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Cor-rispondenze

lunedì 24 novembre 2014

Il pregiudizio

Ragazzo in carrozzina studia al tavolo di una biblioteca


Caro Alberto,
io non ti conosco e tu non mi conosci, ma se mi vedi per strada con mio fratello sono certo che ti vengono in mente parole e pensieri che ci riguardano, senza conoscere la nostra storia. Io ho un fratello disabile, io lo vedo ogni giorno, ha ventitré anni, lo saluto, non risponde, non so se ha capito o meno. Non so che emozioni prova: NESSUNO lo sa. Di conseguenza, se io che sono una persona vedo mio fratello che sì, va bene, è diverso, ma è pur sempre umano, ha due occhi, un naso e una bocca, perché devo prenderlo in giro? Perché devo guardarlo male se non so cosa prova? Per esempio, un giorno abbiamo guardato il «Re leone», ha pianto, ma non so se era commosso o se voleva smettere... Perché la gente “pregiudica” un altro senza sapere cosa prova? (In generale, non solo nel caso di mio fratello). Grazie.
Andrea, II B

Caro Andrea,
Il pregiudizio «pregiudica», ossia nuoce, perché colpisce con viltà e lede la dignità di una persona. La scelta del verbo “pregiudica” ricorda quei bellissimi lapsus di cui parla Freud nella “Psicopatologia della vita quotidiana”. Il padre della psicoanalisi afferma che dietro ad un lapsus c’è sempre un fondo di verità: la bambina a cui venne chiesto se preferiva la cioccolata o i giocattoli rispose che voleva i "cioccolattoli". La verità del suo desiderio esprimeva non un’alternativa, ma la volontà di possederli entrambi. Così mi pare che anche tu, “inconsciamente”, abbia rivelato una profonda realtà. Nella tua meravigliosa e commovente testimonianza hai infatti unificato “preconcetto” e “giudizio svalutativo” nel verbo “pregiudica” che sintetizza come convinzioni erronee e verdetti negativi arrechino danni immensi e sofferenze gratuite in chi li subisce. I preconcetti pregiudicano, perché compromettono sul nascere la relazione e chi offende non si rende conto del dolore che causa alla persona che si sente sminuita, offesa ed esclusa. Quando affermi che “non sappiamo cosa provano” gli altri, affermi una profonda verità, ma per scoprirlo non abbiamo solo bisogno delle parole, ma della capacità di sentire. Un tempo questa capacità si chiamava “simpatia” e Adam Smith (Teoria dei sentimenti morali, 1749) diceva che tutti gli uomini la possiedono, perché è un sentimento che permette loro di sintonizzarsi con il prossimo Siamo capaci di piangere persino per la rappresentazione simulata di una tragedia»), mentre il filosofo scozzese David Hume, nel secondo libro del “Trattato sulla natura umana”, (1739-40) dedicato alle passioni, sottolineava come questa inclinazione maturasse nelle relazioni interpersonali («alla simpatia son necessarie delle relazioni» [...] e «diminuisce quando rescindiamo le relazioni»). Dalla simpatia oggi si è passati all’empatia. Si tende infatti sempre più a giudicare la maturità di un persona non tanto in base ad un’intelligenza astratta o alla capacità di risolvere un problema, ma in base al sentimento di empatia che prova nei confronti dei suoi simili. Nell’educazione si parla di “relazione di cura”, nella psicologia di “intelligenza emotiva”, nella giustizia si sottolinea l“immedesimazione”. Persino l’economista statunitense Jeremy Rifkin ne “La civiltà dell’empatia” (2009) ritiene che il tratto peculiare della nostra civiltà dovrà essere caratterizzato da tale competenza. Scrive l’autore: «Se nel mondo agricolo la coscienza era governata dalla fede e in quel­lo industriale dalla ragione, con la globalizza­zione e la transizione all'era dell'informazione, si fonderà sull'empatia, ovvero sulla capacità di immedesimarsi nello stato d'animo o nella situazione di un’altra persona». Sappiamo che l’empatia si sviluppa nell’infanzia e si corrobora nell’adolescenza e nell’età adulta. Dipende inizialmente dalla genetica: con la scoperta dei neuroni specchio”, i “neuroni dell’empatia”, i biologi hanno evidenziato la predisposizione genetica alla relazione empatica, ma poi sono fondamentali le relazioni che i genitori sanno instaurare con i bambini nei primi mesi di vita, un processo che John Bowlby ha definito efficacemente come “attaccamento”. L’evoluzione empatica si alimenta anche dei valori che una famiglia condivide, della sua visione del mondo, della cultura a cui si abbevera. Se Rifkin ritiene che «ci stiamo rapidamente evolvendo verso l'Homo em­paticus», sappiamo quanto sia doloroso, soprattutto per un ragazzo, essere oggetto di pregiudizi negativi e proviamo sempre più fastidio per coloro che non sanno mettersi nei panni degli altri. Il romanticismo tedesco utilizzava la parola Einfühlung, “immedesimazione”, per segnalare la capacità di afferrare il significato autentico di un’opera d’arte. Se tale immedesimazione è necessaria, allora il limite alla comprensione dell’altro non è solo un limite cognitivo, ma è un limite del sentire, dell’intelligenza emotiva”. Chi non ha maturato questo costituente non sa riconoscere l’altro, lo spoglia dell’umanità, lo considera oggetto e non soggetto. La relazione con tuo fratello ha forgiato in te una finezza nell’avvertire le sfumature del dolore che molti uomini non conoscono. Questa finezza ti permette di captare cosa sente l’altro, e questo è il livello più alto dell’essere uomo. Ho pensato a ciò che può aver avvertito tuo fratello guardando il “Re leone” e ho trovato nel libro di Jeremy Rifkin una citazione di Carl Rogers efficace: “Quando una persona capisce di essere sentita profondamente, i suoi occhi si riempiono di lacrime. Io credo che, in un senso molto reale, pianga di gioia. È come se stesse dicendo: «Grazie a Dio, qualcuno mi ascolta. Qualcuno sa cosa vuol dire essere me»”.
Un caro saluto,
Alberto
oggetto

lunedì 17 novembre 2014

Collezioniamo momenti



Caro professore,
Sentiamo sempre più spesso ormai il bisogno di fotografare cosa ci sta attorno. Persone, oggetti, messaggi. Vedo tutte queste persone con queste macchine fotografiche enormi e supertecnologiche o con i telefoni in mano pronti a scattare, ed è strano. È strano perché io mi chiedo perché lo stiano facendo, perché sia così necessario catturare un preciso istante della nostra vita. Perché? Ho paura che sia per non dimenticare, ma dimenticare cosa? Collezioniamo momenti, ma io non ne capisco il motivo.
Sara, III D

Cara Sara,
L’espressione «collezioniamo momenti» è bella ed efficace: esprime un bisogno profondo e mette in evidenza anche alcune fragilità dell’uomo che non si accontenta di vivere, ma vuole perpetuare la vita e moltiplicare gli istanti di felicità, per goderli anche quando non è soddisfatto del proprio vissuto. Un po’ come fanno le formiche prima dell’inverno, quando raccolgono le briciole per sfamarsi nei periodi di magra, così gli uomini catturano istanti per prolungare la rifrazione di un attimo felice. In fondo, il mondo non fa altro che meravigliarci e le fotografie ci restituiscono la sua complessità: se il tempo cancella rapidamente la vita, l’uomo desidera contro il tempo riaffermarla, sottrarla al dissolvimento, per proiettare nel futuro qualche pulsazione luminosa, per riacciuffare la propria vita in un fotogramma e fondersi nuovamente in essa. Il tempo del mondo è vertiginoso e contratto, quello della vita è lento e disteso. Allora a volte le fotografie sono un modo per dilatarlo, consentono all’uomo di isolare particolari, soffermarsi su dettagli o suggeriscono nuovi pensieri. Credo che siano come parole o elementi della sintassi della propria storia personale. Parole, perché scatti ravvicinati esprimono ciò che il nostro analfabetismo linguistico non riesce a descrivere né quello emotivo a evocare senza figure di supporto. Ma sono anche lo sfondo da cui si originano nuovi discorsi che vogliamo sentire appropriati e che senza l’ausilio di ciò che si è ancorato sulla carta o nei file non siamo più in grado di pronunciare. La fotografia, che letteralmente è “scrittura con la luce”, oggi serve per far “venire alla luce” il mondo, in quanto permette la scoperta di particolari della natura e della vita. La ripresa differita di tali frammenti fa sì che la felicità si re-innesti nella memoria e attraversi il cuore. Per questo per gli antichi “ricordare” era un “re-cordare”, reimmettere nel (cor) cuore. È, in fondo, la nostra piccola ricerca del tempo perduto. L’errore è che spesso crediamo che per acciuffare la vita se ne debba riprodurre il più possibile. E passiamo dalla selezione alla collezione. La selezione implica una scelta, la collezione è incapacità di scegliere. La scelta è regolata da un senso, la collezione da assenza di visione. Gli scatti che anche tu senti così compulsivi suscitano attenzione, perché segnalano una caratteristica della nostra epoca: invece di scendere in profondità rimaniamo in superficie accumulando. L’accumulazione di istanti è il nuovo modo di stare al mondo: consente di creare la propria identità e di certificare la propria storia. Così la paura di perdere il momento che si sta vivendo o di non viverlo a sufficienza porta ad uno sdoppiamento dello sguardo: si vive il presente con l’occhio (fotografico) che mira più alla registrazione e alla posticipazione del vissuto che all’identificazione completa con la vita che scorre. Abbiamo bisogno di un’eco successiva per considerare un episodio finito. L’evento non si compie nel momento in cui lo si vive, la sua conclusione è sempre posticipata come se esso acquistasse un “valore aggiunto” in base alle persone che lo vedranno e lo commenteranno. Ma il collezionismo implica la “lacuna” in una serie: di quante fotografie abbiamo bisogno per certificare il nostro vissuto? Dieci, cento o mille? Tendiamo a riempire i vuoti tra un fotogramma e l’altro, per impossessarci della vita, per riprodurla integralmente. Abbiamo paura di perdere la realtà e pensiamo affannosamente di possederla replicando le immagini di essa. Ma la vita non è la collezione di tutti i momenti (non avremo mai il tempo di contemplarli integralmente). Penso che un rimedio a questa corsa forsennata dietro la duplicazione di ogni istante consista nell'adottare uno sguardo che sappia scrutare la realtà in lontananza. Lo scrittore Claudio Magris in “Danubio” ci aiuta a considerare non solo la dimensione orizzontale della vita, ma la sua stratificazione grazie alla letteratura. Scrive l’autore: «Non so se qualche scrittore di fantascienza abbia inventa­to una macchina fotografica spazio-temporale capace di riprodurre, magari in ingrandimenti successivi, tutto ciò che nei secoli e nei millenni è esistito in quella porzione di spa­zio inquadrata nell'obiettivo. Come le rovine di Troia con gli strati delle nove città o una formazione calcarea, ogni pezzo di realtà esige l'archeologo o il geologo che la decifri e forse la letteratura non è altro che quest’archeologia della vi­ta». La letteratura è pertanto una fotografia di profondità che, mettendo in luce l’archeologia della vita, consente di rallentare il tempo, di viverlo meglio e di comprenderlo: è una fotografia che seleziona e non accumula. Per questo ci consente di sfuggire alla tirannia dell’istante.
Un caro saluto,
Alberto