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Cor-rispondenze

mercoledì 6 maggio 2009

La felicità

Caro professore,

Il nostro passaggio sulla terra è fugace e veloce proprio come un battito di ciglia sul nostro volto, e quando ce ne andiamo, non solo non faremo più ritorno, ma di quello che siamo stati il mondo avrà più alcuna traccia. A cosa serve dunque la nostra fulminea e insignificante apparizione sulla terra, se inoltre vi aggiungiamo il fatto che gli attimi di felicità saranno sfuggenti e brevi, e con un numero di cui potremo con facilità tener conto sulle dita, mentre in tutti gli altri istanti sospireremo tesi per ciò che non abbiamo, che desideriamo... che molto probabilmente non avremo mai?
Francesca

Cara Fancesca,
Fazi editore ha appena tradotto un libro del filosofo tedesco Wilhelm Schmid (1953) dal titolo Felicità [Glück]. Wilhelm Schmid insegna filosofia all’Università di Erfurt in Germania ed è uno studioso piuttosto famoso oltre che per le sue pubblicazioni anche per la sua attività di conferenziere e di “consulente filosofico”. Il libretto è agile (68 pp.) e ricco di riflessioni importanti: può essere uno stimolo per una meditazione oppure una semplice introduzione alla questione della felicità.
Abbiamo bisogno di felicità, cerchiamo la felicità, talvolta siamo ossessionati dalla felicità; temiamo di non essere abbastanza felici e, spesso, temiamo che gli altri siano più felici di noi. Tutti vogliamo essere felici in questo mondo, ma non tutti intendiamo la felicità allo stesso modo. Schmid distingue tre modalità di concepire la felicità: come fortuna, come benessere e come completezza.
1. Felicità come fortuna.
È la felicità che ci arriva per caso, quando qualcosa di inaspettato produce una piacevole sorpresa. Qui la parola tedesca felicità – Glück – è intesa in senso letterale (Glück, infatti significa sia felicità sia fortuna). Si dice “ho avuto fortuna” quando qualcosa è andato bene, e si dice: “ho avuto fortuna” anche quando, in circostanze negative, le cose sarebbero potute andare peggio. In tutti questi casi la fortuna arriva dall'esterno (per caso), e dipende solo in minima parte da noi. Siamo usciti di casa e abbiamo avuto “fortuna” ad incontrare un nostro vecchio amico. Siamo dunque felici. Abbiamo partecipato ad un concorso e abbiamo avuto fortuna “ad essere stati scelti”; e anche questo ci colma di felicità. Abbiamo compilato con alcuni amici una schedina e “per fortuna” abbiamo realizzato una vincita. Siamo felici. (Il professore “per fortuna” oggi non ha interrogato di filosofia: siamo molto felici). Insomma, tutto ciò che è insperato e ci sorprende piacevolmente genera in noi felicità. In questi casi, tuttavia, non abbiamo dovuto fare un grosso sforzo per essere felici, se non quello di rimanere aperti alle possibilità della vita (Uscire di casa, iscriverci al concorso, comprare la schedina, aspettare).
2. Felicità come benessere
Di solito riteniamo anche che essere felici significhi stare bene, essere in buona salute, fare delle esperienze, delle conoscenze e avere successo. Oggi pensiamo che una vita felice consista nel vivere molte esperienze, fare viaggi, essere liberi da troppi condizionamenti e dal dolore. Se il primo tipo di felicità scaturiva dalla sorpresa e non richiedeva il nostro intervento, per ottenere il nostro benessere, invece, possiamo fare molto. Possiamo scoprire nei vari contesti di studio o di lavoro quali sono i momenti che ci fanno star bene e cercare di riprodurli. (Uno studente in questi giorni mi ha detto che è felice quando vede entrare una sua compagna di classe). Incontrare gli amici, trascorrere una serata in pizzeria, fare una chiacchierata, giocare una partita di pallavolo o semplicemente prendere un caffè sono tutti comportamenti che generano felicità. Quindi possiamo conoscere quali momenti della giornata possono provocare il nostro benessere e ripeterli. In questo senso possiamo diventare competenti in materia di felicità, ossia possiamo diventare abili a scoprire come raggiungere la felicità e come procurarci delle soddisfazioni. Questa felicità, però, è fatta di attimi, di momenti più o meno lunghi, ma non può durare. Una partita non può continuare all'infinito, un cibo buono non può essere mangiato ininterrottamente, anche una bella chiacchierata con gli amici non può trascinarsi in eterno. Ma dopo i momenti di gioia e di euforia, sembra che siamo meno preparati ad affrontare le ore di calma. Per questo sentiamo spesso dire che la quotidianità è pesante e ci sembra che la felicità sia ancora da un'altra parte: lontana o irraggiungibile.
3. Felicità come completezza.
C’è però un terzo genere di felicità di cui parlano soprattutto i filosofi antichi, da Socrate a Seneca. La felicità è intesa da questi autori come eudaimonia. Il filosofo Umberto Galimberti traduce in questo modo il concetto di eudaimonia: “Seguendo il proprio demone si raggiunge l'eudaimonía, ossia la felicità, che dunque non risiede nel raggiungimento degli oggetti del desiderio, ma nella realizzazione di sé. Tutto ciò che io sono mi è dato, e la vita non è altro che l'espressione, la fioritura di ciò che in fondo sono. Di qui l'importanza di riconoscere l'ambito della mia possibile estrinsecazione, il progetto di vita per cui sono venuto al mondo, il compito a cui sono stato assegnato e in cui si rivela chi sono. Non sono disponibile per qualsiasi vita, ma per quell'unica vita in cui trova espressione ciò che sono. "Conoscere se stessi" significa allora conoscere i propri limiti, perché, solo nell'esperienza del limite, la vita acquista forma, come l'acquista il fiume che, senza argini, perderebbe la potenza della sua corrente” [La casa di Psiche, Feltrinelli]. In questa modalità si esperisce la felicità come durata. Dunque: c'è una felicità che dipende da ciò che accade e un’altra che dipende dal benessere; ma c’è una forma di felicità più grande che abbraccia tutto, anche la componente e spiacevole e dolorosa dell'esistenza. È una forma di felicità che dipende dalla disposizione d'animo nei confronti della vita, è un modo di stare al mondo che si conquista con l'esperienza e dunque con il tempo, gradualmente. La felicità come completezza significa questo: considerare la vita nella sua ambivalenza, e accettarla nella sua interezza, con le sue sfaccettature, con i momenti belli e con quelli meno belli, cercando di realizzare la propria natura e i propri progetti. È una felicità che si conquista nell'equilibrio tra aspetti diversi della vita. È propria di chi accetta la vita nel suo complesso, sapendo che essa è fatta di momenti positivi e di fallimenti, di successi e di insuccessi, di piaceri e di dolori, di soddisfazioni e di insoddisfazioni. Le forme precedenti di felicità riguardano esperienze isolate: la fortuna momentanea, il benessere occasionale. Quest'ultima felicità fa sì che l'uomo non si disperi dei momenti difficili dell'esistenza, e non si spaventi troppo se la felicità per qualche tempo non raggiunge il grado massimo. Questa felicità va dunque oltre il singolo momento. Nel corso della vita ogni uomo dà una forma a se stesso e alla propria esistenza. In questa forma trova la felicità. Nella realizzazione di sé si soppesa la vita secondo un arco temporale oppure secondo l’intero suo corso. Allora la felicità non deriva da un momento di sorpresa, da qualche oggetto o da qualche cambiamento, né da qualcosa di spettacolare. Consiste nel considerare la propria vita come una buona vita e dunque felice. Il momento del ricordo diventa un momento importante, perché è nella visione del legame che collega i vari aspetti della vita che si è consapevoli della felicità di questa. L’uomo felice ha accettato la propria vita con le luci e le ombre che l’hanno costituita.
Sembra un paradosso: ma la felicità come completezza è tale perché non si esclude dalla propria vita l'infelicità. Non si escludono il dolore, la malinconia e la tristezza. La felicità dell'uomo sarà perfetta "se avrà la durata dell'intera vita (máos bíou téleion)", diceva Aristotele. (Eth. Nic., 1177b, 25).

Un caro saluto,
Alberto

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