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Cor-rispondenze

lunedì 4 febbraio 2013

La «banalità del male»


 
 
Caro professore,
In questi giorni a scuola abbiamo parlato della Shoah e abbiamo riflettuto su un documento che mostra alcune parti del processo a Adolf Eichmann che si è svolto a Gerusalemme. Abbiamo letto un brano di Hannah Arendt in cui la filosofa tedesca usa l’espressione «banalità del male» per indicare che anche le persone che non sono spietate possono commettere azioni molto violente. Secondo lei Adolf Eichmann era solo un burocrate che eseguiva degli ordini o era una persona che condivideva fino in fondo gli ideali nazisti?
Alessandro


Caro Alessandro,
«Banalità del male» è l’espressione che Hannah Arendt ha utilizzato per descrivere Adolf Eichmann, uno degli ufficiali nazisti responsabili dell’Olocausto, per indicare che anche persone apparentemente “normali” possono compiere azioni efferate, per l’incapacità di pensare e di avere una propria coscienza. L’idea di Arendt è questa: non occorre essere intimamente malvagi per compiere il male. Questa tesi è presente in alcuni suoi lavori: dal libro più conosciuto – o semplicemente più citato – “La banalità del male” [Feltrinelli 1964] a “La vita della mente” [Il Mulino 1987]. L’espressione «banalità del male» ha fatto discutere. Anche se è sostenuta da molte buone ragioni, e per certi aspetti sembra connotare esattamente la figura di Eichmann, molti studiosi hanno messo in luce che dietro le sembianze del burocrate che espletava il proprio lavoro si celava invece un uomo che condivideva perfettamente gli ideali del nazismo e l’odio per gli ebrei. Certo, lo sguardo quasi impacciato di Eichmann che appare nel processo a Gerusalemme del 1961 è ben diverso da quello di Hermann Göring, che ostenta disprezzo e sicurezza nel processo di Norimberga. Ma il temperamento non deve trarre in inganno. Già David Cesarani nella biografia di Eichmann di (Adolf Eichmann. Anatomia di un criminale [Mondadori 2004]) scrive che Arendt ha adattato «il personaggio alla sua teoria del totalitarismo» (p. 7), ridimensionando le componenti dell’ideologia e dell’odio ben radicate nell’ufficiale tedesco. Antonio Cassese, il professore di diritto internazionale recentemente scomparso, ha nuovamente messo in luce alcuni fatti che mostrano che Eichmann non fosse un semplice burocrate. Nel libro “L’esperienza del male [Il Mulino 2011]” (pp. 135-138), egli ribadisce che Eichmann era un uomo malvagio che «con passione trucidava e uccideva quanti più ebrei possibile». E racconta due episodi (per la verità, contenuti anche nel libro di David Cesarani). Il primo fa riferimento a un telegramma che l’ambasciatore ungherese aveva inviato a Hitler nel 1944. Infatti, verso la fine della guerra, il reggente d’Ungheria Miklós Horthy si era messo d’accordo con Hitler per risparmiare circa 40 mila ebrei. Poiché gli Alleati si stavano avvicinando, egli aveva cercato di salvare la faccia e di mitigare la propria posizione filonazista. Poiché Hitler aveva bisogno dell’appoggio politico e militare degli ungheresi, aveva dato il proprio assenso. Eichmann invece «si indignò e protestò» e «fece di tutto per vanificare gli ordini di Hitler», e mise in atto una serie di procedure per spedire quelle persone nei campi di concentramento, anche se avrebbero dovuto salvarsi. Un secondo fatto si riferisce ad un’intervista che Eichmann rilasciò in Argentina nel 1956 al giornalista olandese filonazista Willem Sassen. In questo documento registrato, che doveva essere reso pubblico dopo la morte di Eichmann, l’ufficiale nazista ammette di «aver sbagliato», per non avere «ammazzato abbastanza ebrei». Antonio Cassese parla dunque di un uomo con una «tensione immorale» fortissima. Hannah Arendt non era a conoscenza di questi fatti, ed è per questo che si è concentrata soprattutto sull’immagine del burocrate. Sicuramente, come hanno mostrato gli esperimenti di Stanley Milgram e di Philip Zimbardo, il contesto può far degenerare certe inclinazioni, ma Adolf Eichmann celava dietro ad un garbo apparente un odio profondo per l’umanità.
Un caro saluto,
Alberto

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