuo movimento che prendiamo consapevolezza del mondo che ci ospita, dei nostri desideri autentici, e delle necessità degli altri. È grazie al movimento incessante e inesauribile di questo mare interiore che formiamo la nostra autenticità e ci possiamo prendere cura dei nostri veri bisogni e, insieme, dei bisogni degli altri.

Un caro saluto,
Alberto

Morte


Caro professore,

Che senso ha la morte? Perché dobbiamo perdere famigliari, persone che amiamo? E se tanto sappiamo che un giorno non ci saranno più, non sarebbe più giusto affezionarsi meno a loro in modo da non soffrire per tale perdita? Forse bisognerebbe vivere al meglio il tempo che abbiamo a disposizione con loro, ma è difficile se ci si ferma a pensare che più ricordi abbiamo più faranno male. Anche se il tempo guarisce tutte le ferite, credo sia quasi impossibile accettare la perdita. Perché questa è un'esperienza devastante, che indubbiamente ci cambia e cambia il tuo modo di vedere le cose, e ci vuole un lento e doloroso percorso per ritrovare la normalità.



Gli stoici invitavano a non affezionarsi troppo, perché le persone sono mortali. Epitteto consigliava di distinguere correttamente ciò che dipende da noi da ciò che non dipende da noi, in modo da padroneggiare i nostri desideri e non pretendere che le cose vadano a modo nostro. La volontà infatti dipende da noi, la morte, no. E faceva un esempio: “Se tu ami una pentola, di' a te stesso: io amo una pentola; perciocché se ella si spezzerà, tu non avrai però l'animo alterato. Se tu bacerai per avventura un tuo figliuolino o la moglie, dirai a te stesso: io bacio un mortale; acciocché morendoti quella donna o quel fanciullino, tu non abbia perciò a turbarti”.
Questa teoria è razionale, ma non convince nel profondo. Come dici tu, è “quasi impossibile accettare la perdita”. E il dolore viene di seguito o ritorna.
Il verbo ricordare, contiene la radice cor, cordis. Per gli antichi, infatti, il cuore era la sede della memoria. Ricordare significava allora re-immettere nel cuore. Ma questi ricordi fanno male, perché sono ricordi di momenti belli e di persone amate: più è intenso il rapporto, più - come dici tu - il ricordo crea dolore e ci tormenta. Più diventiamo consapevoli della necessità di quella relazione, più soffriamo. Serbare ricordo, infatti, vuol dire avere presente ciò che abbiamo amato, e l’assenza di ciò che abbiamo amato e teniamo presente ci intristisce e ci addolora. L’assenza è un peso enorme, opprimente, che ci fa male; è un silenzio che toglie il respiro, è la consapevolezza di una comunicazione impossibile o monca; un vuoto affettivo e relazionale che non si riesce a colmare.
Hai ragione a definire l’esperienza della perdita “un'esperienza devastante”; sì, perché ci ruba l’intimità, mette a soqquadro pensieri ed emozioni, guasta la fiducia verso la vita, è come uno sfregio alla nostra sensibilità, alla nostra anima. Ci fa precipitare immediatamente in un’altra condizione verso la vita, intacca così a fondo la nostra esistenza da contaminare in modo irreversibile gli a-priori della mente con cui siamo soliti interpretare il fluire della delle nostre biografie.
“Jacques Derrida, parlando dei tre choc da lui subiti nel 1990, quando apprese della scomparsa, avvenuta in rapida successione, di Althusser, Benoist e Loreau, ha osservato che ogni morte è la fine di un mondo, ogni volta unico, che non potrà mai più tornare né rinascere'. Ogni morte è la perdita di quel mondo, per sempre e irreparabilmente. La morte è, potremmo dire, il fondamento empirico ed epistemologico dell'idea di unicità”. (Paura liquida)
Per quanto il nostro tempo abbia cercato di addomesticare la morte, di sottrarre l'evento dalla tragedia, anche se la morte è stata anestetizzata, allontanata o mascherata, non siano diventati immuni dalla paura. Non riusciamo ad abituarci all'evento della morte, alla sua banalità, alla sua quotidianità. L'evento della morte evoca in noi qualcosa di irreparabile, irrimediabile e definitivo. Morire significa che da un certo momento in poi nulla più accade, niente si può percepire, vedere o pensare. Nulla potrà più provocare piacere o dolore. La morte rimane incomprensibile per chi vive, non si lascia nemmeno immaginare. Se di un evento possiamo immaginare una ripresa o una continuazione, della morte non possiamo immaginare nulla. Non potremo mai rappresentarci un mondo che non contenga più noi stessi, i nostri cari. La morte cancella tutti gli affetti e tutto ciò che abbiamo imparato.
Nonostante tutto quello che facciamo per prepararci alla morte, la morte ci troverà impreparati. È una sorta di beffa finale con cui si chiude la vita. Rappresenta la nostra impotenza, la nostra precarietà. La morte non si può sanare. Però gli uomini sanno che essa è inevitabile. Solo gli uomini sanno questo e riescono a sopravvivere con questa consapevolezza. Ma la vita diventa più difficile.
Per questo motivo non credo abbia qualche efficacia l'insegnamento degli stoici che dicono che non occorre affezionarsi troppo a se stessi, alle cose e alle persone, perché tanto la morte è inevitabile, è un elemento della vita. E non convince neppure l’altra riflessione di Epicuro, il quale dice che finché ci siamo noi non ci sarà la morte, e quando ci sarà la morte non ci saremo noi. Perché fino a quando siamo in vita, siamo accompagnati dall'idea della morte, abbiamo la consapevolezza che prima o poi la morte porrà fine alla nostra esistenza, e quest'idea non si può neutralizzare.
Nel corso della loro esistenza gli uomini hanno anche cercato di negare che la morte sia qualcosa di definitivo, di irreversibile. La religione dice infatti che la morte è un passaggio da un mondo ad un altro mondo o ad un altro stato, che è un po' come dire che qualcosa dell'uomo non si dissolve, ma permane anche oltre la morte stessa. Cambia solo la condizione della vita. Anzi, per la religione la vita stessa inizia proprio con la morte.
Però non è eludendo la paura della morte che noi diventiamo più uomini. Dobbiamo imparare a convivere con la morte, a guardarla in faccia, perché si presenta in ogni momento della nostra vita e caratterizza la nostra esistenza. Non ci possiamo disinteressare. Dobbiamo ricordarci che siamo mortali. In questo modo conferiamo degli scopi alla nostra vita che danno senso al tempo che viviamo, in ogni momento unico. È attraverso il ricordo della nostra mortalità che noi diventiamo uomini, perché non accogliamo la morte all'ultimo momento, come un momento finale, ma sappiamo che dobbiamo vivere la nostra vita terrena in modo esclusivo, prezioso. Il mondo vivrà dopo la nostra fine, sarà abitato da altre persone. Ma sarà un mondo che non potremo sperimentare. E la sofferenza, come dici tu, deriva dal fatto che proprio coloro che hanno reso possibile la nostra vita, se stanno andando; coloro che l'hanno resa unica, diversa, piena stanno scomparendo, ci stanno lasciando. Proprio coloro che hanno lasciato una traccia duratura nella nostra esistenza e ci hanno permesso di conquistare la nostra umanità; ma anche di dare forma alla nostra visione del mondo, di costruire i nostri affetti e di comprendere quanto è importante, indispensabile e vitale la relazione. I nostri cari ci hanno insegnato a custodire la relazione, a conoscere che la bellezza sta anche nella precarietà, che la relazione deve essere curata, perché possa essere autentica, vera. Sono loro che ci hanno insegnato a distinguerci dall'anonimato, a custodire i legami d'amore, ci hanno aiutato dare un volto a noi stessi, per diventare riconoscibili prima di tutto a noi stessi e poi agli altri. A non essere confusi nella massa anonima. Le relazioni con i nostri cari ci hanno consentito di essere riconoscibili. E noi sappiamo che siamo composti dai volti degli altri, dai dialoghi intessuti con gli altri, da queste presenze invisibili che anche distanza di tempo continuano a muoversi dentro di noi. Sono delle impronte importanti che hanno plasmato la nostra individualità. Sono delle relazioni gratuite che nella loro disponibilità ci hanno permesso di guardare il mondo. Ci hanno permesso di dare un'identità al nostro nome, di passare dalla forma indistinta che è data dal nostro semplice venire al mondo ad una forma distinta, individuale, unica. Allora nella morte degli altri perdiamo parte della nostra unicità, viene meno chi ha arricchito la nostra vita, chi ha lasciato delle tracce, chi l’ha resa possibile. La morte può annientarci come soggetti, perché gli innumerevoli individui che hanno dato corpo alla nostra identità escono gradualmente della nostra vita e dalle nostra relazione lasciandoci più soli. Sono coloro che hanno reso autentica nostra esistenza e ci hanno salvato dal vuoto dell'anonimato e dal vuoto delle esteriorità. Adesso dobbiamo attraversare la vita e conquistare altre relazioni, perché noi siamo vivi solo nelle relazioni. Dobbiamo imparare anche noi ad offrire la relazione e la vita agli altri, e a formare la nostra vita con le persone che ci sono ora. Dobbiamo immaginare la nostra vita con altre persone e creare nuove relazioni con loro. Se non facciamo questo, la morte degli altri conduce alla nostra stessa morte, alla paralisi degli affetti, alla paralisi del pensiero e dell'azione. Abbiamo troppa paura del vuoto che genera la morte, di questa voragine gigantesca in cui la nostra sensibilità e la nostra energia sembrano affogare. L'altro che muore ci chiede però di non rinunciare alla nostra identità, e di non guardare solo retrospettivamente, immobilizzando il passato, o mitizzandolo. La morte dell’altro ci richiama alla nostra vera condizione, ossia al fatto che siamo al mondo insieme agli altri e per gli altri, e che solo nella modalità del dono e dello scambio possiamo essere vivi. Perché l’assenza non sia “devastante” dobbiamo trasferire la relazione alle persone che ci stanno vicino, dobbiamo consentire nuovi innesti con le persone e alimentare le relazioni affinché fioriscano e nutrano. È solo nel dialogo con gli altri che manteniamo un ricordo autentico dei nostri cari e sentiamo che il nostro passato è al sicuro; perché nelle relazioni la vita che ci ha generato prosegue e nel suo procedere è al sicuro. Non è al sicuro nella mummificazione, ma è al sicuro nella corrispondenza con gli altri. Possiamo conservare la memoria dei nostri cari solo nell'attenzione che abbiamo per gli altri, solo se mettiamo in gioco la nostra esistenza con le altre persone. La consapevolezza di ciò che ha nutrito la nostra vita deve diventare disponibilità e apertura agli altri. Attraverso la relazione con gli altri sentiamo che il passato si salva dentro di noi, con noi. Non dobbiamo dunque scartare la morte dalla vita, dobbiamo accettarla e considerare che fa parte della vita stessa. Anche se la morte sottrae consistenza al nostro corpo, ci rende più fragili e insicuri, ci fa però anche sentire che ogni riparo nelle cose esteriori, mondane è inutile e fasullo. Non saremo mai del tutto protetti e sentiremo sempre la nostra precarietà, e a volte in modo molto forte. Il ricordo delle persone care è parte della nostra vita. La nostra vita funziona se è in relazione anche con queste persone, che continuano ad avere anche un'autorità su di noi: morale, di esempio, di costanza nelle difficoltà. Ricordiamo con affetto proprio quelle vite che sono state capaci di compiere delle scelte, di essere fedeli, di respingere la falsità e il compromesso. La vita di chi non c'è più è stata assorbita dalla nostra vita, nella nostra vita, è diventata parte di noi, dei nostri sguardi, della nostra valutazione del presente e delle nostre decisioni. Guardiamo a queste persone e ai loro comportamenti, alle loro battaglie e alla loro capacità di resistere nei momenti difficili. Non solo la loro morte è penetrata dentro di noi, ma anche la loro vita. È vero: ci vuole un “lento e doloroso percorso per ritrovare la normalità”; ma le persone sono vive dentro di noi, indispensabili; molto spesso sono la nostra compagnia, sono sempre in dialogo con noi, un’energia che ci spinge a generare incontri e a rendere più vere le nostre relazioni. In qualche modo, invitandoci a originare altre relazioni ci aiutano a non avere più paura della morte stessa.

Un caro saluto,
Alberto

lunedì 8 dicembre 2008

Le aspettative


Caro professore,
Mi piacerebbe sapere la sua opinione riguardo un particolare aspetto della mia vita che in questo momento suscita in me tristezza e desolazione... il mio problema, se così può essere definito, è abbastanza personale e riguarda le terribili aspettative e che incombono su di me come una affilata spada di Damocle. Soffro molto per queste aspettative che sono riversate sulla mia persona in particolare dai miei genitori, e la mia più grande paura è quella di non esserne all'altezza e di deluderli. In questo modo il reale scopo della scuola, cioè quello di apprendere, confrontarsi ed anche divertirsi passa in secondo piano e tutto si trasforma in una serrata lotta voto a voto per essere i migliori, per rendere i genitori orgogliosi dei propri figli... ma che senso ha tutto questo se alla fine non si riesce neppure a realizzare il proprio scopo? La nostra vita inizia ad essere vissuta solamente in funzione del giudizio delle altre persone e l'unica cosa che veramente ci interessa è il risultato finale. Eppure non dovrebbe essere così: bisognerebbe essere felici di poter imparare e trascorrere il tempo a scambiarsi le idee invece di tentare in ogni modo di distruggere l'opinione altrui in continui ed inutili scontri solo per apparire, risultare "i migliori "
""...
... che tristezza...
Alice



Dici bene, le aspettative degli altri pendono sopra di noi come una spada di Damocle. Essere al centro di uno splendido banchetto, ma sapere che sopra di noi vi è una spada sguainata appesa a un solo crine di cavallo tramuta la gioia in ansia, la spensieratezza in timore, il nostro agire in angoscia. Cominciano presto, le aspettative. Prima quelle dei genitori, poi quelle degli insegnanti, degli amici, dei colleghi; nella scuola, a casa, nel luogo di lavoro. Poi anche nelle attività libere, nello sport, negli hobbies. Tutti si aspettano qualcosa da noi, e noi sempre a chiederci se saremo in grado di soddisfare le aspettative degli altri. Così ci carichiamo di bisogni da soddisfare e non riusciamo più a sentire la voce interiore delle nostre necessità. Sovrapponendosi alle nostre, talvolta le attese degli altri diventano le nostre attese; i loro desideri si trasformano per noi in doveri e mete da raggiungere. Desideriamo quello che gli altri desiderano per noi, per poter essere accettati, per non deludere genitori, insegnanti e amici; e, a volte, – anche inconsapevolmente - pensiamo persino che il nostro valore dipenda dagli obiettivi che riusciamo a raggiungere nella vita. Il buon Kant nella Fondazione della metafisica dei costumi (1785) aveva proposto di seguire questa legge morale: “Agisci in modo da considerare l’umanità, sia nella tua persona sia nella persona di ogni altro sempre anche come scopo e mai come mezzo”. Considerare una persona come un fine significa considerare che ha un valore in sé e non per gli obiettivi che raggiunge. Se da una parte non dobbiamo usare gli altri come mezzi per raggiungere le nostre mete, dall’altra non dobbiamo neppure utilizzare la nostra persona solo come una macchina per conseguire degli scopi. Il valore di una persona non dipende dagli obiettivi raggiunti, è bene ricordarlo. Certo, è importante avere delle aspettative. Motivano la nostra azione in una direzione o in un’altra, ci permettono dunque di esplorare i nostri interessi e di coltivarli. Gli psichiatri dicono però che le aspettative dei genitori sono la matrice di tutte le attese senza fine in cui siamo immersi nel corso della vita. Poiché non riusciamo a sottrarci, come dici tu, possono diventare “terribili” e farci soffrire. A volte le attese sono esagerate e noi ci dobbiamo trasformare negli eroi delle fiabe e combattere con mostri e draghi per sentirci accettati, per veder brillare gli occhi dei genitori e degli insegnanti, per sentirci dire “bravo”, “brava” o “ti voglio bene”. Se le aspettative sono troppo elevate ci sentiamo inadeguati o rifiutati. Sviluppiamo un senso di inferiorità e per meritare l’approvazione dei genitori siamo disposti a sobbarcarci fatiche da Ercole, per non deluderli e per ottenere la loro approvazione. Uno psichiatra francese contemporaneo, Alain Ehrenberg, ha per questo intitolato un libro proprio: La fatica di essere se stessi [Einaudi, 1999], in cui sostiene che una volta le depressioni erano provocate da eccessivi divieti, mentre oggi queste sofferenze si manifestano come “malattie della responsabilità, in cui predomina un sentimento d'insufficienza: il depresso non si sente all'altezza, è stanco di dover diventare se stesso”. Troppo spesso ci sentiamo inadeguati, non ci sentiamo all’altezza. Ma siamo davvero stanchi di dover continuamente diventare noi stessi attraverso nuovi standard da raggiungere, nuove prove da superare. Questa continua corsa per essere accettati provoca sofferenze e sensi di colpa. Allora che cosa fare? Vale la pena di indagare che cos’è veramente un’aspettativa, poi lo potrai ricordare ai genitori e a noi insegnanti. L’aspettativa è un’attesa. Attendere significa aspettare (expectare), e aspettare è un guardare (spectare). Allora l’aspettativa è un attendere che presuppone un guardare. Chi guarda è vicino, si dice anche che una persona che ci guarda ci accompagna con lo sguardo. Ci sono dunque due bellissime componenti nell’aspettativa: l’osservazione e l’attesa. Bisogna dunque che noi educatori impariamo veramente a guardare e che impariamo maggiormente ad aspettare. Guardare da vicino e aspettare. Così si cresce e ci si sente compresi. Chi sa guardare non sovrappone la propria volontà a quella dell’altro, ma lo guarda nel suo sviluppo, lo accompagna con lo sguardo. E attende. Perché nessuno si può sostituire all’altro, anche chi ci ama profondamente non può sostituirsi a noi nelle difficoltà della vita.
Hai capito una cosa molto importante: se badiamo solo alla meta, perdiamo di vista la bellezza e il valore della quotidianità. Il grande filosofo Nietzsche ha scritto pagine molto belle sul fatto che spesso ci dimentichiamo di vivere il momento presente che è unico, per vivere come in un tempo lineare dove ogni attività in cui oggi ci impegniamo avrà un senso in futuro. Come se ciò che facciamo fosse solo in funzione di qualcos’altro. Anche tu dici: Eppure non dovrebbe essere così: bisognerebbe essere felici di poter imparare e trascorrere il tempo a scambiarsi le idee. È vero: dobbiamo infatti imparare a dare valore alle cose che facciamo nel momento in cui le facciamo. E allora anche gli adulti si devono rendere conto che senza imporre il loro ritmo al cambiamento, alla crescita degli altri, possono seguire passo passo le loro metamorfosi. Anche gli adulti devono saper aspettare, perché come dice il filosofo: “Abbiamo tutti, celati dentro di noi, giardini e piantagioni e, per usare un'altra similitudine, siamo tutti vulcani in via di sviluppo, che avranno la loro ora di eruzione: se questa sia vicina o lontana, francamente non lo sa nessuno, neppure il buon Dio”.
Un caro saluto,
Alberto

Futuro


Caro professore,

Ciò che spaventa di più, quando si è giovani, è la paura del futuro. Sicuramente perché ciò che non si conosce fa paura, insinua dei dubbi che solo col tempo troveranno risposte. “Cosa ci riserva il futuro?” Penso sia una domanda che si sono posti tutti, e che provoca in noi un senso di incertezza. Una persona quando non sa cosa le aspetta, ha paura di non essere all'altezza delle situazioni e soprattutto di deludere le persone che stanno accanto. Almeno una volta nella vita tutti hanno riflettuto sul tema del futuro, e sarebbe interessante sapere se c'è qualcuno che già tessuto la trama di cosa ti aspetta, come se il futuro fosse un vestito già pronto per te, che attende solo di essere indossato. Oppure ci può essere una teoria, per la quale siamo noi gli artefici del nostro destino. Perché chi può dire che le scelte di una persona compie siano effettuate realmente da lei, e che non ci sia qualcuno che le abbia già stabilite e prese al posto suo? Penso che nessuno potrà mai dare risposta, perché nessuno realmente sa come funziona tale " meccanismo ". Sempre appartenenti al tema del futuro, in quello più lontano, vi è la morte, altra sconosciuta, con la quale però tutti prima o poi devono fare i conti. Sull'idea del "cosa succederà dopo” invece ognuno può immaginarla diversamente, soprattutto perché ciò spesso dipende dal punto di vista di una persona, se è credente o atea. Entrambi i temi, futuro e successivamente morte, sono travolti da un alone di mistero che nessuno riuscirà a penetrare, quindi non ci resta che aspettare ed affrontarlo.
Fabiola



«La vita degli stolti è spiacevole e piena d'ansia; è tutta protesa verso il futuro», dice Seneca (Lettere a Lucilio). Siamo incerti e ansiosi nell’attesa del futuro e fatichiamo ad adattarci al presente, a differenza degli animali che, come ricorda Seneca, fuggono dai pericoli che vedono e una volta fuggiti si sentono al sicuro, noi ci tormentiamo per il futuro e per il passato. Quando andiamo indietro nel passato aumentano o si rinnovano il tormento e la paura, ma anche quando andiamo incontro al futuro ci anticipiamo delle paure. Spesso ci agitiamo solo per dei sospetti, “perché ciò che non si conosce fa paura”; non verifichiamo la fondatezza delle nostre paure e ce le portiamo dietro. Ci portiamo dietro l’angoscia. Spesso rimandiamo al futuro la cura di noi stessi, lasciamo scorrere il momento presente e pensiamo che avremo tempo di prenderci cura di noi in futuro. A volte le preoccupazioni sono eccessive, e pertanto dobbiamo imparare a valutare le paure e a comprendere che ciò che temiamo non è poi così grave. Seneca invitava Lucilio ad avere il dominio su se stesso, affinché la sua mente non fosse agitata da pensieri capricciosi; fosse ferma, salda, soddisfatta di se stessa, sapesse dunque riconoscere i veri beni che rendono autentica la vita degli uomini, senza sentire il bisogno di prolungarne eccessivamente la durata. Lo invitava a non riporre la gioia negli affanni della vita che sono causa di dolore. Se ci limitiamo a rincorrere l’esteriorità e ci affanniamo per ottenere sempre più beni materiali, ci comportiamo come un ubriaco che pagherà “la follia di un’ora con una nausea lunghissima”.
La saggezza è gioia, e il saggio è sereno perché la sua gioia nasce da dentro, dalla propria coscienza, dalla propria virtù, ossia dalla propria attività, dal fatto di essere uomo giusto, temperante. La ragione è arbitra del bene e del male; ma, occorre ricordarlo, le cose esteriori non sono né bene né male, sono accessori. Non bisogna rendersi più gravosi e opprimersi cono i lamenti e le preoccupazioni; troppo spesso è la nostra suggestione ad ingigantire le ombre.
Bisogna farsi coraggio. A volte sottovalutiamo noi stessi e siamo ingrati per i beni ricevuti proprio per questa eccessiva brama di futuro.
Allora, per non avere paura bisogna accontentarsi? No, ma dobbiamo fare attenzione a non essere, dice l’autore, come un “secchio bucato” che lascia uscire tutto ciò che riceve. (“Accontentiamoci dei beni di cui abbiamo già goduto, purché non ce ne siamo abbeverati con animo simile a un secchio bucato, che lascia uscire tutto ciò che riceve”).
Se in passato la distanza temporale che separava dal futuro sembrava facilmente percorribile, lasciava intravedere un orizzonte, il futuro oggi sembra davvero impenetrabile e inconoscibile; tentiamo vanamente e inutilmente di affannarci per immaginare la condizione di questo mondo che deve venire. Ma questo mondo è un mondo senza precedenti che non ci permette di essere immaginato. Ciò che non esiste ancora non si lascia per niente immaginare. I cambiamenti sono talmente rapidi che ogni giorno arrivano delle novità che aprono immagini diverse del futuro, ad un ritmo crescente che spesso supera l’immaginazione. Non riusciamo neppure più ad attenderci il futuro, perché non riusciamo ad immaginarlo. Una volta si attendeva il futuro, perché in qualche modo si riusciva ad immaginarsi nel futuro, oggi una modificazione nelle scoperte e nella tecnologia condiziona talmente tanto le condizioni di vita che il futuro non si lascia più immaginare e noi non sappiamo più che cosa vogliamo diventare in modo chiaro. I cambiamenti sono rapidissimi e giustamente, come dice Bauman “Ma sono l'insicurezza del presente e l'incertezza sul futuro a covare e alimentare le nostre paure più tremende e meno sopportabili. Insicurezza e incertezza nascono a loro volta da un senso di impotenza: singolarmente, a gruppi o collettivamente, sembriamo avere ormai perso il controllo delle questioni che riguardano le nostre comunità, come lo abbiamo perso delle questioni che riguardano il pianeta, e siamo sempre più consapevoli che difficilmente supereremo il primo handicap finché consentiremo al secondo di permanere” (Paura liquida). La paura nasce da un senso di impotenza, abbiamo paura di aver perso il controllo sulle questioni importanti che riguardano la vita individuale futura e anche di quella collettiva. Vi è un senso di instabilità, la difficoltà ad immaginare una vita accettabile, soddisfacente, gioiosa. L’impotenza, a volte, ci fa desiderare il futuro come “un vestito da indossare” diventa impazienza verso il futuro e paura del futuro. Eppure ognuno di noi sembra abbandonato a se stesso, sembra che cerchi delle scorciatoie per giungere rapidamente al futuro, per essere al sicuro. Sentiamo la nostra impreparazione e la nostra inadeguatezza, perché il futuro non ha più un riferimento. E allora diventiamo spesso indifferenti del presente, chiusi nelle nostre frustrazioni e nel nostro senso di impotenza. Il futuro incerto spalanca l’impotenza della nostra azione e della nostra previsione. La paura dice Bauman è il nome che diamo all’incertezza, perché sappiamo che non è in nostro potere affrontare questo futuro. Eppure la paura vi è sempre stata, se si pensa all’Europa medievale o del Cinquecento. La modernità sembrava aver fatto un passo avanti, il progresso era l’utopia per arginare la paura, ma la paura è ritornata. È pervasiva, penetra nei nostri pensieri, attraversa le nostre certezze, si incunea nei nostri progetti, li corrode. Non ci lascia sperare e ci tiene legati al presente, a consumare la vita nel presente.
Tutto è incerto, Fabiola. Nel suo linguaggio, Seneca dice di chiudere ogni giorno i conti con la vita. La brama del futuro ci logora l’animo, temiamo di “non essere all’altezza”, o di “deludere qualcuno”. Se siamo in balia del futuro il presente diventa vano, insignificante, nullo, da superare. Non consegniamo solo al futuro la rivelazione della nostra vita. Non guardiamoci nello specchio del futuro, pensando che solo il futuro rivelerà il significato dei nostri giorni, non facciamo naufragare la nostra ragione nei pensieri di un tempo lontano. Non possiamo prevedere il futuro, ma possiamo accettare che la vita si riveli attimo dopo attimo. Accettiamo dunque che una parte di nebbia avvolga il nostro futuro, guardando meglio i passi che quotidianamente compiamo. Siamo certamente gravidi di futuro, ma siamo come semi che col tempo germoglieranno. Una piantina che cresce non è bella solo quando è maestosa, ma è bella in ogni momento: quando è piantina e quando ha raggiunto un altro grado di sviluppo. Ad ogni fase è bella, e nello stesso tempo compiuta. Non consideriamo la nostra vita presente come un esilio, una lontananza dalla vita vera che avverrà in futuro, in attesa di una terra vera. Non siamo in esilio, stiamo già vivendo. Non possiamo dominare il futuro, possiamo attingere energia e gioia dalle varie sfaccettature del presente, per rendere sana la vita che si sviluppa in noi. Siamo proiettati nel futuro, ma dal futuro dobbiamo anche saperci liberare, per non diventare schiavi delle nostre immagini o delle immagini che qualcuno vuole disegnare per noi. Accogliamo la vita, giorno dopo giorno. La vita non trova compimento nel raggiungimento di una meta, non è una corsa, la vita trova il suo compimento soprattutto dallo sguardo sul paesaggio che accompagna il nostro movimento.
Un caro saluto,
Alberto