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Cor-rispondenze

lunedì 26 ottobre 2009

La vera amica


Caro professore,

Molte volte mi è capitato nella mia vita quotidiana di fermarmi un attimo e di allontanarmi dalla solita frenetica vita per il solo motivo di pensare e riflettere: già, certe volte mi passa in mente la domanda (che può anche parere stupida...): " ma esiste una vera amica, la cosiddetta best friend? ". Qualche volta ho provato a darmi una risposta, nella maggior parte di queste ho creduto che ci fosse davvero... ma poi, un po' a causa di quello che mi succede (cioè le relazioni che ho con le mie amiche) e un po' io che cambio sovente idea... non sono affatto sicura della risposta. Una persona che ti aiuti nel momento del bisogno, che non ti tradisca mai, che tiene per sé (e solo per sé) tutti i segreti che le confidi, con cui è piacevole stare insieme... come una mezza sorella... questa persona esiste davvero? Sembra più che altro un personaggio delle favole, in cui tutto è fantasia e la vita solo un “lieto fine”. Io mi definisco molto sensibile, cioè per ogni minimo disaccordo o discussione, rimango sempre molto male, non perché sono permalosa, ma perché credo di aver ferito involontariamente un'altra persona senza volerlo. Ho avuto molte carissime amiche e fino all'ultimo credevo che fossero veramente uniche e speciali, ma poi scattava sempre qualcosa che ci allontanava (ad esempio, degli atteggiamenti un po' a “tradimento”). Come si fa a riconoscere una migliore amica?

Irene


Cara Irene,

L’amicizia (philía) è una forza potente: pensa che il filosofo Empedocle di Agrigento (V sec. a.C.) eleva la philía (amicizia, amore, concordia) alla forza che unisce le cose stesse a differenza del néikos, la discordia che distrugge e separa. Una forza importante che muove anche gli elementi del cosmo stesso. Siamo partiti da lontano, dunque, ma ora ci avviciniamo alle amicizie tra gli uomini. Nella storia troviamo racconti bellissimi di grandi amicizie: Davide e Gionata, Achille e Patroclo, Oreste e Pilade, Montaigne e La Boétie e, ovviamente, moltissimi altri. Nella tragedia Oreste di Euripide (V sec. a.C.) è narrata l’amicizia tra Oreste e Pilade; ad un certo punto Pilade dice a Oreste: “Mettimi intorno il tuo braccio, appoggiati al mio fianco. Il tuo male ti ha stremato. Ti porto io attraverso la città, senza curarmi della folla. Non mi vergogno. Dove avrò da mostrarmi amico se nelle terribili prove che affronti non ti do aiuto?". E più avanti afferma addirittura che, se mai lo dovesse tradire, preferirebbe che la terra non accogliesse più il proprio sangue. A sostegno del valore dell’amicizia dirà ancora: “un uomo che fa uno con te in ogni sentimento, anche se è di fuori, è più di mille consanguinei averlo come amico”. L’amicizia supera dunque il legame della parentela stessa e, pertanto, conclude Oreste: “non c’è nulla al mondo che sia più di un amico sincero”. Ma è soprattutto Aristotele a parlare della natura dell’amicizia. In un’opera importante, la Grande etica, Aristotele dice: ”Quando noi vogliamo vedere la nostra faccia, la vediamo guardandoci nello specchio, similmente, quando vogliamo conoscere noi stessi, potremo conoscerci guardando nell’amico”. È infatti grazie all’altra persona che noi scopriamo le nostre peculiarità, i nostri bisogni e andiamo incontro al mondo. Nell’Etica nicomachea, invece, Aristotele scrive che l’amicizia è “assolutamente necessaria alla vita” e che “senza amici, nessuno sceglierebbe di vivere, anche se possedesse tutti gli altri beni”. L’amicizia è dunque una cosa necessaria e bella, perché: “due che marciano insieme…, infatti hanno una capacità maggiore di pensare e di agire”. Nell’amicizia ci si procura gioia a vicenda e si fa il bene l’uno dell’altro. Secondo Aristotele ci sono diversi tipi di amicizia, alcuni fondati sull’utile, altri sul piacere e altri sulla virtù. La forma più stabile di amicizia è però quella fondata sulla virtù. Chi è buono ama l’amico per se stesso e in modo duraturo. Si può essere amici, infatti, perché si ottiene qualche utile; o perché se ne ricava un qualche piacere; in questi casi non si amano ancora le persone in se stesse, ma per ciò che da esse si ottiene: l’utile o il piacere. Ma se uno non è più utile o non è più piacevole allora cessa il motivo dell’amicizia. Aristotele dice che l’amicizia legata all’utile è tipica soprattutto degli anziani, mentre quella legata al piacere è tipica dei giovani che perseguono soprattutto i piaceri immediati. Poiché l’utile non è costante e ciò che è piacevole può variare, allora queste amicizie possono esaurirsi facilmente. L’amicizia muta allora col mutare di ciò che attrae, affascina o diverte. Infatti col passare del tempo le cose che producono piacere sono diverse: “è per questo che i giovani - dice Aristotele - rapidamente diventano amici e rapidamente cessano di esserlo: infatti, l’amicizia muta col mutare di ciò che fa piacere, e il mutamento di un tale tipo di piacere è rapido”. L’amicizia perfetta è invece l’amicizia degli uomini buoni che sono simili per virtù. Questi infatti vogliono il bene l’uno dell’altro. La virtù è un abito, per Aristotele, non qualcosa che varia continuamente. Quindi grazie alla propria virtù, che è un certo modo di essere, le persone vogliono il bene degli altri e da questo traggono soddisfazione. L’amicizia matura non è appiattimento dell’uno sull’altro, né subordinazione. Altrimenti accade che l’amicizia venga soffocata. È giusto quello che chiedi, cara Irene: ossia è necessario che l’amica sia in grado di sentire l’urgenza che senti tu della condivisione di momenti importanti, la necessità del dialogo leale e una certa sofferenza per la tua assenza; è fondamentale che non manchi fede alla parola data e che sappia custodire le cose intime. L’amico/a condivide con noi “un’intimità allargata”; nasce, infatti, tra due persone una forma di fiducia, dove il reciproco fidarsi è un af-fidarsi dell’uno all’altro, ossia un consegnare all’altro una parte di noi, spesso la più recondita. Perché allora sentiamo ogni tanto lo scricchiolìo di certe amicizie, anche profonde e intime? Mi viene in mente un episodio curioso letto in una vignetta e riportato da Joseph Epstein in un bel libro sull’amicizia (Amicizia, Il Mulino, 2008). All’uscita dalla chiesa un uomo esclama: “Come posso amare i miei nemici, se non mi piacciono neanche i miei amici?”. Ora, fatti salvi lealtà e rispetto reciproci, forse a volte chiediamo troppo agli amici e vorremmo che non cambiassero mai. Accusiamo loro del cambiamento, ma non ci rendiamo conto del nostro. Proiettiamo sull’altra persona quello che non accettiamo di noi: ossia la continua trasformazione. Ogni persona nelle relazioni e grazie alle relazioni si trasforma. Ma anche l’altro evolve, e cambia. Stare con un amico significa stare con una persona in un reciproco adattamento creativo. Una importante pensatrice francese della prima metà del Novecento, Simone Weil, dice che nell’amicizia è importante questo rispetto per la crescita reciproca e per l’autonomia: “se da una delle due parti non v’è rispetto per l’autonomia dell’altra, questa deve troncare il legame, per rispetto verso se stessa”. L’amicizia è tale se è amicizia nella libertà, altrimenti l’amicizia stessa viene intaccata e prima o poi il rapporto si scioglie. Mentre nell’adolescenza l’amicizia è una sorta di fusione, nell’amicizia matura gli amici, dice sempre Weil: “accettano pienamente di essere due e non uno, e rispettano la reciproca distanza creata dal fatto di essere due creature distinte”. L’amicizia, dirà ancora la filosofa, è “il miracolo per il quale un uomo accetta di guardare da lontano, e senza accostarsi, un essere che gli è necessario quanto il nutrimento” (L’attesa di Dio, Adelphi, 2008 ).

Un caro saluto,

Alberto

lunedì 19 ottobre 2009

A cosa servo io?


Caro professore,
C'è stato un periodo nella mia vita in cui tutto ciò che facevo era sbagliato. Ero sempre in lite con la mia famiglia, litigate grosse e senza un motivo in particolare; con gli amici era nata una specie di indifferenza che però a me importava. Una sera, durante una delle ormai soventi litigate, mia madre, arrabbiatissima, mi ha detto: "continua a vivere nel tuo mondo, ci credo che non hai fatto nulla di male, perché non fai nulla ".È vero, a cosa servo io? Se non servo a nulla perché sono nata? Fa male sentire cose del genere dette da una persona che, sono più che sicura, mi reputa la cosa più importante che ha, ma questo l’ho capito dopo. Dopo essermi arrabbiata con me stessa ho capito che non è vero che sono inutile, o per meglio dire me l'hanno fatto capire. Secondo me, se non ci fossi la vita di tutti quelli che mi circondano non sarebbe così... Io alla fine non sono che un anello di una lunghissima catena, questa è resistente proprio perché ci sono anch'io, e non posso essere sostituita, perché qualsiasi altra persona non combacerebbe così bene come me. All'inizio mi sembrava un po' egoistico come ragionamento, ma è l'unico che è riuscito a sollevarmi un po’.

Sara

Cara Sara,
Hai ragione, la consapevolezza di “essere un anello di una lunghissima catena” non offre una grande consolazione, e non è che possa sollevare molto il morale. Già, a cosa servi? Il verbo servire richiama il concetto di utile. Ed evoca un modo di pensare tipico della nostra società tecnologica. Spostiamo il concetto di utile dalle cose alle persone senza neppure accorgercene. Il martello è utile, una persona no. Le persone non sono a nostra disposizione come delle cose. Le persone non sono utili o inutili. Sono venute al mondo proprio come siamo venuti al mondo tu ed io. Le persone sono nel mondo e nel mondo devono inventarsi il loro destino, devono decidersi tra alternative diverse e, nel decider-si, decidono di sé. Allora mi vengono in mente cinque cose. 1. La tua presenza è il senso della vita dei tuoi genitori. Il modo di stare al mondo degli uomini è quello dell’esistenza (ex-sisto, sto-fuori), ossia un modo diverso di stare al mondo rispetto a quello degli oggetti. Non siamo semplici presenze, cose tra le cose; “stiamo fuori” da questa condizione, perché grazie alla coscienza abbiamo la possibilità sia di orientarci nel mondo, ma soprattutto di dare significato a ciò che facciamo. Allora tu rappresenti innanzitutto il senso della vita dei tuoi genitori, perché prima di cominciare ad amare te hanno cominciato ad amare il pensiero di una nuova vita di cui prendersi cura. Sei stata parte dei loro segreti, dei loro progetti, di lunghissime telefonate, di chiacchierate senza fine, di notti insonni. I tuoi genitori hanno dovuto ridefinire continuamente il loro rapporto, e nel momento in cui sei venuta alla luce si sono assunti delle responsabilità non solo nei tuoi confronti, ma anche nei confronti della vita in generale. Già il pensiero della tua presenza li aveva obbligati a rispondere della loro vita e a ridefinire le loro priorità. Per dirla con un paradosso (o con un po’ di ironia): “prima che loro “servissero” te, tu sei “servita” a loro” (ma non dirglielo). Pensa: prima della nascita. Quindi fino ad ora hai già fatto moltissimo, anche se non te ne sei accorta. Non sei un anello che si aggiunge ad una catena, o un colore nuovo che si aggiunge alla tavolozza della vita, ma sei una presenza che instaura relazioni addirittura prima della nascita; 2. I tuoi genitori sono diventati tali, grazie a te. Ognuno di noi è fatto di relazioni, e diventa quello che è grazie ai legami con gli altri che, come cordoni ombelicali in partenza e in arrivo, nutrono e modificano le persone. Nessuno diventa quello che è se non si relaziona con le altre persone. Quindi: tua mamma e tuo papà sono tali non solo per il fatto procreativo, ma perché sono in continua relazione con te. È questa relazione che ha consentito (e consente) loro di “diventare” papà e mamma. Il dialogo continuo con te. In questo dialogo, che a volte è faticoso, tra identificazioni e progressivi distacchi, tu costruisci la tua identità, ma anche i tuoi genitori costruiscono la loro. 3. Anche le altre persone (amici, compagni, nonni) conquistano la loro identità grazie alle tue relazioni. La tua presenza è sempre importante, tanto importante che quando il tuo banco è vuoto si sente la tua mancanza; e più sono i giorni di assenza, più i compagni e gli insegnanti sentono la necessità del tuo ritorno.4. Fino ad ora ho utilizzato il verbo servire senza discriminare i suoi significati, ma ora credo che valga la pena ancora di indicare alcune oscillazioni. Possiamo intendere “servire” sia in modo passivo sia attivo; passivamente, può voler dire “diventare servo”, sottostare a qualcuno, subirne l’azione o il potere; ma in senso positivo, indica invece un’azione volontaria. Allora nelle decisioni della vita (che implicano sempre un decidere-di-noi) possiamo fare in modo che la nostra vita “serva”, cioè abbia valore, proprio se maturiamo la capacità di “servire”, ossia la capacità di prodigarci per qualcuno, di aiutare, di rispondere alle richieste implicite o esplicite di una o più persone. 5. ….Ah, dimenticavo. La tua vita è importante anche per i tuoi insegnanti, per Alessandra, e per me. Perché senza le tue domande e quelle dei tuoi compagni sarebbe diversa anche la mia vita; ad es., potrei viverla in modo più superficiale, mentre i quesiti mi fanno sentire più responsabile, e mi ricordano che il mio compito non è solo quello di trasmettere delle informazioni, ma è quello di crescere insieme a voi.


Un caro saluto,

Alberto

lunedì 12 ottobre 2009

Perdere peso


Caro professore,

Le scrivo per avere delle risposte riguardo a un argomento per me molto importante. Due settimane fa sono venuta a sapere che una mia amica di infanzia è stata ricoverata in ospedale d'urgenza a causa di una "malattia": L’ANORESSIA.
Io non potevo credere che lei, proprio quella bambina che giocava con me e che non si faceva nessun problema ad essere un po' più "cicciottella" delle altre, sarebbe diventata una ragazza anoressica. Se avessi saputo che sarebbe andata così forse avrei fatto qualcosa di utile, qualcosa per aiutarla... ma non so se sarebbe servito.
Ora tutte le sere mi domando: "Perché proprio lei? Perché è successo?". Non riesco proprio a rispondermi. Tutte le ragazze della mia età, compresa me, pensano e si sentono "grasse". Tutte si fanno, anzi ci facciamo, dei problemi sul peso e forse ci vediamo diverse da quelle che siamo ma la realtà è che al giorno d'oggi la nostra società si basa sull'apparire. C'è gente che dice che queste persone che soffrono di anoressia non sono realmente malate ma sono solo alla ricerca di più attenzioni. Io leggo molto le riviste per ragazze, e continuamente vedo articoli come: "perdere peso in una settimana". Io credo che ognuno di noi ha un fisico diverso e quindi ha anche bisogno di mangiare di più o di meno in base alla sua costituzione. Ma alla fine l'anoressia è una malattia a livello "mentale" o è una fissazione nel non mangiare? E nell'adolescenza è normale che si facciano "paranoie" sul proprio fisico? Io non critico le ragazze che si fanno dei problemi sul proprio corpo, anche perché sinceramente chi è che non si fa problemi sul suo corpo? Certo da qui a diventare anoressica ne passa....Io questa ragazza non la sento più da anni ma vorrei andarla a trovare e fare qualcosa per lei. Ma come faccio? Cosa le dovrei dire? Cosa dovrei fare?
Non ho il coraggio di vederla, già a pensarla mi vengono i brividi... forse perché tutto questo poteva succedere a me? Ora magari, al posto di essere davanti ad un computer a scrivere al mio professore, sarei a lottare per la mia vita (perché lei ogni giorno lo fa!!).
Il cibo la sta "perseguitando" e pian piano uccidendo.... il cibo è amato da tutti (chi è che non ama il gusto della cioccolata o quello di un bel piatto di pasta al sugo!!) ma... mi sembra impossibile che per alcuni possa essere odiato a tal punto da non riuscire nemmeno a sentirne l'odore.
Come è possibile questo??
Sarebbe bello riuscire a tornare indietro nel tempo e sistemare le cose, io l'avrei aiutata, non so come... avrei fatto qualcosa per non farla soffrire come in questo momento.
Da lei, professore, vorrei solo un consiglio, un aiuto... una spiegazione. Grazie per l'ascolto.

Federica

Cara Federica,
hai deciso di scrivere in stampatello maiuscolo una sola parola: “anoressia”; e hai fatto bene, perché il maiuscolo si usa per evidenziare una differenza significativa, ma anche per segnalare una mostruosità, un pericolo, qualcosa di inverosimile. Il maiuscolo comunica la difficoltà di contenere gli scenari che la potenza della parola evoca, che in questo caso sono il male, la sofferenza, la morte. È molto doloroso scoprire l’infelice trasformazione di una cara amica d’infanzia, un tempo magari anche un po’ “cicciottella”, e ora invece alle prese con la lotta per la vita. Lo psichiatra Eugenio Borgna descrive l’esperienza anoressica come una “implacabile discesa […] verso la diafana trasparenza del corpo e verso la morte possibile(Come uno specchio oscuramente, Feltrinelli 2007). Che cosa accade alle persone che impone loro di sterzare improvvisamente il timone della vita, prescrive di rinunciare al cibo, fa credere che la vita consista nel sacrificio estremo che conduce alla perdita di sé?
Allora bisogna fare riferimento, dicono filosofi e psichiatri, alla nostra esistenza, all’esistenza dell’uomo, che non è semplice sopravvivenza. Eugenio Borgna, percorrendo un sentiero tracciato dagli esistenzialisti, ricorda che ogni esperienza umana è accompagnata da una “esperienza del tempo”, ossia da un rapporto che ognuno di noi instaura con il tempo. Di solito noi viviamo il presente, di tanto in tanto ci affacciamo al passato, ma siamo anche protesi pieni di speranze verso il futuro. Nel caso dell’anoressia sembra che il tempo delle esperienze della persona sia trattenuto dal passato, o che sprofondi quasi completamente in esso. Borgna scrive: “Il desiderio di ancorarsi alle incorporee figure della infanzia condiziona l'esperienza di vita anoressica femminile: trascinandola al rifiuto del presente, all'inaridirsi in un passato pietrificato, e alla frammentazione, che può giungere alla dissolvenza, di ogni progettazione nel futuro. Questo avviene, certo, in stretta correlazione con quelle che sono le modificazioni profonde del corpo femminile nel passaggio dall'infanzia alla adolescenza”. Per l’anoressica il tempo si è fermato: ancorato all’infanzia impedisce la crescita, blocca l’evoluzione verso il proprio compimento; spegnendo l’immagine di scenari futuri, spegne la fiducia necessaria per la realizzazione di sé. Perché talvolta le “modificazioni profonde del corpo femminile nel passaggio dall'infanzia alla adolescenza” possono generare disagio, insicurezza, paura eccessivi. Si teme la trasformazione radicale del proprio corpo, e la si vorrebbe arrestare per non perdere il mondo delle sicurezze dell’infanzia. Ma il tempo, perso nel passato, trascina con sé il corpo in questa involuzione. Trovo molto belle le parole di Borgna: “Non c'è più un corpo che parla, un corpo vivente, ma c'è un corpo che tende a trasformarsi in un guscio vuoto nel quale non si abbia più trascendenza. Il corpo tace, non ha più gesti nell'esprimere la sua sofferenza, e così naufraga nel silenzio che è il silenzio della morte e della morte volontaria. Sia nell'esistenza anoressica femminile sia in quella maschile si è allora divorati da una comune metamorfosi del corpo e da una comune perdita della dimensione del futuro che si esprime nel non-potere-divenire-adulti e nel non-volere-divenire-adulti”. (Qui “trascendenza” significa la nostra capacità di andare verso gli altri e di stabilire relazioni, che non è solo prerogativa di una persona sana, ma condizione di vita autentica).
L’infanzia allora rappresenta quel passato positivo in cui una persona vuole sprofondare o non si sente di abbandonare, mentre il futuro genera angoscia per l’estrema trasformazione del corpo (non-potere-volere-divenire-adulti). Per questo nascono delle difficoltà. Umberto Galimberti descrive molto bene questa situazione: “le anoressiche che riescono a trasformare un pezzo di pane in un dannoso concentrato di zuccheri e una goccia d'olio in un irrecuperabile accumulo di grassi. Come scrive Alessandra Arachi i trenta chili sono il loro sogno, il "no, grazie" a ogni offerta di cibo il loro vanto, a ciò aggiungono quattro ore di corsa per perdere chili e una decina di tazzine di caffè per sostenersi almeno a livello di nervi. Le loro labbra non si aprono più né per una forchettata di verdura, né per una parola di spiegazione" (Umberto Galimberti, I vizi capitali e i nuovi vizi, Feltrinelli 2003). Purtroppo la nostra società che premia e ostenta certi modelli di bellezza non aiuta a superare quelle crisi che avvengono nell’adolescenza. La continua presenza di figure talmente magre da sembrare asessuate può imporsi negativamente nelle mente delle ragazze che vivono il passaggio dall’infanzia all’adolescenza, e amplificare certi disagi, facendole sentire inadeguate e non conformi ai canoni che una società mostrando continuamente impone per essere accettati.
Sei una ragazza molto sensibile e generosa: sei in grado di immedesimarti in quella profonda sofferenza e vorresti portare il tuo aiuto anche ad una persona che non vedi da anni, perché per te è ancora importante e l’amicizia non conosce tempo. Però anche tu devi fare i conti con questa (anche se momentanea) trasformazione, che non è un semplice ritocco o un impercettibile cambiamento, ma è una modificazione che ha cambiato in modo marcato la percezione che la tua amica aveva di sé. Non devi sentirti a disagio, è normale che la possibile vista ti sconvolga (non ho il coraggio di vederla), e i pensieri si arrestino di fronte all’abisso del dolore (già a pensarla mi vengono i brividi). È assolutamente normale. Quando vediamo la sofferenza tendiamo ad immedesimarci e ad assumerla su di noi, e tu hai sviluppato l’empatia necessaria per sentire la sofferenza degli altri. Ma quando è troppa non possiamo assumerla tutta su di noi, anche noi ci dobbiamo difendere. Proprio per questo, credo che in questo momento la tua amica abbia bisogno di persone che conoscono l’evoluzione di questo singolare percorso, persone competenti (medici e psicoterapeuti) in grado di reggere le sue angosce, e incanalare l’inquietudine in percorsi affettivi e razionali; in un secondo tempo, potrai chiedere consiglio ai suoi genitori che ti faranno sapere come e quando incontrarla. Ma anche qui ci sono dei tempi: prima quello di alcune persone in grado di accogliere le sue paure, di ricevere quell’abisso da cui si genera il tormento senza assumerlo su di sé, senza diventare “spugne” intrise di dolore; poi ci sarà il tempo degli amici: il tempo della tua amicizia e del tuo affetto. Siamo tutti costituiti dalle relazioni con gli altri, puntellati dalle loro presenze, e anche la tua amica avrà bisogno di nuove relazioni: relazioni normali, sane. E anche di sentire nuovamente la tua presenza positiva e affettuosa.


Un caro saluto,
Alberto

lunedì 5 ottobre 2009

Il senso della vita


Caro professore,

Uomini che hanno compiuto gesta incredibili, uomini che hanno passato la vita a lottare per il raggiungimento di... soldi, vittorie, felicità, sapere. A che scopo? Dove sono ora? Non ci sono... non esistono, non più. Tutti i loro sforzi sono stati cancellati dalla loro morte. Probabilmente hanno lasciato un qualcosa per il futuro, ma per un futuro che comunque è destinato scomparire. Passiamo la vita cercando la felicità, immagazzinando ricordi, esperienze, che tanto saranno cancellati. E allora, che senso ha? La nostra vita ha un senso? Siamo semplici "animali più evoluti" o ci è riservato davvero qualche cosa di più? La scienza associa a ogni nostro sentimento una reazione chimica, ma è tutto così determinato? Noi dove siamo allora? Se tutto ciò che facciamo, che siamo... è il risultato di atomi, e basta... allora la nostra anima dov’è?
Serena



Cara Serena,
Superstite dei campi di sterminio, lo psichiatra viennese Victor Frankl pubblicò nel 1946 un libro molto importante, "Uno psicologo nei lager ", uno studio dedicato alle sofferenze quotidiane che i prigionieri patirono nei campi di concentramento. Nella prefazione al libro, lo psicologo Gordon W. Allport, commentando la profonda e drammatica esperienza vissuta dall’autore, riassume la tematica dell’opera con questa espressione: “Se la vita è sofferenza, sopravvivere è trovare il senso di questa sofferenza”. Il tema del senso della sofferenza e, più in generale, del senso della vita è infatti il filo conduttore di tutto il libro. Victor Frankl è convinto che per vivere e per sopravvivere sia necessario dare un senso alla vita. Non solo. Ritiene inoltre che il senso che ogni uomo attribuisce alla propria esistenza concreta sia la forza che gli permette di resistere anche quando è costretto a vivere vicende assurde e paralizzanti. "La vita – dice infatti Victor Frankl- conserva il suo senso anche quando si svolge in un campo di concentramento, quando non offre quasi più nessuna prospettiva di realizzare dei valori, creandoli o godendoli, ma lascia solamente un'ultima possibilità di comportamento moralmente valido, proprio nel modo in cui l'uomo si atteggia di fronte alla limitazione del suo essere, imposta con violenza dall'esterno ". Rievocando la celebre frase di Nietzsche “chi ha un perché per vivere, può sopportare quasi ogni come”, egli afferma che "L'uomo può essere nel suo intimo più forte del destino che gli viene imposto dall'esterno ". E’ una frase che può sembrare paradossale, soprattutto nell’esperienza di estrema privazione di un lager. Può essere più forte, perché anche nel momento della massima miseria l’uomo possiede ancora la libertà interiore. L’esplorazione psicologica condotta su di sé e sui compagni internati gli ha rivelato che diventavano schiavi della violenza del mondo del lager coloro che si erano già abbandonati prima spiritualmente e umanamente, e coloro che non avevano più “un sostegno interiore". Come dire che coloro che non hanno più un fine attendono avviliti la fine. " Com'è noto, la parola latina finis – scrive Frankl - ha due significati: fine e scopo. Quando l'uomo non è in grado di prevedere la fine di un'esistenza (provvisoria), non può neppure vivere per uno scopo. Non può neppure, come l'uomo nella vita normale, esistere guardando al futuro. Di conseguenza cambia anche tutta la struttura della sua vita interiore. Si arriva a fenomeni di decadimento interiore, sul genere di quelli già noti in altri settori della vita ". Fenomeni di disfacimento interiore che si constatano anche in coloro che non hanno vissuto l’esperienza rovinosa dei lager, ad esempio nei disoccupati. Poiché la loro esistenza è diventata instabile, essi faticano a vivere volgendo lo sguardo al futuro, verso uno scopo futuro. L'esperienza del lager cancellava il futuro nella mente degli uomini: Frankl ricorda che i suoi compagni erano soliti dire che il giorno - a causa delle violenze sofferte a tutte le ore - durava più di una settimana. Nei campi di concentramento gli uomini cessavano di esistere umanamente, poiché avevano "perso il sostegno di uno scopo futuro". I pensieri e la vita interiore si concentravano sul passato e la riflessione diventava pertanto "retrospettiva". Il tentativo di valorizzare un lontano passato di felicità e di soddisfazione a causa del contrasto con il vissuto induceva i prigionieri "a lasciarsi andare, a lasciarsi cadere - poiché comunque " tutto [era] inutile". Così le vite naufragavano a causa delle atrocità della prigionia. Il tentativo di reagire interiormente o di opporsi ai fenomeni psicopatologici indotti dall'internamento poteva istintivamente agevolare in qualcuno pensieri rivolti a scopi futuri. Qualche internato cercava di mettere in atto queste iniziative. Dice l'autore: "quasi tutti avevano qualcosa che li sorreggeva: un pezzo di futuro. L'uomo ha invero un carattere peculiare: può esistere solo nella visuale del futuro ". Così nei momenti più difficili dell'esistenza l’immagine del futuro in qualche caso riusciva a sorreggere la vita sfilacciata delle persone. Quanto racconta di sé narra che, quasi piangendo per i dolori ai piedi feriti dentro scarpe fasciate, a causa del gelo e del vento dopo chilometri di marcia per andare al posto di lavoro, il suo spirito rifletteva sui mille piccoli problemi della misera vita del prigioniero: " che ci sarà da mangiare stasera? Non è meglio cambiare la fetta di salame, che forse ci daranno come quota supplementare, con un pezzo di pane? Devo cercare di vendere l'ultima sigaretta rimasta del " premio " di quattordici giorni fa, per una scodella di minestra? Dove trovo un pezzo di filo di ferro per sostituire quello che mi serve da stringa per le scarpe che si è rotto?” Perché tutti i pensieri erano sempre concentrati su piccole miserie delle violenze subite, l'autore racconta un trucco personale per superare l’ossessione: si immaginava in una sala per conferenze, illuminata, calda e bella, e davanti a sé un pubblico interessato seduto su comode poltrone. A tenere una conferenza sulla psicologia del campo di concentramento. In questo modo riusciva in qualche maniera a sollevarsi dalla situazione presente e dal dolore e a guardare il dolore stesso come se fosse passato. Egli sapeva bene che chi non crede più nel futuro, nel suo futuro in un campo di concentramento è completamente perduto. Il crollo fisico e spirituale infatti avveniva in modo piuttosto rapido attraverso una specie di crisi. D'altra parte l'internato aveva davanti a sé esempi continui a cui accadevano questi episodi. Molti internati sopravvissuti raccontano dei momenti in cui alcuni di loro si sono lasciati andare, e di quanto era difficile convincerli a vestirsi per presentarsi nella piazza per l'appello. " Quando si arriva a questo punto, scrive Frankl, nulla ha più effetto, nulla può spaventare - né preghiere, né minacce, né botte - tutto è inutile. Quell'uomo resta semplicemente sdraiato, quasi non si muove e quando la crisi è conseguenza di una malattia, rifiuta di lasciarsi portare all'ambulatorio o di intraprendere qualsiasi altra cosa per sé. Si arrende! Resta sdraiato persino nella sua urina e nelle sue feci; non si preoccupa più di nulla ". Frankl racconta un sogno: un uomo aveva sognato come una profezia il giorno 30 marzo del 1945 come il giorno della liberazione. E aveva creduto in quel sogno. Quando la data della profezia si stava avvicinando, ma non sembrava vicina la deliberazione, accade qualche cosa di nuovo. Questo uomo ebbe una febbre altissima e il 30 marzo prese a delirare e infine perse conoscenza. Il giorno dopo morì. Frankl mette in relazione lo stato d'animo di un uomo, l'intima redazione tra la fiducia, il coraggio, la speranza e le difese immunitarie dell'organismo. Fino a considerare che la causa ultima della morte fosse riconducibile alla grave delusione. Era stata paralizzata " la sua fede nel futuro e della sua volontà di futuro ". …" Guai a chi non trovava più uno scopo di vita, non aveva un contenuto di vita, non scorgeva nessuno scopo nella sua esistenza; svaniva il significato del suo essere, perdeva ogni senso anche la resistenza ". … L'autore propone allora un rovesciamento di tutta la problematica del senso ultimo della vita: non importa che cosa possiamo attenderci noi dalla vita, ma importa sapere cosa la vita attende "da noi". "Non chiediamo infatti più il senso della vita, dice Frankl, ma sentiamo di essere sempre interrogati, come gente a cui la vita pone in continuazione delle domande, ogni giorno e ogni ora, domande a cui ci invita a rispondere, dando una risposta esatta, non solo meditazione oppure a parole, ma con un'azione, un comportamento corretto. Vivere, in ultima analisi, non significa altro che avere la responsabilità di rispondere esattamente ai problemi vitali, di adempiere i compiti che la vita pone a ogni singolo, di far fronte all’esigenza di quell'ora. Quest'esigenza, e con essa il significato della vita, munita da uomo a uomo, di attimo in attimo. " Qui non si parla più del senso della vita in generale. In ogni momento l'uomo infatti plasma il suo destino, a volte sopportando l'occasione a volte sperimentando un'altra possibilità. Persino nel dolore l'uomo ha la possibilità di essere messo di fronte ad un momento unico. Nietzsche diceva che occorre vivere fino in fondo anche il dolore. Anche nel dolore l'uomo si rende conto di essere unico e originale, nel dolore che gli riserva il suo destino. Ognuno deve assumere su di sé la sua sofferenza. Nei lager i pensieri aiutavano a superare la disperazione quando non c'era altra soluzione e non s'intravedeva via di salvezza o di fuga. E allora diventa bellissima la frase dell'autore: " a noi premeva di ricercare senso dell'esistenza come un tutto che comprende anche la morte e non garantisce solo senso della " vita ", ma anche senso della sofferenza della morte: per questo senso abbiamo lottato! ". Alcuni riuscirono a sopravvivere pensando che la vita attendeva qualcosa da loro, che qualcosa si aspettava nel futuro: uno era atteso dal padre, un altro che non aveva più nessuno sapeva che era la sua opera ad attendere il compimento, e dunque egli era indispensabile per quel lavoro e nessuno avrebbe potuto sostituirlo. Proprio l'essere indispensabile e insostituibile di un individuo responsabilizzava le persone e le esortava a continuare a vivere. Nessuno vuole soffrire o morire senza senso. Per questo quando ci appropriamo della nostra vita nella sua varietà, nelle gioie e nelle sofferenze, abbiamo dato senso non ad un mondo ideale, ma alla nostra vita reale concreta. Abbiamo dato significato alla vita. E riusciamo a sopportare le miserie che incontriamo nel nostro percorso più o meno lungo.



Un caro saluto,
Alberto