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Cor-rispondenze

lunedì 22 marzo 2010

La solitudine



Caro professore,
I primi pensieri che ci vengono in mente associati alla solitudine sono pensieri negativi, di tristezza, di malinconia. Secondo me la solitudine è sempre dentro di noi, noi ci sentiamo sempre soli, a volte di più altre di meno, e non riusciamo mai ed eliminarla del tutto. Perché? Anche quando siamo accerchiati da persone che ci vogliono bene ci sentiamo soli e sentiamo ancora la mancanza di qualcosa. Ci sentiamo soli dopo la perdita di un caro, la rottura di un'amicizia, di un amore, quando non troviamo più vicino a noi l'affetto di una persona che prima ci era vicina e ci donava il suo aiuto quando ne avevamo più bisogno. A volte però siamo proprio noi che cerchiamo la solitudine, lo stare da soli, quando abbiamo il desiderio di riflettere, di pensare a noi stessi, ai nostri comportamenti e ci facciamo delle domande su ciò che ci sta accadendo nella vita; quando siamo soli riusciamo a pensare senza essere condizionati dai pensieri di altri. Perché vediamo la solitudine come cosa negativa ma la cerchiamo? A volte da soli si sta meglio, riusciamo ad essere felici, a trovare ciò di cui abbiamo veramente bisogno. Altre volte però sentiamo il bisogno di avere qualcuno a fianco, qualcuno che sappia ascoltare i nostri pensieri, che ci capisca. Il nostro essere quindi vuole rimanere da solo, ma sente il bisogno degli altri; cerchiamo la solitudine, ma poi non la vogliamo. Perché?
Elena


Cara Elena,
Il filosofo Montaigne nei suoi Saggi racconta di aver conosciuto un decano di Saint-Hilaire di Poitiers ridotto a una grave forma di solitudine causata dai tormenti di una malattia che un tempo veniva chiamata “malinconia” e che oggi sarebbe probabilmente etichettata con il termine “depressione”. Racconta che quando entrò nella sua camera scoprì che: “erano ventidue anni che non aveva fatto un passo fuori”; […] “Appena una volta alla settimana permetteva che qualcuno entrasse a fargli visita; si teneva sempre chiuso in camera sua, solo, a parte un servo che gli portava da mangiare una volta al giorno, e non faceva che entrare e uscire. La sua occupazione era passeggiare e leggere qualche libro (poiché aveva qualche cognizione di lettere), ostinato quanto al resto a morire in tale condizione, come fece poco dopo” (Saggi, vol. I). Una solitudine estrema, probabilmente molto sofferta e che conduce anche alla morte: quella relazionale, prima; e quella fisica, dopo, come conseguenza. Ricordo che qualche tempo fa mi ha colpito un libro di Elie Wiesel dal titolo La danza della memoria [2008], in cui l’autore mette in relazione la solitudine con la follia. Ad un certo punto infatti parla di un uomo di nome Beinish che ha deciso di vivere da solo, forse in completa solitudine. Il protagonista del libro desidera incontrarlo e si interroga su tale opportunità. Si chiede che cosa avrebbe potuto offrirgli in un eventuale incontro quel personaggio così particolare, e pensa anche solo alla possibilità di ottenere la chiave interpretativa per comprendere quella solitudine. Poi riporta questa bella riflessione che mette in relazione solitudine, paura e follia. Scrive Wiesel: “La solitudine è una donna percossa che non ha più né la forza né la voglia di amare. La solitudine è un bambino affamato che sogna un pezzetto di pane ammuffito. La solitudine è il mendicante che non chiude occhio da giorni e notti, forse da quando è stato strappato al ventre di sua madre. Come la follia, la solitudine è la paura. Un uomo solo è un uomo che ha paura. Un uomo che vive nella paura è un uomo solo. Quando la solitudine entra in me, diventa me. La solitudine sorge all'improvviso quando solo il corpo mi appartiene, ma anche quando solo io appartengo al corpo. La solitudine trasforma la coscienza in prigione, una prigione dalla quale ho paura di uscire. Paura di non capire nulla, paura di capire tutto. Paura di amare e di non amare più. Paura di dimenticare tutto e paura di non dimenticare niente: i corpi dilaniati che si trascinano sui campi di battaglia, l'agonia lenta e implacabile dei superstiti. Paura di conoscere la fame, paura di non avere più sete di niente. Paura di morire e di vivere. Paura di avere paura. Paura di essere solo quando non c'è più nessuno. Paura di essere solo con la persona amata. C'è una paura che non è ancora morte, ma che non è più vita”.
Quando penso ad un filosofo che è vissuto solo e che ha fatto della solitudine la propria forza per esplorare l’interiorità dell’uomo, penso a Kierkegaard. Il filosofo danese ha fatto della solitudine un momento fondamentale per la scoperta dell’uomo come “singolo”, perché ha esplorato la persona nella sua unicità e irripetibilità. Kierkegaard racconta che cercava spesso la solitudine dei boschi in una grande foresta a nord-ovest di Copenaghen: “Nel Bosco di Grib c'è un posto che si chiama ‘Angolo degli Otto Sentieri’; lo trova solo chi lo cerca attentamente, poiché nessuna carta lo riporta”. […]“È come se il mondo si fosse estinto e l'unico sopravvissuto si trovasse nell'imbarazzo di non avere nessuno che possa dargli sepoltura; ovvero come se l'umanità intera avesse trasmigrato per quegli otto sentieri dimenticando uno dei suoi membri!”. Dice: “qui il silenzio e la bellezza regnano sempre” (Stadi sul cammino della vita, [1845] 2006). In questo bosco egli riusciva a trovare quel silenzio che sovente gli uomini cercano di notte. Un silenzio possibile dunque anche di giorno, nelle ore di luce e all’aperto. Il nome Otto Sentieri, però, è contraddittorio perché da quei luoghi non passava mai nessuno e dunque quei sentieri non erano altro che una “possibilità per il pensiero”. Scrive Kierkegaard: “Voi, Otto Sentieri, avete allontanato da me tutti gli uomini e non mi avete riportato che i miei pensieri”. Nella solitudine Kierkegaard indagava l’uomo e il suo rapporto con il divino: indagava le possibilità della fede e la relazione autentica con Dio. Kierkegaard dunque sfruttava la solitudine, nonostante la sofferenza che questa procura, per ascoltare la propria voce interiore e ottenere il massimo rendimento nell’elaborazione dei propri pensieri e nella stesura delle proprie opere.
Pascal era convinto che gli uomini avessero timore della solitudine e che cercassero ogni forma di svago per non sentire la condizione della propria esistenza. Scrive Pascal nei Pensieri (1669-1670): “Il re è circondato da persone che non pensano che a divertire il re, e a impedirgli di pensare a se stesso. Infatti diventa infelice, per quanto sia re, se vi pensa”. Gli uomini dunque si gettano nel fracasso, nel trambusto, tanto che, dice il filosofo, per molti uomini il piacere della solitudine è “un piacere incomprensibile”. Gli uomini infatti preferiscono essere occupati e amano meno riflettere sulla propria condizione; infatti cercano qualcosa “che li distragga dal pensare a se stessi”. La solitudine invece non deve essere fuggita, ma deve essere accolta come un momento importante per la maturità dell’individuo, come un’occasione per guardare in faccia la condizione umana. Scrive Pascal: “Noi siamo ridicoli a cercare riposo nella società dei nostri simili: miserabili come noi, impotenti come noi, non ci aiuteranno; si morirà soli”. Si nasce soli e si muore soli, nessuno si può sostituire a noi e per quanto abbiamo riflettuto o per quanti amici e persone care abbiamo attorno a noi ci sono momenti in cui siamo soli a compiere delle scelte.

La solitudine se non è scelta è una pena e procura sofferenze. Anche se l’uomo avesse tutta la natura al proprio comando e fosse in grado di ottenere tutto ciò che desidera nella vita, sarebbe sempre infelice se non potesse condividere con altri le proprie gioie. Il filosofo scozzese David Hume spiega efficacemente questa idea. Scrive Hume: “Una solitudine totale è forse il peggior castigo che ci si possa infliggere. Qualsiasi piacere languisce se non è goduto in compagnia, e qualsiasi dolore diventa più crudele e intollerabile. Qualunque sia la passione che ci muove, orgoglio, ambizione, avarizia, brama di sapere, desiderio di vendetta o concupiscenza, di tutte la simpatia è l'anima o il principio animatore; ed essa non avrebbe alcuna forza se facessimo completamente astrazione dai pensieri e dai sentimenti altrui. Se anche tutte le forze e gli elementi della natura pattuissero di servire un solo uomo e di obbedirgli; se anche il sole sorgesse e tramontasse al suo comando; se anche il mare e i fiumi scorressero a suo piacimento, e la terra producesse spontaneamente tutto quanto gli fosse utile o gradito, egli sarebbe pur sempre un infelice finché non gli si desse almeno un'altra persona con cui poter condividere la propria felicità e di cui godere la stima e l'amicizia” (David Hume, Trattato sulla natura umana, II, Sulle passioni, [1739-1740] Laterza 2008).

La solitudine è però l’occasione, come diceva il filosofo e teologo Martin Buber, affinché l’uomo si ponga “il problema dell’uomo”. L’uomo che si perde nella massa cerca di rimuovere l’angoscia, depotenziare la paura della propria condizione esistenziale; cerca infatti di eliminare l’inquietudine, allontanando l’incontro con se stesso che forse lo spaventa. Ma rimuovere la solitudine non è possibile, perché la solitudine è una condizione importante della vita. Se l’uomo allenta il proprio contatto con il mondo, entra in crisi, si mette in discussione, ascolta la propria fragilità e si sente vulnerabile. La solitudine rappresenta anche il momento che rende possibile l’apertura alla trascendenza e alla relazione con Dio. Scrive Martin Buber (1878-1965) nel Principio dialogico e altri saggi ([1984] 1997): “Ma non è un portale anche la solitudine? Non sorge a tratti, nel più silenzioso isolamento, un vedere inaspettato? La frequentazione del proprio io non può misteriosamente trasformarsi in una frequentazione con il mistero?”
La solitudine questa volta è intesa come momento di ricovero, di rifugio essenziale affinché i legami con l’altro (e con l’Assoluto nella riflessione di Buber) non si cristallizzino. Nella solitudine si recupera un senso più autentico anche nelle relazioni tra gli uomini e, forse, come intendeva Buber, la solitudine è un momento dell’alternarsi del rapporto con la vita: “una sistole e una diastole dell’anima”. Allora la solitudine si attraversa e nella solitudine si ritorna, perché la nostra vita, che si rinnova continuamente, è possibile grazie a un’oscillazione costante tra solitudine e vita attiva.
Un caro saluto,
Alberto

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