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lunedì 20 dicembre 2021

Cogito, ergo sum 3/3

 



 

Se abbandoniamo la strada del «cogito» tracciata da Cartesio –, che procede prima a mostrare l’esistenza di una «cosa pensante», poi si inerpica fino alla dimostrazione dell’esistenza di Dio, e una volta dimostrata tale esistenza scopre che Dio, in quanto «fonte della verità», garantisce che la realtà che si presenta ai nostri occhi non è effimera e simulata come quella di Matrix, ma è unica e attendibile –, ci rendiamo conto che molti filosofi e scrittori hanno utilizzato la locuzione inventata dal filosofo con infinite varianti. Dalla più antica: Dubito, ergo sum, di S. Agostino, fino ad arrivare ad Amo, dunque sono (1927), titolo del romanzo di Sibilla Aleramo (pseudonimo di Rina Faccio), la poetessa e narratrice italiana del secolo scorso che si è occupata molto della condizione femminile. Le varianti sono tante: Cogito ergo soffro, quando il pensiero amplifica il dolore: una dimensione indagata in ambito psicoterapeutico da parte di Giorgio Nardone e Giulio De Santis; Non cogito ergo digito, titolo del romanzo dello scrittore Antonio Rezza, ma che ricorda le frettolose sentenze generate sui social come reazione immediata a qualche notizia; oppure Sum, ergo cogito, del fisico Nicola Dallaporta Xydias, il quale, invertendo le parti, sottolinea come prima venga l’essere e poi il pensiero; fino a Cogito, ergo amo di Antonio Maurizio Cirigliano, ove solo la comprensione della realtà ad un livello meno egoistico e antropocentrico può disporre all’amore del prossimo e del pianeta. Al di là delle ragionevoli e intelligenti combinazioni tra verbi che vengono accostati con l’obiettivo di sollecitare nuove riflessioni, il percorso prende una piega curiosa quando viene rivisitato in chiave religiosa o semplicemente esistenziale. Il teologo svizzero Karl Barth ha riformulato il detto cartesiano alla forma passiva: non «cogito», ossia «penso», ma «cogitor», «sono pensato». L’effetto è meraviglioso: «Sono pensato, quindi esisto», oppure «sono amato, quindi esisto». Per il mondo cristiano, infatti, l’uomo è pensato e amato da Dio. Il teologo italiano Bruno Forte, in “Parola e silenzio nella riflessione teologica” scrive infatti: «Non è più possibile dire: Cogito ergo sum. Dovremmo dire piuttosto: Cogitor ergo sum; amor ergo sum. Io esisto non perché penso, non perché amo, ma perché scopro di essere pensato, di essere amato. Scopro che la mia casa non è la mia, ma è la casa dell' Altro in cui io esisto, da cui io vengo. Nell'abisso del silenzio di esistere, io scopro di essere donato a me stesso». Nel mondo cristiano l’esistenza è concepita come un dono che Dio fa all’uomo e grazie al pensiero l’uomo può scoprire l’amore che Dio ha per lui. A partire da questa fonte originaria di amore egli ricava la forza per generare altro amore nei confronti del prossimo. Accanto a questa dimensione che apre alla trascendenza se ne affianca un’altra esclusivamente umana. Sappiamo quanta energia si ricava dall’essere immaginati, pensati e amati e dall’avvertire profondamente tali sensazioni. La certezza di esistere – che consiste nell’intuire la nostra dignità e di essere importanti almeno per qualcuno – è infatti data dal riconoscimento dell’altro: ne abbiamo bisogno sia per acquisire un’identità sia per identificarci in un gruppo. L’esperienza del riconoscimento da parte dell’altro fortifica l’idea che ognuno si fa di sé, esattamente come l’esperienza del disconoscimento fa soffrire e annulla l’individuo, perché lo isola, lo emargina e lo esclude da ogni possibile condivisione. Il primo approccio compone l’identità, il secondo la nega. Una poesia di Ángel González Muñiz, poeta spagnolo del secolo scorso, tratta dalla raccolta “Aspro mondo” e intitolata “Morte nell’oblio” esprime bene questo concetto. Scrive l’autore: «So di esistere / perché tu mi immagini. / Sono alto perché tu mi pensi / alto, e sincero perché mi guardi / con occhi buoni, / con sguardo sincero. / Il tuo pensiero mi rende / intelligente e nella tua semplice / tenerezza anch’io sono semplice / e generoso. / Se tu però mi dimenticassi / io morirei senza che nessuno / se ne accorgesse. Vedranno la mia carne / vivere, ma sarà un altro uomo / – mediocre, goffo, malvagio – ad abitarla...». Ogni essere umano cresce nell’immaginazione dell’altro, se qualcuno ne avverte le potenzialità e aiuta a scoprirle. Tuttavia, la studiosa Ursula Frohne, in risposta alla diffusione delle webcam, ha teorizzato che oggi «essere è essere visti». È utile allora leggere parallelamente il libro dello psichiatra Giovanni Stanghellini, “Selfie. Sentirsi nello sguardo dell’altro”. L’autore riflette sul fatto che oggi non è più il cogito a garantire l’esistenza; egli muta il detto cartesiano in: «Videor, ergo sum», «sono visto, dunque sono», in quanto, secondo l’autore, la «fame d’esserci» viene oggi compensata dalla «bulimia dell’immagine». Facendo riferimento a Sartre, egli ricorda che «si può sentire, fare esperienza del proprio corpo in quanto ente guardato da un’altra persona». Lo sguardo degli altri diventa allora la condizione necessaria per sentire se stessi. Non siamo dunque più in grado di avvertire la nostra esistenza senza essere attraversati dallo sguardo dell’altro. È l’ultima frontiera per avere la certezza di esistere? Secondo Wendy Chun, forse no, perché nell'era dei social media «essere è essere aggiornati». La vera esistenza si avverte se si è al passo con il mondo, se si è perfettamente inseriti nel presente: informati, ammodernati. O forse, semplicemente: integrati.   

Un caro saluto,

Alberto  

 

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