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Cor-rispondenze

lunedì 7 dicembre 2009

Universi paralleli



Anni fa mi è capitato tra le mani un libro, un vecchio Urania, che mi ha regalato un appassionato di fantascienza. Si intitolava “Assurdo Universo”. Non mi sono mai piaciuti molto i racconti di fantascienza, però ho trovato in questo una visione della realtà molto particolare: la teoria degli infiniti universi. Praticamente, secondo questa teoria, la realtà non è composta da un solo universo, il nostro, ma da infiniti universi paralleli. Esiste, ad esempio, un universo totalmente identico a questo, ma nel quale io ho i capelli biondi anziché castani, oppure gli occhi azzurri o verdi. Alcuni universi sono simili al nostro, altri sono talmente diversi che l'intelletto umano non li può comprendere. Questa teoria, per quanto mi sia sembrata assolutamente assurda, mi ha dato molto su cui riflettere. Ammettendo che questa teoria sia vera, tutto ciò che in questo universo non esiste, può esistere in un altro universo; e tutto ciò che in questo universo è falso in un altro può essere vero. In pratica “tutto è possibile se si considerano tutti gli universi”. Ogni volta che ci penso mi vengono le vertigini. Se così fosse, allora tutte le nostre domande esistenziali potrebbero tradursi nelle domande: in quale universo siamo? Siamo in un universo in cui esiste un ente supremo che controlla le nostre vite oppure no? Siamo in un universo in cui l'anima è immortale oppure no? Ma, soprattutto, se tutti gli universi esistono realmente, i concetti di vero o falso valgono ancora? Qualsiasi cosa io dica, per quanto assurda, può essere vera in un altro universo. E tutti i personaggi inventati nei libri, tutte le storie inventate, diventano reali al pari di noi. Una volta sono arrivata ad un'altra conclusione. Se esistono infiniti universi, forse il compito della nostra anima non è altro che uno sperimentare vite diverse in realtà diverse, alla ricerca della perfezione. La mia vita potrebbe quindi essere un esperimento, un tentativo. La mia anima forse comincerà una nuova vita dopo la mia morte, magari in un universo totalmente diverso da questo. Non so se ciò sia vero, ma la prospettiva mi piace.
Giulia



Cara Giulia,
Possiamo incominciare con una storiella divertente. Giovanni di Salisbury (XII sec.) nel Policraticus, racconta che Alessandro Magno era talmente avido di gloria che, quando il suo compagno Anassarco gli riferì che il suo maestro Democrito parlava di un numero infinito dei mondi, abbia esclamato: “Ahimé!, me sventurato, dato che non sono ancora riuscito a impadronirmi di neanche uno di questi mondi!”. Pensa che, secondo altri ancora, si sarebbe persino messo a piangere. Ma, ovviamente, non ci fermiamo qui e cerchiamo di percorrere un sentiero tra le opere dei filosofi. Soprattutto dei filosofi antichi, perché già in Grecia alcuni autori ebbero l’idea di una pluralità di mondi. In uno dei frammenti ordinati da Diels-Kranz si legge: “Anassimandro, Anassimene, Archelao, Senofane, Diogene, Leucippo, Democrito ed Epicuro (ammettono) mondi innumerevoli, (dispersi) in varie direzioni dell’infinito”. (Cfr. Democrito. Raccolta dei frammenti, Milano, Bompiani, 2007).
Ippolito di Roma (III sec. d.C.) ad es. fa riferimento proprio al grande filosofo atomista Democrito (IV sec. a.C.) e scrive che Democrito (come Leucippo) “sosteneva […] che i mondi sono infiniti di numero e differenti per grandezza, per cui in alcuni non esistono né Sole né Luna, in altri ve ne sono di più grandi che nel nostro cosmo, e in altri ancora di più. Gli intervalli tra i mondi sono diseguali, e così da un parte vi sono più mondi e da un’altra meno, e taluni si accrescono, mentre altri sono al culmine dell’accrescimento; altri, poi, si assottigliano, cosicché da una parte nascono nuovi mondi e dall’altra spariscono. I mondi si corrompono collassando uno con l’altro. Alcuni mondi sono privi di animali, di piante e persino di umidità.”(Ippolito, Refutatio omnium haeresium, 1986).
Ma è Lucrezio (I sec. a. C.) che nel De rerum natura ci fornisce bellissime immagini dell’infinità dei mondi e parla di un nuovo volto della natura che si deve rendere pubblico (v. il secondo libro de La natura delle cose, Mondadori, 1992, pp. 155 e sgg.). “Certo, una cosa di assoluta novità si appresta a giungere alle tue orecchie, un nuovo volto della natura a manifestarsi. Ma nessuna cosa esiste tanto facile, che all’inizio risulti difficile a credersi, e ugualmente nulla esiste di così grande né di così stupefacente che, poco per volta, non smettano tutti di guardarlo ammirati”.
D’altra parte nessun uomo può credere che: “mentre in ogni direzione s’estende, sconfinato, lo spazio […] solo qui la terra e il cielo siano stati creati”. Per Lucrezio i mondi si formano per aggregazione casuale di atomi, dunque senza uno scopo, senza intenzionalità alcuna; però per lui è “necessario [ammettere] che esistono altrove tali aggregati della materia quale è questo, che l’etere racchiude in avido abbraccio”. C’è talmente tanta materia nell’universo e “di atomi la quantità è così grande, quanta non potrebbe contarla tutta una vita di un essere vivo” che è necessario ammettere che “esistono altri mondi in altre parti dello spazio, e diverse razze di uomini e stirpi di animali”.
Tra i vari esempi, Lucrezio è convinto che nell’universo nessuna cosa sia unica “che nasca isolata e sola s’accresca”, e così bisogna anche concepire l’universo stesso: “Pertanto il cielo, in simile modo, occorre ammettere – e la terra e sole luna mare, le altre cose che esistono – che non sono isolati, ma in numero, invece, che non puoi contare”.
Si esce dunque già con questi autori dal sistema aristotelico-tolemaico, anche se la cosmologia che è prevalsa dalla Grecia classica al Medioevo ha concepito l’universo come unico, chiuso e finito. In passato si pensava prevalentemente ad un solo universo esistente, limitato dal cielo delle stelle fisse a cui vennero poi aggiunti il nono cielo e il primo mobile. Fuori da questo non c’era nulla, neppure il vuoto, perché tutti gli oggetti sono nell’universo mentre l’universo non è in nessun luogo, avrebbe detto Aristotele. In qualche modo, diverso e separato dall’universo, vi era solo Dio per i cristiani. Il mondo era concepito dunque anche come finito, perché Aristotele ammetteva l’infinito solo come idea e non come realtà concreta. Era dunque un universo composto di sfere concentriche, non intese in modo ideale, ma come qualcosa di solido su cui erano fissati stelle e pianeti. Oltre alla sfera delle stelle fisse vi erano i diversi cieli: di Saturno, Giove, Marte, Mercurio, Venere, Sole e Luna. Sotto la Luna vi era la zona con i quattro elementi (terra, acqua, aria, fuoco) e la Terra immobile al centro di tutto. Il mondo degli antichi era inoltre qualitativamente differenziato in due zone. Così racconta il filosofo Giovanni Fornero: “una perfetta e l’altra imperfetta. La prima era quella dei cieli o del cosiddetto “mondo sopralunare”, formato di un elemento divino, “l’etere, incorruttibile e perenne, il cui unico movimento era di tipo circolare e uniforme, senza principio e senza fine, eternamente ritornate su se stesso. La seconda zona era quella del cosiddetto “mondo sublunare”, formato dai quattro elementi (terra, acqua, aria, fuoco), aventi ognuno un suo “luogo naturale” e dotati di moto rettilineo (dal basso verso l’alto o viceversa), che avendo un inizio e una fine dava origine ai processi di generazione e corruzione” (Cfr. Itinerari di Filosofia v. II, 2003). E più avanti scrive: “Questa visione astronomica appariva conforme non solo al senso comune, e alla sua quotidiana constatazione dell’immobilità della Terra e del moto dei cieli, ma anche alla mentalità “metafisica” prevalente, portata a concepire il mondo come un organismo gerarchico e finalisticamente ordinato e disposto”.
Lo sconvolgimento di questo modo di pensare avvenne prima con la pubblicazione dell’astronomo polacco Niccolò Copernico, De revolutionibus orbium coelestium (La rivoluzione dei corpi celesti) nel 1543 (anno in cui poi morì). Copernico riteneva la dottrina tolemaica “antieconomica”, ed errata anche perché troppo complicata e macchinosa. Pensa che si narra che Alfonso X di Castiglia (XIII sec.) abbia affermato che lui al posto di Dio avrebbe fatto girare i pianeti in modo più semplice. Per dire. Ma un altro grande autore che ha dato un enorme impulso al superamento della visione degli antichi è, nel Rinascimento, Giordano Bruno (1548-1600). Con il suo entusiasmo e il suo coraggio intellettuale ha superato anche l’idea dell’universo centrato sul sistema solare, per riproporre con determinazione l’idea della pluralità dei mondi dell’infinità dell’universo. Nell’opera De l’infinito, universo e mondi, fornisce un’importante speculazione sull’infinità dei mondi (porgo la mia contemplazione circa l’infinito universo e mondi innumerabili). Egli pensa ad una pluralità di sistemi solari con altri abitanti e pianeti come il nostro: “sono terre infinite, son soli infiniti, è etere infinito”. E quando Burchio chiede a Fracastorio se gli altri mondi sono abitati come questo, Fracastorio risponde: “Se non cossì e se non migliori, niente meno e niente peggio: perché è impossibile ch’un razionale e alquanto svegliato ingegno possa immaginarsi che sieno privi di simili e migliori abitanti”. (De l’infinito, universo e mondi, Utet, 2002, dialogo III, p. 111).
Dopo le ulteriori scoperte della scienza contemporanea e pensando a queste tematiche mi viene da ripetere quello che scrisse Pascal: « Le silence éternel de ces espaces infinis m'effraie » (il silenzio eterno di questi spazi infiniti mi spaventa), ma anche da dire, con Kant, che il cielo stellato sopra di me continua a riempire il mio animo di meraviglia.

Un caro saluto,
Alberto


Cfr. anche: Alex Vilenkin, Un solo mondo o infiniti? Alla ricerca di altri universi, Cortina Raffaello, 2007.

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