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Cor-rispondenze

lunedì 18 aprile 2022

La legge morale





La conclusione della “Critica della ragion pratica” [1788] di Immanuel Kant è assai nota. Contiene la celebre frase che poi sarà in parte scolpita sulla sua tomba: «Due cose riempiono l’animo di ammirazione e di venerazione sempre nuove e crescenti, quanto più sovente ed a lungo si riflette sopra di esse: il cielo stellato sopra di me e la legge morale dentro di me». «Il cielo stellato sopra di me», indica lo stupore dell’autore per le meraviglie della fisica, dell’astronomia, delle regolarità del cosmo, mentre la «legge morale dentro di me» denota l’incanto per una dimensione esclusiva dell’essere umano che lo rende diverso dagli altri esseri viventi, dominati presumibilmente in modo completo dalle leggi della fisica e della biologia. Kant dice che nell’uomo c’è qualcosa che si sottrae alla necessità della natura. Eppure tutti i fenomeni sono di natura fisica: l’acqua bolle a 100 gradi, gli oggetti cadono a terra per la forza di gravità, il colore del volto può dipendere da un’alterazione della composizione del sangue, la statura è determinata dalla genetica. Persino le nostre azioni sono spesso reazioni a certi stimoli e i nostri comportamenti, anche quelli morali, sono condizionati dalla nostra educazione, dalla tradizione a cui apparteniamo, dalla nostra specifica sensibilità, dal temperamento, dai suggestioni che abbiamo avuto in passato, dalla nostra capacità di essere o meno empatici. Poiché non possiamo sapere se agiamo sotto la spinta di qualche condizionamento consapevole o inconscio non possiamo certo avere la certezza di produrre scelte libere e autonome. Kant dice che la libertà va cercata sul piano della ragione, perché su quello della fisica siamo sottoposti al suo meccanismo esattamente come gli altri esseri viventi. La ragione, allora, non è solo “teoretica”, ossia non ha solo una funzione conoscitiva, ma è in grado anche di muovere l’azione, e quindi è anche “pratica”. Pratico in filosofia non significa “concreto”, “utile” o “efficace”. Deriva da “praxis”, “azione”, e indica che la ragione è in grado di scuotere l’agire («fai sport due volte alla settimana», «non mangiare carne»). La ragione è “pratica”, dunque, perché in grado di orientare il comportamento. Ovviamente non tutte le indicazioni della ragione sono morali, alcune sì. Quando vogliamo muovere l’azione usiamo infatti i verbi all’imperativo: “fai questo”, “non fare quest’altro”. Kant distingue gli imperativi in “ipotetici” e “categorici”. Sono ipotetici i comandi subordinati ad una ipotesi: “Devi studiare, se vuoi essere promosso”, “devi dire la verità, se non vuoi finire in galera”. Secondo Kant se vi è un obiettivo che condiziona la nostra azione, questa non è ancora un’azione morale. Gli imperativi categorici sono invece incondizionati: nel linguaggio di Kant sono chiamati “puri”, ossia “a priori”, non dipendono dall’esperienza né dall’utile. Comandano di compiere il dovere per il dovere: “Di’ la verità”, perché è giusto dire la verità, non perché ne ricavi qualche vantaggio. Secondo il filosofo allora: «Non c’è dunque che un solo imperativo categorico, cioè questo: agisci soltanto secondo quella massima che, al tempo stesso, puoi volere che divenga una legge universale». Una massima è un’indicazione personale soggettiva. Per sapere se il nostro proposito è morale dobbiamo vedere se può diventare una legge valida per tutti. Ecco un esempio: «Quando credo di aver bisogno di denaro, ne prendo a prestito promettendo di restituirlo, benché sappia che non lo farò mai». Cosa accadrebbe se la mia massima diventasse una legge universale? Se tutti promettessero sapendo di non poter restituire, verrebbe meno il senso della promessa e sarebbe impossibile accettare patti o giuramenti. Generalizzando un’intenzione personale possiamo scoprire se essa può valere come legge universale e comprendere dunque se un’azione è morale o meno. Poi sta a noi decidere quale comportamento seguire. Per parlare di morale occorre però far riferimento alla libertà dell’uomo. Se l’uomo non fosse libero e i suoi atti fossero completamente determinati dalla natura non si potrebbe parlare di morale, per questo Kant afferma che «la libertà è senza dubbio la “ratio essendi”[la condizione di esistenza] della legge morale». Come facciamo però a mostrare che esiste la libertà? Secondo Kant quando l’uomo avverte il dovere morale e comprende ad esempio che è giusto dire la verità, può decidere di affermarla oppure può optare di dire il falso. Siamo liberi non perché possiamo fare ciò che vogliamo – perché in questo caso i nostri atti potrebbero essere determinati dalla natura o da inclinazioni di cui non siamo a conoscenza –; siamo liberi perché avvertiamo l’obbligo morale con la ragione. La ragione ci dice che cosa è giusto fare e la scelta dipende da noi. A partire dall’obbligo morale scopriamo la nostra libertà. Nelle parole dell’autore «la legge morale è la “ratio cognoscendi” [modo in cui vengo a conoscere] della libertà». Chi ha barato al gioco e magari ha ottenuto un guadagno, sa di aver barato e sapeva che cosa era giusto fare, ma poi ha scelto come interagire: se ingannare oppure no, se essere degno o indegno, virtuoso o disonesto. Gli altri potranno non scoprire mai l’imbroglio, ma il soggetto sa come si è comportato: conosceva ciò che era giusto e ha compiuto la propria scelta. Sentiva il dovere di dire la verità, ma ha preferito mettere a tacere tale voce e anteporre il proprio vantaggio. È solo sul piano della morale che l’uomo ha accesso alla libertà. 

Un caro saluto,

Alberto






lunedì 4 aprile 2022

Il legno storto dell'umanità

 



L’uomo è davvero un essere saldamente legato alla razionalità? I più ne dubitano, ma nemmeno gli illuministi o i grandi difensori della ragione hanno mai sostenuto questo. Prendiamo uno straordinario razionalista come Immanuel Kant. Nell’ “Idea per una storia universale dal punto di vista cosmopolitico” [1784] scrive alcune idee sulla natura umana. Nella sesta tesi afferma: «da un legno così storto come quello di cui è fatto l’uomo non si può fare nulla di completamente diritto». È una frase forte, che si trova spesso riportata come esergo nelle opere di filosofia, di diritto, di storia, ma anche di psicologia e di pedagogia. Mi è capitato ultimamente di ritrovarla nel poscritto dell’opera “L’Europa nel vortice. Dal 1950 ad oggi” di Ian Kershaw, un grande storico del Novecento. La citazione kantiana apre la sua riflessione conclusiva – mai così attuale – intitolata “Una nuova epoca d’insicurezza”, pubblicata nel 2020, assai prima dei recenti e tragici eventi bellici. In questo periodo di guerra definire l’uomo come «legno così storto» non ha certo bisogno di spiegazioni. Non ci sono dubbi di quanto gli uomini siano in grado di produrre il male e di deludere, perché capaci di provocare grandi disastri, di lacerare la vita e generare inaudite sofferenze. La struttura che ci costituisce fa sì che siamo in grado di essere profondamente ottusi, egocentrici, continuamente in preda ad errori, a convincimenti ingannevoli, a miraggi individuali e collettivi, alla facile manipolazione e persino incapaci di raggiungere i propositi che ci orientano. Kant, nel testo citato, riflette sulla possibilità che una società civile faccia valere universalmente il diritto. Egli scrive che l’uomo purtroppo abusa della libertà nei confronti dei suoi simili, perché se da una parte desidera una legge che ponga limiti alla libertà di ognuno, dall’altra «la sua egoistica inclinazione animale» lo porta a  non rispettare la legge, «a tirarsene fuori non appena possibile». Per il filosofo occorre ancora lavorare per creare una costituzione civile tra gli uomini. Tuttavia, se si osserva la storia del genere umano sembra che vi sia un piano nascosto della natura per realizzare una perfetta costituzione. Infatti, dall’antichità a oggi c’è un evidente miglioramento degli ordinamenti giuridici. Forse nulla di perfetto, ma una tensione a realizzare ciò che è più giusto: «Dalla natura ci è imposto solo l’avvicinamento a questa idea», scrive infatti il filosofo. Possiamo tuttavia sperare che la razionalità prevalga sull’irrazionalità, che il diritto prevalga sulla forza bruta. Gli uomini tendono alla razionalità e potrebbero essere maggiormente razionali se creassero delle istituzioni che li aiutano a reprimere gli istinti egoistici e a seguire la legge. Nel 1793 Kant pubblica l’opera “La religione entro i limiti della sola ragione” ove riflette sul tema del male – il «male radicale» – che evidentemente deriva da quel «legno storto» di partenza. Molti credono che il male sia inscritto nella natura umana. Per Kant il male non dipende né dai sensi né dalla ragione e non deriva dalle disposizioni dalla specie. Il male deriva dalla libertà dell’uomo, dal voler agire contro la legge morale: «è procurato da noi a noi stessi», quando subordiniamo la ragione ai sensi. L’uomo, per Kant, è in grado di avvertire dentro di sé la legge morale e tuttavia decide liberamente di allontanarsi da essa. Che strana creatura: assoggettata alle direttive della natura, e tuttavia capace di comprendere ciò che è giusto, di sentire il dovere e quindi di poter scegliere se compierlo o no. È a partire dal dovere che nasce la libertà dell’uomo. Non si è liberi perché si può fare ciò che si vuole, in questo caso si sarebbe dominati dalle inclinazioni dalla natura. Si è liberi quando si avverte il dovere morale e proprio perché esso indica cosa si “dovrebbe” fare, l’uomo può compiere l’azione giusta o rinunciare. È dunque un «legno storto», ma è in grado anche di fare il bene per il bene, di agire perseguendo ciò che è giusto e non perché verrà rimproverato o gratificato da qualcuno. C’è qualcosa in lui che lo eleva al di sopra delle disposizioni della specie. Scrive Kant: «Che cosa c’è in noi (ci si può chiedere), esseri costantemente dipendenti dalla natura per tanti bisogni, che ci eleva al di sopra dei bisogni[…]? Che l’uomo avverta la legge morale è qualcosa che riempie infatti l’animo di meraviglia. Se agissimo solo seguendo l’istinto saremmo dominati dalla natura e quindi non potremmo nemmeno parlare di morale, perché questa presuppone la libertà. L’animale che uccide non può essere condannato, perché è determinato dalla natura: il problema morale non si pone. Se invece seguissimo sempre la ragione, escludendo i condizionamenti sensibili, non saremmo uomini, ma esseri divini. Ecco, la natura umana oscilla tra sensibilità e razionalità: né solo una né solo l’altra. In questa continua e inestirpabile relazione sta il «male radicale» dell’uomo. Non perché la natura umana sia perversa o corrotta, ma perché anche quando l’uomo decide di comportarsi in modo morale – ossia quando segue la ragione e non la convenienza – non si libera definitivamente dai condizionamenti futuri della sensibilità che potranno in altre occasioni impedire che agisca secondo ragione. Il «male radicale» sta qui: è legato alla libertà dell’uomo che può scegliere o meno di affermare la ragione. L’uomo ha però una peculiarità: anche se «legno storto» quando ascolta la legge morale procede invece «completamente diritto».

Un caro saluto,

Alberto