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Cor-rispondenze

lunedì 18 novembre 2013

Realizzazione





Caro professore,
le persone tendono sempre a pensare molto al futuro, vedono i propri sogni realizzati e si programmano la vita. Forse però è un po’ illudersi, e una volta che le cose andranno diversamente da come le avevamo pensate, rimaniamo delusi; non è forse meglio quindi vivere il presente senza pensare a cosa accadrà dopo?
Giulia, 4D

Cara Giulia,
Quanto ascolto l’esortazione a «vivere il presente», penso sia agli aspetti fruttuosi di questo nobile obiettivo, ma nello stesso tempo avverto come rischiosa la riduzione della vita alla sola dimensione dell’attimo fuggente. Per evitare cocenti delusioni e per non subire gli esiti sfavorevoli degli eventi, gli antichi stoici ricordavano che occorre fortificare l’animo e maturare la capacità di regolare se stessi. Suggerivano pertanto misura nei progetti, accortezza nelle intenzioni e competenza sulle questioni della vita per allontanare i pericoli che derivano da mancati traguardi; perché, in fondo, sappiamo che le aspettative deluse – modeste o eccessive – generano sempre sofferenza. Se l’invito a vivere il presente implica maggiore concentrazione su ciò che accade, capacità condividere le situazioni, consapevolezza delle dinamiche interiori, recettività nelle relazioni quotidiane, sensibilità all’ambito locale e attenzione ai processi globali, allora abbiamo tutti bisogno recepire questo stimolo: sostare maggiormente nell’attimo, dilatarlo, apprezzare le esperienze e dare vigore al nostro modo di stare al mondo. In questo senso l’ancoraggio al presente consente di vivere in modo autentico. Attenzione, in fondo, deriva da “ad-tendere”, “tendere verso”. Abbiamo una doppia possibilità: tendere verso il futuro (perché è il futuro che motiva l’azione) e tendere verso il presente, la contemporaneità. Se c’è questa tensione e non siamo ripiegati su noi stessi, abbiamo una disposizione attiva nei confronti dell’esistenza. Diverso è il caso della dispersione nell’attimo, tema su cui il sociologo polacco Zygmunt Bauman (1925) ha scritto pagine estremamente efficaci. In “Vite di corsa” (Il Mulino, 2009), ad esempio, egli spiega che il tempo presente è diventato «puntillistico, ossia frammentato in una moltitudine di particelle separate». Per questo – ricordando un libro di Thomas Hylland Eriksen – egli insegna che occorre non cadere nella «tirannia del momento». Egli cita inoltre le riflessioni di due sociologi contemporanei, Stephen Bertman ed Elżbieta Tarkowska, che hanno sviluppato il concetto di «umani sincronici», che «vivono unicamente nel presente» e che «non prestano attenzione all'esperienza passata o alle conseguenze future delle loro azioni». Sì, perché se l’attenzione si concentra unicamente sul presente, e questo tempo è “puntillistico” – un aggregato di punti senza continuità –, la vita scorre da un punto all’altro senza stabilità, perché ogni punto, per definizione, è scollegato: ogni novità è pertanto attraente, ma subito superata; si vive agiti da sollecitazioni continue, pulsioni immediate, dipendenze indotte, reazioni emotive che rapidamente si dimenticano. Gli uomini si credono dunque liberi, ma vivono alienati e, scrive Bauman: «per questa ragione la vita “dell'adesso” tende a essere una vita “di corsa”». In questo caso, però, c’è dispersione e non costruzione attiva di sé, mentre l’identità di una persona richiede impegno nel tempo. E poiché per vivere bene occorre determinare se stessi, per raggiungere questo obiettivo sono necessari capacità di progetto, continuità, direzione, che richiedono l’abilità di imporsi sul tempo e non di subirne le sollecitazioni continue. Parafrasando Seneca potremmo dire: «Non fidarti della bonaccia: in un attimo il mare si agita; nello stesso giorno le navi vengono inghiottite proprio là dove navigavano tranquille». L’eccessiva concentrazione sull’attimo, che apparentemente sembra dare felicità in quanto ci fa sentire in sintonia con il mondo, può far naufragare la vita, perché una vita senza direzione è una vita di cui non possediamo il timone. La delusione, allora, non deriva dal fatto che non si avverano alcuni obiettivi – perché ogni rotta si assesta nell’itinerario – ma dalla tragica consapevolezza di aver rinunciato ad intraprendere il proprio percorso.
Un caro saluto,
Alberto

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