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Cor-rispondenze

lunedì 7 settembre 2009

I gruppi e l'infelicità

Caro professore,

Perché l’uomo cerca a tutti i costi di fare parte di un determinato gruppo? Girando per le strade è impossibile non notare che la società è divisa in gruppi, che si differenziano tra di loro per modo di vestire, di parlare e di comportarsi. Gli appartenenti ad un determinato gruppo tendono a escludere o a disprezzare i membri di altri gruppi, vantando la loro appartenenza al gruppo. Esistono inoltre gruppi definiti “superori” o “inferiori”, come le classi sociali in cui gli “inferiori” vorrebbero essere “superiori” e i “superiori” disprezzano chi sta sotto di loro.
Quindi mi sorge un’altra domanda: perché questa divisione persiste, nonostante provochi l’infelicità nelle persone?
Alberto


Caro Alberto,
A volte i gruppi nascono dalla semplice vicinanza: nel territorio conosciamo gli amici, nella classe i compagni; ma i gruppi si formano nei modi più diversi: per le scelte lavorative, per lo status sociale, per valori condivisi, per passioni, per credenze religiose, per interessi comuni. I sociologi parlano anche di “gruppi di riferimento”, ossia di quei gruppi di persone con le quali abbiamo un rapporto e che teniamo presenti quando pensiamo o dobbiamo prendere decisioni. Però, come ben sai, la vita di gruppo è fondamentale e non solo nell’adolescenza.
Nel gruppo creiamo infatti legami affettivi intensi, amicizie uniche, viviamo esperienze profonde e condividiamo molti sentimenti; sperimentiamo la fiducia, la lealtà, la collaborazione, l’intimità, la sicurezza, il coinvolgimento. Ci sentiamo protetti, e proviamo la sensazione rassicurante di appartenere a qualcuno, di essere riconosciuti e accettati. I gruppi ci accompagno per tutta la vita, ed è attraverso il gruppo che spesso ci avviciniamo alle altre persone e socializziamo con loro. Spesso diventiamo riconoscibili a qualcuno se diciamo a quale gruppo apparteniamo o a quale gruppo facciamo riferimento. In qualche modo l’altro si avvicina a noi se riesce a riconoscere i vari gruppi di cui facciamo parte: rispetto alle amicizie, alle compagnie, alle passioni, ai desideri (…alle scelte musicali, politiche e religiose, ovviamente). Il gruppo è importante perché nel gruppo abbiamo un rapporto paritario con gli altri, mentre con i genitori il rapporto è di tipo verticale. Il gruppo è il luogo in cui diventiamo liberi nelle nostre decisioni, autonomi nelle nostre relazioni e indipendenti dai genitori. Nel gruppo scegliamo delle persone che hanno affinità con la nostra visione del mondo o con il nostro modo di vivere; che hanno affinità caratteriali, di sensibilità o interessi comuni. Stiamo in un gruppo fino a quando ci troviamo bene e poi capita, a volte, che decidiamo di passare in un altro gruppo quando i nostri bisogni e i nostri interessi sono cambiati; ma capita anche che ci siano dei gruppi a cui facciamo riferimento per tutta la vita, nonostante i nostri cambiamenti. Il gruppo è importante, ma – come dici tu – a volte i gruppi che nascono casualmente possono far soffrire le persone. Penso allora ai gruppi delle minoranze emarginate e al fatto che si fa sempre valere una distinzione tra un “noi” e un “loro”, che non serve solo a descrivere certe analogie e certe differenze, ma purtroppo ad escludere.
Tu dici giustamente che “Gli appartenenti ad un determinato gruppo tendono a escludere o a disprezzare i membri di altri gruppi”. Il filosofo statunitense Charles Taylor (Montreal 1931) dice che tutti gli uomini hanno bisogno di riconoscimento. “Hanno bisogno” o “fanno domanda” di riconoscimento. Il bisogno di riconoscimento è alla base dei movimenti nazionalistici, mentre la semplice domanda è tipica di alcuni gruppi minoritari che vivono in una società multiculturale come la nostra. Entra dunque in gioco un problema importante che è quello dell’identità (che cos’è questo “noi” che fa pesare così tanto le differenze?).
L’identità deriva da un lungo processo di riconoscimento, ossia dopo una lunga fase di socializzazione. Esiste dunque un profondo legame tra riconoscimento e identità. (Per inciso, l’identità è - secondo Taylor - “più o meno, la visione che una persona ha di quello che è, delle proprie caratteristiche fondamentali, che la definiscono come essere umano”). Infatti non solo - come dici tu - si creano gruppi “superiori e inferiori”, ma i gruppi dominanti cercano di far prevalere la propria forza e in più inculcano anche nei soggiogati un’immagine di inferiorità (tolgono cioè riconoscimento), ed è per questo, dice l’autore, che la lotta per la libertà e l’uguaglianza deve preoccuparsi di modificare anche questa immagine.
La tesi del filosofo è che l’identità di una persona “è plasmata, in parte, dal riconoscimento o dal mancato riconoscimento o, spesso, da un misconoscimento da parte di altre persone, per cui un individuo o un gruppo può subire un danno reale, una reale distorsione, se le persone o la società che lo circondano gli rimandano, come uno specchio, un'immagine di sé che lo limita o sminuisce o umilia. Il non riconoscimento o misconoscimento può danneggiare, può essere una forma di oppressione che imprigiona una persona in un modo di vivere falso, distorto e impoverito”. [Jürgen Habermas e Charles Taylor, Multiculturalismo. Lotte per il riconoscimento, Feltrinelli 2008].
Uno stato deve consentire pari opportunità sociali a tutti e ovviamente deve fare in modo che i diritti fondamentali siano universali, ossia accessibili a tutti. Ogni persona deve poter vivere con aspettative di sicurezza, giustizia sociale, benessere, assistenza sanitaria e con i diritti politici di partecipazione. Molti sono i gruppi che necessitano di uscire dalla condizione di inferiorità o di anonimato (quando non di totale privazione dei diritti elementari): minoranze culturali, persone che lottano per l’indipendenza dal colonialismo, per la conquista dei diritti fondamentali, per il riconoscimento delle loro culture; oppure gruppi di persone oggi svantaggiate: a volte le donne, gli omosessuali, i disabili, gli asiatici, gli africani o gli stranieri più in generale. Garantire l’integrità delle tradizioni in cui si riconoscono e tutelare i loro progetti di vita deve diventare il compito di uno stato democratico, perché la distinzione non crei esclusione, rifiuto o allontanamento.
Secondo il filosofo tedesco Jürgen Habermas (Düsseldorf 1929) per evitare di far soffrire le persone, occorre creare una “comunità inclusiva” che non escluda in linea di principio nessun soggetto, perché ogni soggetto è in grado di fornire contributi importanti alla collettività; pertanto, per includere bisogna tenere conto anche degli orientamenti e dei valori delle altre persone.
Habermas parla di un’inclusione “sensibile alle differenze”. Scrive l’autore: “E la responsabilità solidale per un altro visto come uno di noi si riferisce in realtà al "noi" flessibile di una comunità che - riluttante verso ogni forma di sostanzialità - estende sempre "più in là" i suoi porosi confini. Questa comunità morale può fondarsi soltanto sull'idea negativa di eliminare discriminazione o sofferenza e di includere gli emarginati (ogni emarginato) nell'ambito del reciproco rispetto. Questa comunità - concepita in termini costruttivi - non rappresenta affatto un collettivo in cui appartenenti in uniforme debbano esaltare quanto è loro specificamente proprio. Inclusione qui non significa accaparramento assimilatorio né chiusura contro il diverso. Inclusione dell'altro significa piuttosto che i confini della comunità sono aperti a tutti: anche - e soprattutto - a coloro che sono reciprocamente estranei e che estranei vogliono rimanere” [Jürgen Habermas, L’inclusione dell’altro, Feltrinelli 2008].


Un caro saluto,
Alberto

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