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Cor-rispondenze

lunedì 23 marzo 2020

Un altro giorno come ieri

Risultato immagini per cuneo oggi



Caro professore,
Sveglia. Lezioni online. Perdo tempo sul telefono. Mangio. Leggo un libro. Suono un po’ il pianoforte. Canto. Suono un po’ la chitarra.  Merenda. Telefono. Compiti. Cena. Film. Mi metto nel letto e imposto la sveglia. Mi addormento. Ma in realtà la mia giornata non è proprio così. E' costantemente immersa di pensieri, affoga di malinconia, colma di sguardi che nessuno vede, di sospiri, immaginazione. Perché quando stai a casa il mondo prende la forma della tua cameretta, della cucina, del soggiorno, delle mura che racchiudono la realtà. E ti lasci cullare dai ricordi, dalle foto, ti lasci far prendere per mano dalla noia, dalla malinconia. “Cosa faccio appena tutto ciò finisce?”, ti chiedi. Io vorrei andare con la mia migliore amica a correre, studiare in gruppo, abbracciare mia nonna. Vorrei andare a ballare, ad una mostra, ad un concerto. Vorrei andare a fare la spesa con mia mamma, fare una sorpresa a qualcuno e poi abbracciarlo forte. Vorrei andare al mare, andare a fare shopping, comprare delle scarpe nuove, andare in biblioteca, camminare in montagna. Ho tanta voglia di fare, di riempire le mie giornate di novità, spensieratezza ed allegria. Ma per ora aspetto. Domani forse. O forse no. Per adesso oggi rimane un altro giorno come ieri.
Alice, 3C


Cara Alice,
La prima parte della tua lettera mi ricorda, nella scelta dello stile, una vita ritmata dall’organizzazione forzata, che scorre priva della sua musicalità. Ma la scrittura e la vita fluiscono parallele. Quando la vita non è contratta, anche la scrittura ha il suo respiro, le sue onde più o meno ampie che danno senso al suo fraseggio. E quello che accade oggi ha permeato così a fondo l’esistenza che ne ha fatto saltare la fluidità, la sintassi del senso. Da una parte la contrazione degli eventi personali, che si susseguono quasi separati gli uni dagli altri; dall’altra il mondo, oggi divenuto – come l’Ulisse di Joyce – un flusso di vita che ha scardinato il ritmo ordinario in cui eravamo soliti vederlo fluire. Giorni che sembrano uguali, ma che in realtà non passano, perché è cambiata la nostra condizione. Per comprendere questa mutazione ci vengono in aiuto i primi versi del secondo libro del De rerum natura di Lucrezio, quando l’autore, commentando un naufragio, scrive: «Bello, quando sul mare si scontrano i venti e la cupa vastità delle acque si turba, guardare da terra il naufragio lontano: non ti rallegra lo spettacolo dell'altrui rovina, ma la distanza da una simile sorte». Sarebbe stupendo contemplare da lontano e con distacco una sorte avversa che non ci coinvolge se non nella compassione. Invece abbiamo scoperto che la terraferma sulla quale pensavamo di poggiare è trascinata nella stessa rovina. E questa è la struttura dell’esistenza, che sentivamo al riparo da ogni sussulto non governabile e scopriamo invece essere implicata in un’incessante lotta contro forze che potrebbero annientarla. In questi momenti di difficoltà l’uomo rivive il proprio status, in bilico tra la vita e la morte, dove l’esito della battaglia con la natura non è mai scontato né la vittoria unilaterale o definitiva. Lucrezio esprime questa idea in versi bellissimi: «Né possono i moti funesti vincere per sempre né seppellire in eterno la vita, né, d'altra parte, i moti vitali posson sempre salvare da morte le cose create. Con pari fortuna e con forze eguali per tutti gli spazi continua così una guerra iniziata da tempo infinito. E vince la vita ora qui ora là, ed è vinta». Questa è la condizione della specie umana, sospesa tra fragilità e forza. È la stessa fragilità che ci ricordava Pascal quando, parlando della sproporzione tra il cosmo e l’individuo, affermava che «Non occorre che l’universo intero si armi per annientarlo: un vapore, una goccia d’acqua, bastano per ucciderlo». Sono parole che oggi capiamo perfettamente, perché definitivamente esposti alla consapevolezza della condizione umana. Abbiamo compreso che il mondo è un unico respiro e che una goccia d’acqua può attraversare i polmoni del mondo. E il respiro è fatto di due momenti, di inspirazione ed espirazione. Il dolore è il momento dell’espirazione, dove la sofferenza si manifesta soprattutto negli «sguardi che nessuno vede». Dai volti degli anziani che, morendo, non vedono e non sono visti a quelli di medici, infermieri e forze dell’ordine scomparsi di cui conosciamo approssimativamente solo gli sforzi e il nome. Indipendentemente dalle visioni con cui interpretiamo la vita, in quegli «sguardi che nessuno vede» si concentra la peggiore sofferenza dell’uomo. Se possiamo rassegnarci a fatica al nostro congedo dal mondo, vorremmo che non accadesse nell’assenza di commiato, strappati ad una relazione. Ma poi, per fortuna, c’è il movimento contrario a quello del dolore, quello dell’inspirazione, della speranza; quando il mondo rientra nel soggetto per volontà del soggetto. Non è allora così negativo che, provvisoriamente, «il mondo prenda la forma della cameretta». Per un certo tempo abbiamo gettato la luce della nostra ragione solo in avanti, come il faro della bicicletta, mentre ora, proprio a partire dalla cameretta, possiamo farla ruotare a trecentosessanta gradi su tutti gli aspetti della nostra esistenza. Per sentirne la caducità, dolorosa. E la bellezza che, allentando il dolore, libera la vita. Ci servirà, perché quando torneremo nel mondo, sapremo che di esso dovremo prenderci cura proprio come di quel piccolo luogo che, per ora, custodisce la nostra vita.
Un caro saluto,
Alberto

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