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Cor-rispondenze

lunedì 17 ottobre 2011

L'altra faccia della felicità




Caro professore,
Mi sono sempre chiesta perché quando sono felice subito dopo sento un grande vuoto dentro di me, come se la felicità che ho provato prima si tramutasse in un motivo per diventare triste e forse anche insoddisfatta. Non capisco perché il motivo che prima mi faceva gioire, poco dopo mi dà un senso di malessere...E’ una cosa strana che non riesco a spiegarmi. Forse mi succede questo perché ho paura che i momenti per cui ho gioito non ricapitino più?
Laura



Cara Laura
Chissà, forse Arthur Schopenhauer avrebbe pensato che sei una ragazza con un carattere «nobile», perché tale carattere – secondo l’autore – porta con sé « una certa apparenza di muta tristezza ». Scrive infatti Schopenhauer nell’opera Il mondo come volontà e rappresentazione [Bur 2002]: «Un carattere molto nobile ce lo immaginiamo sempre con una certa apparenza di muta tristezza; la quale è tutt'altro che un permanente cattivo umore per le contrarietà quotidiane [...]; bensì è conscienza, nata da cognizione, della vanità di tutti i beni e del dolore d'ogni vita, non della propria soltanto». Dunque niente a che fare con il cattivo umore per qualche contrattempo o fastidio quotidiano, né con le variazioni dello stato d'animo caratteristiche dell’adolescenza. Sembra infatti che tu abbia colto un aspetto esistenziale della vita, ossia il fatto che tutto è vano, anche la felicità. Senti un «vuoto dentro di te», perché sperimenti che nulla è definitivo, nulla permane, neppure i momenti più lieti e spensierati. Non è una questione psicologica, ma esistenziale. Maggiore è la consapevolezza della natura effimera dell’uomo e di ogni sua attività, maggiore è il dolore (« salendo il dolore di pari passo con la chiarità della conscienza »); allora il velo di tristezza che segue un momento di gioia è dovuto all’irruzione della ragione che svela l’incanto illusorio della felicità. Ma questo è Arthur Schopenhauer. C’è però anche dell’altro. Il filosofo Robert Nozick [in Anarchia, stato e utopia (1974), il Saggiatore 2008] negli anni ’70 ha proposto questo esperimento mentale: egli suggerisce di immaginare di essere collegati ad una macchina che permette un'esperienza virtuale di felicità ininterrotta. A questo punto si chiede: che cosa sceglierebbe la maggior parte delle persone? Una vita irreale e virtuale (tipo quella che viene proposta in Matrix) che garantisce senza interruzione la felicità o una realtà senza inganni con gli alti e bassi della vita? Nonostante la seduzione di una felicità stabile (magari oggi o in futuro ottenibile anche con una “pastiglia della felicità”), sembra che la maggior parte delle persone preferisca avere una parte attiva nella vita, piuttosto che una vita in una condizione di menzogne continue anche se priva di sofferenze ed estremamente gratificante. Se esistesse una macchina della felicità in grado di dispensare un benessere ininterrotto ma artificiale, forse la maggior parte delle persone rifiuterebbe ancora l’offerta di questa condizione. La felicità implica una vita attiva, la partecipazione alla vita reale in cui ogni uomo realizza le proprie potenzialità. La nostra felicità non consiste nel provare piacere ininterrotto, ma nel vivere cercando di esplorare attivamente e perfezionare le risorse intellettuali, fisiche e relazionali di cui siamo dotati. Se a momenti di felicità seguono momenti in cui siamo meno felici, non ci dobbiamo stupire, perché sappiamo che attraverso l’impegno nelle relazioni e nel lavoro operiamo già continuamente per la felicità.
Un caro saluto,
alberto

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