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Cor-rispondenze

lunedì 5 aprile 2021

La malvagità

 



Biante, uno dei sette savi del mondo greco, ha affermato che «i più sono malvagi». È una sentenza sconsolante, ma esprime una verità: gli uomini sono in grado di operare il male con un certa soddisfazione, appagati dall’esito sfavorevole delle azioni altrui; sono in grado di danneggiare il prossimo per invidia, rivalità o per semplice malevolenza, e – per scegliere un esempio letterario, come il “Riccardo III” di Shakespeare –, sono persino compiaciuti delle conseguenze fatali delle loro azioni. Chiunque abbia subito atti di prepotenza, sia stato oggetto di soprusi, svalutazione, vittima di aggressività diretta o indiretta, è disposto a sottoscrivere questa affermazione. Per carità, gli uomini non sono perfetti e non cerchiamo pertanto di idealizzarli, perché ad una minima delusione delle aspettative si possono generare giudizi dicotomici: gli uomini passano dall’essere considerati tutti buoni all’essere ritenuti tutti cattivi. Cerchiamo pertanto di evitare i due eccessi: di bontà e di malvagità. Come diceva un conciliante filosofo napoletano della seconda metà dell’Ottocento «Gli interamente buoni sono rari come gli interamente malvagi, i più stando di mezzo tra gli uni e gli altri, né tutto buoni né tutto malvagi». Già, ma dentro questo insieme così grande di persone non del tutto buone né del tutto malvagie, i più sarebbero comunque malvagi. Perché? Di solito giungiamo a proiettare tale caratteristica sulla specie intera, quando siamo stati delusi da una o più persone; la diffidenza si estende allora al prossimo e ci lasciamo andare a giudizi irrazionali e a risposte perlopiù inadeguate alla momentanea disperazione. Biante avrà emesso tale sentenza con mente lucida o in preda a frustrazione? Pare che lo abbia fatto a ragion veduta e non sull’onda di un’emozione negativa o di eventi sfavorevoli. Nel corso della storia molti filosofi si sono pronunciati sulla bontà o sulla malvagità della natura umana, ma non è necessario impegnarsi in una riflessione così radicale sull’essenza dell’uomo. La maggior parte dei nostri incontri e delle nostre relazioni non avviene con uomini di altissima statura morale, ma nemmeno di infima dignità. Incontriamo di solito uomini medi, che producono danni medi, bugie medie, dichiarazioni medie. Ma i giusti pare che siano pochi. D’altra parte lo dice anche il “Qoèlet nella Bibbia che si può trovare un giusto forse «fra mille», ma poi anche la Bibbia mitiga il giudizio, tenendo conto di quanto sia difficile anche per l’uomo giusto agire sempre in modo virtuoso: «Non c’è infatti sulla terra un uomo così giusto che faccia solo il bene e non sbagli mai». Il poeta Giovenale non aveva probabilmente particolare fiducia nell’uomo, perché nelle “Satire” afferma che: «I buoni sono rari: sono appena tanti quante sono le porte di Tebe o le bocche del fertile Nilo». Davvero non molti, perché le porte di Tebe erano sette e altrettante erano le «bocche» del Nilo, i paesi attraversati e fecondati dal fiume (Berundi, Rwanda, Tanzania, Uganda, Sud Sudan, Sudan, Egitto). Così la pensavano, senza produrre quantificazioni così riduttive, anche Platone, Aristotele, Montaigne, Spinoza e tanti altri. La riflessione di Platone è particolarmente importante, perché il grande filosofo, dopo la condanna a morte del proprio maestro e amico Socrate, dedica gran parte delle proprie energie per immaginare uno Stato che non mandi a morte uomini retti e giusti. Nella “Repubblica” le sue preoccupazioni diventano tema di un importante dibattito: «ci troviamo ora a chiederci perché mai la maggioranza sia cattiva». La conclusione è che si può diventare malvagi se si assecondano il  piacere immediato, l’inclinazione all’imperfezione, la brama di possedimenti o la sete di potere, se si agisce in modo impulsivo e non filtrato dalla riflessione. Poiché sono poche le persone che riescono ad amministrare la propria vita con saggezza e a vivere secondo virtù, egli ritiene che debbano essere i filosofi a guidare lo Stato, perché essi hanno già dato prova di non cercare vantaggi personali, ma la verità. Anche Aristotele ritiene che i buoni sono rari e afferma che «uomini di tal sorta non sono frequenti». Egli non si esprime sull’essenza specifica dell’uomo, ma afferma che è la nostra condotta a determinare chi siamo: come ogni azione buona può aiutarci a migliorare, così «ogni azione malvagia rende l’uomo più ingiusto». Così, invece di pronunciarsi su un’improbabile essenza della natura umana o individuale, Aristotele lascia aperta la porta alla responsabilità: sono dunque le scelte quotidiane a connotare con precisione gli esseri umani. Anche oggi, se si osservano le reazioni di alcuni ospiti nelle trasmissioni televisive o i messaggi di commento sui social, ci si rende conto che, come affermava un antico proverbio, «la malvagità non ha bisogno che di un pretesto». Di fronte a questo pessimismo più o meno giustificato ci sono soluzioni? Secondo Aristotele l’educazione può avere una certa efficacia. Lo scrittore greco Diogene Laerzio racconta infatti che Aristotele: «diceva che dell’educazione le radici sono amare, il frutto è dolce». Egli racconta un episodio accaduto al filosofo che è stato variamente interpretato. «A chi gli rimproverò di aver soccorso un uomo malvagio […] “Non l’uomo soccorsi – replicò – ma l’umanità”». Conoscendo quanto l’uomo è abile ad autoassolversi, Aristotele ritiene che solo il comportamento virtuoso e l’esempio possono, forse, alla lunga persuadere anche i più. 

Un caro saluto,

Alberto


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