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Cor-rispondenze

domenica 31 maggio 2009

L'angoscia della scelta


Caro professore,


Kierkegaard parla della sensazione paralizzante delle possibilità umane... tutto è determinato dalle nostre scelte, e proprio ora ci ritroviamo davanti alla più paralizzante di tutte le decisioni: che fare della nostra vita? Qual è la scelta giusta? Fare l'università che davvero mi interessa correndo il rischio di non trovare lavoro o scegliere il nostro futuro in vista dei posti lavorativi disponibili?
Vale a dire, una scelta basata sulla passione o sulla sicurezza?
Tenendo conto che spesso ci si ritiene senza interessi, non si riesce a capire cosa davvero ci appassioni, cosa potrebbe appassionarci per tutta la vita. Inoltre Nietzsche ci sprona a fare della nostra vita ciò che realmente vogliamo, ma io trovo troppo difficile deludere le aspettative che la famiglia e la società hanno su di noi, e sicuramente questa scelta richiede smisurato coraggio. Una persona nasce, va all'asilo, alle elementari, alle medie, alle superiori, all'università, trova lavoro, mette su famiglia, e muore. E’ paralizzante pensare di poter uscire dei binari, dove si può trovare la forza? Lo so, sono tante domande, ma può rispondere a quella che più le interessa.

Francesca



Kierkegaard quando descrive la vita non descrive un’esistenza astratta, ma descrive le difficoltà e le perplessità ricorrenti della propria: “Io mi trovo qui esitante come Ercole; non si tratta di un semplice bivio, ma di un incrocio di vie che s'irradiano in tutti i sensi. Ecco perché è tanto difficile imbroccare la giusta. E’, forse appunto la disgrazia della mia esistenza, l'interessarmi a troppe cose, senza arrivare mai a nessuna decisione: nessuno dei miei interessi [spirituali], nessuno è subordinato all'altro, ma tutti si tengono per mano” [Diario].
Capita così anche a noi: teniamo “per mano” tanti interessi, perché non sappiamo esattamente – come tu affermi - “cosa potrebbe appassionarci per tutta la vita”.
Ognuno ha le proprie ragioni: la famiglia le sue preoccupazioni e noi le nostre aspirazioni. In qualche modo tutti abbiamo ragione. Però le nostre opinioni fanno riferimento al nostro modo di sentire. A un certo punto il conflitto della scelta che prima era vissuto solo interiormente, come indecisione tra ciò che ci piaceva e ciò che ci piaceva di più, adesso allarga i propri contorni. I nostri interessi non coincidono sempre con quelli dei genitori. Il punto di vista è diverso. Ci sono buone ragioni da ogni parte, ma le ragioni non si equivalgono; e si aprono allora nuovi spazi per la riflessione: il conflitto da intrapsichico diventa interpersonale. Attraverso una contrapposizione reale (spesso conflittuale) e argomentata delle nostre motivazioni però impariamo ad esplicitare i vantaggi e gli svantaggi delle diverse prospettive e, grazie a questo chiarimento, potremo fare delle scelte consone ai nostri bisogni. Qual è la posta in gioco? La nostra vita futura. Allora dobbiamo ascoltare prudentemente le ragioni dei genitori, perché ci presentano soluzioni che, a volte, o per impulsività o per mancanza di conoscenza non avevamo considerato. Dopo aver pensato molto, però, dobbiamo abbandonare le giustificazioni degli altri e valutare quelle che realmente ci appartengono: dobbiamo discernere attentamente tra ciò che è semplice curiosità momentanea e i nostri interessi autentici. Dopo aver ascoltato varie opinioni dobbiamo canalizzare le nostre energie per collocarci nella dimensione della realizzazione della nostra vita, seguendo il nostro demone: abbiamo il compito di garantire a noi stessi l'onestà verso ciò che ci appassiona. Non dobbiamo soffocare le nostre passioni, altrimenti devitalizziamo la nostra vita. Rimuovere aspirazioni e bisogni produce frustrazione. Non esistono decisioni giuste o puramente razionali. Dobbiamo tenere conto della nostra natura che ovviamente è complessa e spesso ci presenta tendenze ambivalenti. Lo psicanalista statunitense James Hilmann scrive che: “Il carattere è caratteri; la nostra natura è una complessità pluralistica, una trama multifasica e polisemica, un fascio, un groviglio, una cartelletta piena di fogli. […]. Mi piace immaginare la nostra psiche come una pensione piena di ospiti. Ci sono quelli che si presentano puntuali e seguono le regole della casa, e altri, anch'essi ospiti fissi, che se ne stanno chiusi in camera o si fanno vedere solo di notte; e può darsi che questi e quelli non si siano mai incrociati” [La forza del carattere, 2001]. Dobbiamo saper ascoltare tutti gli ospiti che abitano la pensione della nostra mente, prima di decidere.
L’esistenza è costituita dalla dimensione del progetto per il nostro avvenire. Quando le alternative sono molteplici sentiamo la difficoltà di incanalare la nostra vita. In questo periodo senti maggiormente la responsabilità della scelta, ma come hai detto tu, citando il filosofo danese, la scelta non è un evento raro nella vita. È invece la dimensione costitutiva del soggetto umano; ogni scelta separa, esclude, prospetta alternative e apre nuovi scenari.
Vorrei dirti che prima di decidere è importante decifrare.
Decifrare i propri bisogni, che cosa dà serenità e senso alla vita. È importante comprendere i processi dinamici che si muovono dentro la psiche e che attivano la motivazione. Dobbiamo liberarci dall’idea che dal conflitto occorra affrancarsi rapidamente. Se, come dici tu, la vita è una continua scelta, il conflitto è permanente e saremo chiamati comunque a decidere continuamente. È vero che la scelta della scuola sembra condizionare maggiormente la nostra vita, perché esclude molte possibilità che non potremo più realizzare, ma credo che tale scelta debba andare nella direzione della responsabilità. Siamo noi responsabili del nostro futuro e saremo noi a rispondere delle nostre scelte. Non dobbiamo consegnare la nostra vita ad una valutazione esterna, a significati estranei alla nostra natura. Potremmo dire - con un paradosso - che ciò che ci porta a decidere è qualcosa di decisivo, che prima o poi emergerà nella nostra mente; e che ogni scelta decisiva deve avvenire dopo una lunga fase di decifrazione.
Dobbiamo lasciare un maggiore spazio alla nostra voce interiore, lasciare che tutte le parole che abbiamo ascoltato, dopo aver risuonato a lungo dentro di noi, gradualmente, scompaiano per consentirci di avere la giusta visione della nostra natura. Non siamo nel mondo solo per raggiungere obiettivi, ma per vivere una vita buona, perché – come dicono gli antichi – da una vita buona discende una vita felice. Il futuro porta in sé l'imprevisto e quindi ogni decisione che riguarda il futuro ha la forma della scommessa, forse dell'azzardo. Prendendo una decisione diamo una regola al nostro percorso, diamo una forma alla nostra vita. Chi sarà responsabile dei nostri fallimenti o dei nostri successi? Non possiamo poi attribuire agli altri l'esito del fallimento o dell’infelicità. Viviamo in questo conflitto profondo che non riusciamo ad eliminare: sentiamo contemporaneamente la nostra fragilità e la nostra debolezza. A volte non siamo così sicuri che le nostre convinzioni possano condurci alla felicità. Non dobbiamo dare una risposta agli altri, dobbiamo lavorare per comprendere qual è la nostra strada, qual è l'ampiezza delle possibilità che scaturiranno dalla nostra scelta e quali prospettive verranno aperte. Seneca scriveva che “Tra le cause dei nostri mali c'è il fatto che viviamo imitando gli altri e non ci regoliamo secondo la ragione, ma ci lasciamo trascinar via dalla consuetudine. Quello che non vorremmo fare se lo facessero in pochi, quando molti hanno iniziato a farlo, lo approviamo, come se una cosa diventasse migliore perché viene fatta più spesso; e l'errore, quando è diventato generale, occupa per noi il posto del vero” [Lettere a Lucilio].
Il lavoro non è che una parte della vita, però è una parte importante. Sarebbe bello essere soddisfatti della propria scelta, perché passiamo molte ore al lavoro. Tu dici che occorre decidere tra conformismo e passione; ma tutto questo è anche il risultato di un processo iniziato tanto tempo fa e che si è articolato, in parte, anche nella scuola, e ha lasciato in te una traccia, un gusto, un'idea da seguire. Il tuo demone – direbbe Socrate - non ti inganna. Le cose che ti fanno stare bene a livello fisico e psichico devono essere ricercate, ripetute. Dobbiamo immaginare la nostra vita a distanza di tempo, nel lavoro, nell'amore, in una nuova famiglia, con dei bambini, perché pensare al modello di vita che desideriamo, è un modo per chiarire che cosa vogliamo da noi. Poiché il futuro esercita una grande forza su di noi, come una potente calamita ci attrae e ci spinge in avanti, allora ascoltiamo pure tutti i suggerimenti, ma lottiamo per abitare il futuro che abbiamo immaginato.
Dopo aver osservato bene le caratteristiche della nostra vita dobbiamo decidere dell’importanza che essa deve avere nell’insieme; per fortuna “l’essere costretti – diceva Kierkegaard - “è l’unico aiuto della finitezza”. Il nostro animo che ha sete di infinito se non fosse costretto sarebbe sempre perso da qualche parte e incerto su tutto. Dobbiamo pensare se un certo tipo di studio o di lavoro contribuisce a realizzare meglio la nostra vita. I filosofi esistenzialisti ci ricordano che decidere è un decider-si, un determinare ciò che diventeremo nel tempo. Allora dobbiamo prenderci cura di noi stessi nell’orizzonte di ciò che per noi ha più valore e rende la vita degna di essere vissuta.


Un caro saluto,

Aberto

lunedì 25 maggio 2009

Amore e odio

Caro professore,

Come mai l'amore e l'odio sono due sentimenti opposti, ma allo stesso tempo così vicini? Per esempio un ragazzo si innamora e si fidanza con una bellissima ragazza. Dopo sei mesi lei lo tradisce, e il ragazzo si trova in un momento in cui, amore odio viaggiano insieme; perché? Il ragazzo, ancora innamorato di lei, allo stesso tempo la odia per il suo mancato amore. Dunque mi chiedo, come fanno due sentimenti così opposti a vivere in alcuni momenti insieme?
Stefano


Caro Stefano,
Nel libro “Anatomia della distruttività umana”[1973] 1975, il grande psicanalista e sociologo tedesco Erich Fromm (1900-1980) diceva che è un “luogo comune” che l’amore si possa trasformare in odio. Sarebbe più esatto dire - secondo Fromm - che “non è l'amore a subire questa trasformazione, ma il narcisismo ferito della persona che ama, e cioè che è il non-amore a causare l'odio”.
Però è vero, a volte, è difficile ammettere che amiamo e, sotto certi aspetti, odiamo una persona; la amiamo, perché più in generale vorremmo unirci a lei, e nello stesso tempo detestiamo alcuni suoi aspetti o biasimiamo il fatto che si distacchi da noi e sia insensibile nei nostri confronti.
Difficilmente si odia qualcosa per cui non si prova un particolare sentimento. Se si guarda da lontano è difficile odiare: quindi odiamo perché siamo affascinati e sedotti dall’altra persona e la nostra interiorità è fortemente attivata e coinvolta; ma odiamo perché è stata tradita la nostra fiducia e perché intuiamo che i suoi sentimenti non sono analoghi ai nostri. Prendere coscienza della differenza e del distacco genera sofferenza e scatena in noi una sorta di rabbia, mentre in fondo in fondo non si è ancora spento il desiderio dell’altra persona e siamo certi che la amiamo ancora.
Questo complesso meccanismo di amore-odio evidenzia il momento in cui fatichiamo a giungere alla comprensione di ciò che sta accadendo dentro di noi e alla valutazione di ciò che accade nella realtà. Siamo consapevoli che l’altro si è allontanato, ma la nostra insicurezza e il nostro amor proprio vorrebbero che fosse ancora accanto a noi. Fino a quando non abbiamo razionalizzato tutto quanto, non riusciamo a superare questa situazione.
Non odiamo tanto la persona per l'atto compiuto, ma detestiamo il fatto che si sia allontanata da noi, che provi gioia ed entusiasmo indipendentemente da noi. Poiché vorremmo ancora condividere con lei interessi, tempo e passioni soffriamo e ci esauriamo nel tentativo di comprendere quanto è accaduto.
L’ambivalenza amore-odio rivela aspetti inconsci della mente umana: odiamo per il tradimento, ma nello stesso tempo, in qualche modo, cerchiamo di reprimere la consapevolezza del tradimento. Sentiamo la contraddizione, ma non siamo consapevoli dei processi inconsci che si muovono dentro di noi, a nostra insaputa. Ogni tanto affiorano alcuni sentimenti, ogni tanto affiorano i sentimenti di segno opposto. A volte, come dici tu, ci inquieta scoprire che siamo in grado di amare e di odiare più o meno nello stesso tempo. Vorremmo nascondere l'odio sotto l'amore, ma a volte l'odio emerge nei confronti di chi ci ha tradito, mentre altre volte riaffiora l'amore. Spesso non riusciamo neanche ad accettare di poter odiare una persona che abbiamo amato, e quindi i sentimenti inaccettabili vengono subito cancellati, cacciati nell'inconscio per lasciar spazio all'amore. Un po' perché speriamo narcisisticamente che la persona possa recedere dalle sue decisioni, e scoprire in noi dei tratti piacevoli; ci attendiamo che si ricreda delle proprie scelte e che ritorni verso di noi. A volte è una speranza legittima, a volte è un gioco illusorio. Quando siamo attraversati dai pensieri che le cose potrebbero essere diverse siamo nuovamente colti da questa illusione e scopriamo di essere ancora ben disposti verso l'altro, in grado di perdonare pur di ottenere amore.
Amore e odio rappresentano anche la modalità con cui diventiamo consapevoli di noi stessi: dentro di noi nasce una sorta di conflitto esistenziale che ci chiede di prendere atto della nostra incapacità o della nostra impotenza nei confronti della realtà esterna, dei desideri e degli obiettivi indipendenti dell'altra persona.
Ci rendiamo anche conto che l'odio, che poteva anche avere ragione di essere, nel momento in cui s'impadronisce di noi, si dilata in cerchi concentrici e deforma l'immagine che avevamo della persona. Spesso la deformazione messa in atto ci spaventa. Avevamo un'immagine estremamente positiva e idealizzata della persona amata e ora la nostra valutazione è cambiata, si è spalancata una nuova strada verso criteri di giudizio diversi.
Siamo lenti ad odiare perché facciamo fatica a distruggere l'immagine che avevamo creato, e che nel passato aveva avuto delle conferme; per questo talvolta dubitiamo della legittimità di odiare.
Nella vita impariamo a conoscere le nostre passioni, ma amore e odio non sono due oggetti fisici da descrivere, ma sono due modalità di rapportarsi al mondo e con le quali ci formiamo un'idea del mondo. L’odio è una condizione che ci permette di prendere congedo gradualmente da eccessive identificazioni con l'altra persona e da una eccessiva idealizzazione. Ci ricorda il fallimento della nostra relazione, mentre l'amore lascia filtrare la speranza di poter nuovamente conquistare la persona amata. L'amore ci ricorda la dolcezza che provavamo in compagnia di quella persona, l’odio ci ammonisce che è intollerabile sopportare il tradimento. La distruzione del rapporto di coppia fa nascere l'odio, la speranza del cambiamento richiama di nuovo l'amore; l'amarezza del tradimento richiama l'odio, la speranza di una felicità rinnovata rievoca l'amore. Il tradimento ha generato umiliazione, ha ferito la nostra fiducia, ma anche il nostro narcisismo; e quando prevalgono certi pensieri si rinnova l'odio per le parole e per i gesti che ci hanno fatto soffrire.
Secondo gli Stoici antichi sono i pensieri e generare le emozioni; se i nostri pensieri si concentrano su certi aspetti fanno vibrare le corde dalle quali scaturiscono i colori delle emozioni positive, se fanno vibrare altre corde, nascono sentimenti opposti. Non sappiamo a quali di questi sentimenti dobbiamo obbedire. Gradualmente, sarà il prevalere di uno o dell'altro a farci capire che possiamo perdonare e continuare ad amare anche chi si è allontanato da noi. E attraverso questa consapevolezza riusciamo a prendere distacco anche da quelle emozioni più forti che ci sembravano pesantissime da sopportare. Insomma, i pensieri fanno da detonatore per le emozioni; e, viceversa, le emozioni di rabbia fanno detonare pensieri di odio, mentre quelle positive suscitano fiducia nei confronti del mondo.
L’ambivalenza dei sentimenti di cui parli non indebolisce solo la fiducia verso gli altri, ma abbatte anche la fiducia che nutriamo verso noi stessi e può generare anche rifiuto di sé. Per sviluppare l’amore verso noi stessi abbiamo bisogno di sentirci riconosciuti dagli altri e di sapere che siamo degni di essere amati. Trovo molto belle le parole di Zygmunt Bauman, un grande sociologo contemporaneo: “ciò che amiamo nel nostro amore di sé è un proprio io degno di essere amato. Ciò che amiamo è lo stato, o la speranza, di essere amati. Di essere oggetti degni di essere amati, di essere riconosciuti come tali, e di ricevere adeguata prova di tale riconoscimento. In breve: per essere dotati di amore di sé, ci occorre essere amati. Il rifiuto dell'amore – il diniego dello status di oggetto degno di essere amato – genera odio di sé. L'amore di sé si costruisce con i mattoni dell'amore offertoci da altri” [Amore liquido, 2004]. L’amore degli altri ci rassicura sul fatto che siamo degni di essere amati, che siamo meritevoli di amore. Questa consapevolezza ci conforta nelle relazioni, ci incoraggia ad andare verso nuove relazioni, acquieta la nostra paura di essere rifiutati o non sufficientemente adatti per meritare l’amore degli altri.
Nell’ambivalenza di amore e odio sentiamo che è stata messa in discussione la nostra dignità e, dice Bauman: “Il valore primo, il più prezioso dei valori umani, la conditio sine qua non dell'umanità, è una vita fatta di dignità, non la sopravvivenza a tutti i costi".


Un caro saluto,

Alberto

sabato 23 maggio 2009

L'amore è cambiato?


Caro professore,

L'amore, che è il sentimento che pare abbia caratterizzato tutta l'esistenza dell'uomo, è cambiato e muta durante i secoli? Penso ai miei nonni, che ora si prendono cura uno dell'altro con devozione; ma mio nonno afferma di aver sposato sua moglie perché ormai doveva sposarsi e lei era in età da marito. Quando per molti secoli regnava l'assoluto maschilismo certamente anche l'amore era diverso. Altro importante caso sono i matrimoni combinati. Possiamo dire che l'amore sia cambiato e che oggi amiamo con più sincerità? Conoscendo anche meglio l'altra metà della mela?
Francesca


Cara Francesca,
Chissà se l'amore è cambiato durante i secoli? Le forme d'amore sono talmente varie che è difficile dire. Uno studioso della vita di coppia riferisce che in passato due persone si separavano perché si detestavano, mentre oggi è molto probabile che si separino perché non si amano abbastanza. Certo, è vero, molte volte uomini e donne sono stati insieme per esigenze economiche, per bisogno di protezione o di sicurezza, per motivi sociali legati al ceto di appartenenza o per altri motivi. Oggi, forse, le persone sono meno disposte ad accettare giustificazioni all'unione che non siano il motivo stesso dell’amore. Si sta insieme per amore e l'amore rimane il momento più alto della felicità. Il filosofo Umberto Galimberti scrive a questo proposito: “Oggi l'unione di due persone non è più condizionata dalla lotta quotidiana per la sopravvivenza, o dal mantenimento e dall'ampliamento della propria condizione di privilegio sociale e di prestigio, ma è il frutto di una scelta individuale che avviene in nome dell'amore, sulla quale le condizioni economiche, le condizioni di classe o di ceto, la famiglia, lo Stato, il diritto, la Chiesa non hanno più influenza e non esercitano più alcun potere, sia in ordine al matrimonio dove due persone in completa autonomia si scelgono, sia in ordine alla separazione e al divorzio dove, in altrettanta autonomia, i due si congedano” [Le cose dell’amore].
Come dici tu in passato esistevano anche i matrimoni combinati, e questo fatto suscita oggi tristezza o pensieri di compassione. Possiamo anche accettare di fare un lavoro non eccessivamente stimolante, ma non siamo disposti a rinunciare alla magia dell'innamoramento e dell'amore. Non sempre i lavori gratificano, ma almeno nell'intimo vogliamo che il nostro cuore acceleri i suoi battiti, vogliamo avere la sensazione di sentirci unici e di provare un sentimento speciale per una persona e di essere ricambiati. Parliamo sempre dell'amore; buona parte dei romanzi e dei film parla d'amore. Tutte le canzoni parlano d'amore. Ci appassioniamo alle storie d'amore sui giornali, guardando la televisione, a scuola (anche sul giornalino scolastico c'è una pagina dedicata agli amori che sbocciano tra gli studenti, agli innamoramenti venuti alla luce e alle storie di qualche mese o di circa un anno che vengono definite “storie consolidate”). Fatichiamo però a trovare una definizione univoca di amore. Ci sono tante forme di amore: amore romantico, passionale, impegnato, poetico, malinconico, sentimentale…, ma tutti gli aggettivi sembrano complicare e non semplificare la questione per giungere ad una maggiore comprensione. Però l’amore non nasce sempre secondo le modalità in cui immaginiamo debba nascere. Oggi, ad esempio, sappiamo che il matrimonio è il consolidamento di un percorso d’amore già avviato, ma dobbiamo constatare che in passato, quando erano scarsi il tempo e le occasioni per conoscere persone nuove, caratteri diversi, modalità relazionali inattese ed emozionanti, non c’era talvolta la possibilità di avere un tempo lungo per l’innamoramento. Ciò non toglie che molte coppie, nate nelle forme più variegate, abbiano cominciato ad amarsi e ad innamorarsi stando insieme nel matrimonio. Può sembrare curioso, ma è perché non hanno avuto un tempo prima. Oggi abbiamo molto tempo libero; molti amori nascono a scuola, nel gruppo di amici, proprio perché le persone hanno tempo per le relazioni, per conoscersi e per stare insieme. Un tempo, quando le relazioni erano più difficili e si creavano meno situazioni per stare insieme, molte avventure d’amore sono cominciate proprio a partire dal matrimonio. Molte coppie hanno faticato, certamente; ma sono nati anche dei grandi amori. Le persone hanno imparato a conoscersi (anche a sopportarsi), ma soprattutto, giorno dopo giorno, hanno imparato ad amarsi proprio a partire dalla condivisione dei vari momenti della vita. (Mi vengono in mente alcune storie che Nuto Revelli ha raccontato nel libro L’anello forte). Queste persone si sono sacrificate l’una per l’altra: avevano poche risorse a disposizione e le hanno condivise; nelle difficoltà hanno sperimentato sia l’amore sia la felicità.

Ma, ora, voglio dirti quattro cose:
1. Dici che tuo nonno “afferma di aver sposato sua moglie perché ormai doveva sposarsi e lei era in età da marito”. Questo fatto sembra richiamare un elemento di calcolo o di freddezza nella poesia dell’amore; diventa difficile da accettare, perché spesso riteniamo che il progetto sia un elemento estraneo che rompe l’incanto dell’innamoramento. Vogliamo che non si introducano elementi di interesse in ciò che, se non accade spontaneamente, sembra essere snaturato. Per la cultura greca, però, nessun progetto umano riesce ad infrangere la dura necessità della natura e il suo ciclo inesorabile. Ma nel tempo ciclico dato dalle leggi immutabili della natura si inserisce il tempo progettuale dell’uomo. Se le leggi della natura e l’ordine del mondo non possono essere infranti dall’uomo, l’uomo può realizzare la sua vita nel tempo che gli è concesso. Ma il progetto non è un sogno o un semplice desiderio, e si può realizzare quando si presentano concretamente le occasioni. Come per fare qualcosa occorrono gli strumenti e non solo il desiderio (o la fantasia). E per strumenti, in questo caso, intendo anche i tempi giusti per disegnare un destino comune. Senza concretezza non c’è nessun progetto; e la consapevolezza del limite temporale della vita aumenta il valore che si dà al tempo per poter realizzare percorsi di vita insieme.

Hai scelto una bella espressione per indicare l’amore dei tuoi nonni: “si prendono cura uno dell’altro”; e una bella parola per connotare il modo in cui si prendono cura: “con devozione”.
2. Prendersi cura dell'altro credo sia la qualità essenziale dell'amore. Nel prenderci cura dell'altro mostriamo impegno nei suoi confronti, interesse rinnovato, premura verso i suoi bisogni e dedizione verso la sua vita che lentamente si trasforma. Lo diciamo anche in certe espressioni: una persona tras-curata, infatti, è abbandonata a sé, è ignorata; e se uno è abbandonato presto si tras-cura, ossia si disinteressa a sé, si lascia andare, diventa debole e cede al peso degli anni e della vita. Cura è una parola che richiama anche la terapia, ossia quella modalità di intervento che permette di ristabilire la salute di una persona. Sì, perché l'interesse verso la persona è terapeutico, le permette di sentirsi viva e di sentirsi amata. E chi sa di essere amato è più forte, più resistente, perché l’attenzione è un potente medicamento dell’anima.
3. E’ significativa anche la modalità con cui indichi la loro relazione: con dedizione. La parola dedizione sta a metà strada tra il rispetto e il culto. La dedizione è fatta di rispetto (respicere), ossia della capacità di saper guardare l’altro per quello che è e per la dignità umana che è in lui; perché ognuno dei due è l’unico che conosce le esperienze dell’altro, il suo vissuto, la sua storia. Solo tuo nonno, oggi, porta dentro di sé la storia della nonna e i suoi vissuti. I tuoi genitori sono venuti dopo, e tu dopo ancora. Lui vede nella nonna quello che altri non vedono più, il tempo della sua giovinezza e tanti altri tempi vissuti insieme, le sue fantasie, i suoi sogni e il suo passato. E nella dedizione c’è anche un richiamo al sacro, che ci ricorda il legame con il divino. Nell’amore, infatti, sperimentiamo la forma più importante del legame tra le persone, ed essendo la forma più alta del legame umano è bello dire che è un legame divino. Il devoto infatti ritorna con i propri pensieri a ciò che ama; anche fisicamente vuole stare vicino a ciò che ama. C’è una forma di obbedienza nell’amore: le persone obbediscono alle richieste esplicite e a quelle implicite o silenziose dell’altro perché lo conoscono e lo amano.
4. “Amiamo con più sincerità perché conosciamo meglio l’altra metà della mela?” La conoscenza della persona può aumentare l’amore, ma non basta. Quando si ama qualcuno lo si comprende meglio: a due innamorati basta uno sguardo per capire se c’è qualcosa che non va. È a partire dall’amore, dunque, che aumenta la conoscenza. Il filosofo Umberto Galimberti, nell’ultimo libro L’ospite inquietante, cita una frase di Paolo di Tarso: "Non si entra nella verità senza l'amore (Non intratur in veritate nisi per charitatem)". La comprensione, come vedi, passa attraverso l’amore. Infatti, è proprio grazie all’amore che anche tu riesci a afferrare le sfumature dell’affetto dei tuoi nonni.
Siccome gli adolescenti sono molto svegli e sanno distinguere nelle relazioni ciò che è autentico da ciò che è artefatto, credo che i tuoi nonni siano fortunati perché hanno una nipote molto attenta che sa leggere le tonalità delle emozioni; ma penso che anche tu sia fortunata, perché hai fatto esperienza dell'amore nella forma più alta, che è quella della testimonianza e non della chiacchiera: la testimonianza di una vita vissuta con l’energia dell’amore che contagia e si irradia alle persone intorno.



Un caro saluto,
Alberto

mercoledì 6 maggio 2009

La felicità

Caro professore,

Il nostro passaggio sulla terra è fugace e veloce proprio come un battito di ciglia sul nostro volto, e quando ce ne andiamo, non solo non faremo più ritorno, ma di quello che siamo stati il mondo avrà più alcuna traccia. A cosa serve dunque la nostra fulminea e insignificante apparizione sulla terra, se inoltre vi aggiungiamo il fatto che gli attimi di felicità saranno sfuggenti e brevi, e con un numero di cui potremo con facilità tener conto sulle dita, mentre in tutti gli altri istanti sospireremo tesi per ciò che non abbiamo, che desideriamo... che molto probabilmente non avremo mai?
Francesca

Cara Fancesca,
Fazi editore ha appena tradotto un libro del filosofo tedesco Wilhelm Schmid (1953) dal titolo Felicità [Glück]. Wilhelm Schmid insegna filosofia all’Università di Erfurt in Germania ed è uno studioso piuttosto famoso oltre che per le sue pubblicazioni anche per la sua attività di conferenziere e di “consulente filosofico”. Il libretto è agile (68 pp.) e ricco di riflessioni importanti: può essere uno stimolo per una meditazione oppure una semplice introduzione alla questione della felicità.
Abbiamo bisogno di felicità, cerchiamo la felicità, talvolta siamo ossessionati dalla felicità; temiamo di non essere abbastanza felici e, spesso, temiamo che gli altri siano più felici di noi. Tutti vogliamo essere felici in questo mondo, ma non tutti intendiamo la felicità allo stesso modo. Schmid distingue tre modalità di concepire la felicità: come fortuna, come benessere e come completezza.
1. Felicità come fortuna.
È la felicità che ci arriva per caso, quando qualcosa di inaspettato produce una piacevole sorpresa. Qui la parola tedesca felicità – Glück – è intesa in senso letterale (Glück, infatti significa sia felicità sia fortuna). Si dice “ho avuto fortuna” quando qualcosa è andato bene, e si dice: “ho avuto fortuna” anche quando, in circostanze negative, le cose sarebbero potute andare peggio. In tutti questi casi la fortuna arriva dall'esterno (per caso), e dipende solo in minima parte da noi. Siamo usciti di casa e abbiamo avuto “fortuna” ad incontrare un nostro vecchio amico. Siamo dunque felici. Abbiamo partecipato ad un concorso e abbiamo avuto fortuna “ad essere stati scelti”; e anche questo ci colma di felicità. Abbiamo compilato con alcuni amici una schedina e “per fortuna” abbiamo realizzato una vincita. Siamo felici. (Il professore “per fortuna” oggi non ha interrogato di filosofia: siamo molto felici). Insomma, tutto ciò che è insperato e ci sorprende piacevolmente genera in noi felicità. In questi casi, tuttavia, non abbiamo dovuto fare un grosso sforzo per essere felici, se non quello di rimanere aperti alle possibilità della vita (Uscire di casa, iscriverci al concorso, comprare la schedina, aspettare).
2. Felicità come benessere
Di solito riteniamo anche che essere felici significhi stare bene, essere in buona salute, fare delle esperienze, delle conoscenze e avere successo. Oggi pensiamo che una vita felice consista nel vivere molte esperienze, fare viaggi, essere liberi da troppi condizionamenti e dal dolore. Se il primo tipo di felicità scaturiva dalla sorpresa e non richiedeva il nostro intervento, per ottenere il nostro benessere, invece, possiamo fare molto. Possiamo scoprire nei vari contesti di studio o di lavoro quali sono i momenti che ci fanno star bene e cercare di riprodurli. (Uno studente in questi giorni mi ha detto che è felice quando vede entrare una sua compagna di classe). Incontrare gli amici, trascorrere una serata in pizzeria, fare una chiacchierata, giocare una partita di pallavolo o semplicemente prendere un caffè sono tutti comportamenti che generano felicità. Quindi possiamo conoscere quali momenti della giornata possono provocare il nostro benessere e ripeterli. In questo senso possiamo diventare competenti in materia di felicità, ossia possiamo diventare abili a scoprire come raggiungere la felicità e come procurarci delle soddisfazioni. Questa felicità, però, è fatta di attimi, di momenti più o meno lunghi, ma non può durare. Una partita non può continuare all'infinito, un cibo buono non può essere mangiato ininterrottamente, anche una bella chiacchierata con gli amici non può trascinarsi in eterno. Ma dopo i momenti di gioia e di euforia, sembra che siamo meno preparati ad affrontare le ore di calma. Per questo sentiamo spesso dire che la quotidianità è pesante e ci sembra che la felicità sia ancora da un'altra parte: lontana o irraggiungibile.
3. Felicità come completezza.
C’è però un terzo genere di felicità di cui parlano soprattutto i filosofi antichi, da Socrate a Seneca. La felicità è intesa da questi autori come eudaimonia. Il filosofo Umberto Galimberti traduce in questo modo il concetto di eudaimonia: “Seguendo il proprio demone si raggiunge l'eudaimonía, ossia la felicità, che dunque non risiede nel raggiungimento degli oggetti del desiderio, ma nella realizzazione di sé. Tutto ciò che io sono mi è dato, e la vita non è altro che l'espressione, la fioritura di ciò che in fondo sono. Di qui l'importanza di riconoscere l'ambito della mia possibile estrinsecazione, il progetto di vita per cui sono venuto al mondo, il compito a cui sono stato assegnato e in cui si rivela chi sono. Non sono disponibile per qualsiasi vita, ma per quell'unica vita in cui trova espressione ciò che sono. "Conoscere se stessi" significa allora conoscere i propri limiti, perché, solo nell'esperienza del limite, la vita acquista forma, come l'acquista il fiume che, senza argini, perderebbe la potenza della sua corrente” [La casa di Psiche, Feltrinelli]. In questa modalità si esperisce la felicità come durata. Dunque: c'è una felicità che dipende da ciò che accade e un’altra che dipende dal benessere; ma c’è una forma di felicità più grande che abbraccia tutto, anche la componente e spiacevole e dolorosa dell'esistenza. È una forma di felicità che dipende dalla disposizione d'animo nei confronti della vita, è un modo di stare al mondo che si conquista con l'esperienza e dunque con il tempo, gradualmente. La felicità come completezza significa questo: considerare la vita nella sua ambivalenza, e accettarla nella sua interezza, con le sue sfaccettature, con i momenti belli e con quelli meno belli, cercando di realizzare la propria natura e i propri progetti. È una felicità che si conquista nell'equilibrio tra aspetti diversi della vita. È propria di chi accetta la vita nel suo complesso, sapendo che essa è fatta di momenti positivi e di fallimenti, di successi e di insuccessi, di piaceri e di dolori, di soddisfazioni e di insoddisfazioni. Le forme precedenti di felicità riguardano esperienze isolate: la fortuna momentanea, il benessere occasionale. Quest'ultima felicità fa sì che l'uomo non si disperi dei momenti difficili dell'esistenza, e non si spaventi troppo se la felicità per qualche tempo non raggiunge il grado massimo. Questa felicità va dunque oltre il singolo momento. Nel corso della vita ogni uomo dà una forma a se stesso e alla propria esistenza. In questa forma trova la felicità. Nella realizzazione di sé si soppesa la vita secondo un arco temporale oppure secondo l’intero suo corso. Allora la felicità non deriva da un momento di sorpresa, da qualche oggetto o da qualche cambiamento, né da qualcosa di spettacolare. Consiste nel considerare la propria vita come una buona vita e dunque felice. Il momento del ricordo diventa un momento importante, perché è nella visione del legame che collega i vari aspetti della vita che si è consapevoli della felicità di questa. L’uomo felice ha accettato la propria vita con le luci e le ombre che l’hanno costituita.
Sembra un paradosso: ma la felicità come completezza è tale perché non si esclude dalla propria vita l'infelicità. Non si escludono il dolore, la malinconia e la tristezza. La felicità dell'uomo sarà perfetta "se avrà la durata dell'intera vita (máos bíou téleion)", diceva Aristotele. (Eth. Nic., 1177b, 25).

Un caro saluto,
Alberto