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Cor-rispondenze

lunedì 13 luglio 2009

La memoria e l'oblio


Caro professore,

Ho trovato ieri pomeriggio una scatola da scarpe, molto vecchia. Aprendola ho trovato dentro un sacco di cose: giocattoli, una foto e perfino un libro per bambini. Era la scatola dei ricordi che io e la mia migliore amica avevamo fatto dieci anni fa (più o meno), il giorno prima che si trasferisse. Mi ero dimenticata di quella scatola, e rivedendo quei pezzetti di passato mi sono messa come al solito a pensare e ripensare, e mi sono chiesta se è giusto dimenticare così una cosa che è stata importante per noi, e se allo stesso modo sia giusto aggrapparsi quasi morbosamente ai ricordi. Per esempio, perché si tiene un diario? Io penso che non si voglia dimenticare veramente, mai nulla, perché tutti i fatti accidentali, le cose brutte come quelle belle ci hanno in qualche modo plasmato, cambiato: ed è giusto dimenticare? La mente umana è costruita come un setaccio, le cose che riescono a infilarsi tra le maglie e a passare cadono nell'oblio, che può essere temporaneo o eterno, ma è dimenticanza vera, spontanea. È giusto aggrapparsi a qualcosa che per natura sarebbe destinato a passare? È bello sapere di avere un passato, ma a volte non sarebbe meglio dimenticare e basta?

Teresa


Cara Teresa,
L’uomo, scrive Nietzsche nella seconda Considerazione inattuale [1874], “si meravigliò anche di se stesso, per il fatto di non poter imparare a dimenticare e di essere continuamente legato al passato: per quanto lontano, per quanto rapidamente egli corra, corre con lui la catena”.
L'animale, secondo Nietzsche, vive in modo non storico, perché la sua vita si risolve nel presente, l'uomo invece vive sotto il peso del passato che talvolta lo schiaccia, lo appesantisce e gli impedisce di vivere. Il filosofo parla del passato come di un fardello che l'uomo porta sulle spalle: se l'uomo non riesce a dimenticare, dunque, non riesce a vivere. Nietzsche è convinto che un eccesso di storia impedisca all'uomo di vivere, e fino a quando l'uomo non riesce a liberarsi da certi legami vive come estraneo la propria vita. L’uomo, secondo Nietzsche, quasi invidia l’animale che riesce a dimenticare: “Continuamente un foglio si stacca dal rotolo del tempo, cade, vola via - e rivola improvvisamente indietro, in grembo all'uomo. Allora l'uomo dice « mi ricordo » e invidia l'animale che subito dimentica e che vede veramente morire, sprofondare nella nebbia e nella notte, spegnersi per sempre ogni istante”. Poiché l'uomo ha il dovere di seguire la propria strada, di disegnare autonomamente il proprio percorso, è quindi giusto scordare il passato, anche se cessare di ricordare vuol dire abbandonare qualcosa che è stato importante, e ognuno di noi fatica a separarsi dai propri ricordi, dalla propria storia individuale. A volte dimenticare non ci sembra giusto; perdere la memoria di ciò che un tempo è stato significativo ci sembra irragionevole e immorale. Ma, dice il filosofo: “Ci vuole molta forza per poter vivere e per dimenticare, in quanto vivere ed essere ingiusti sono una cosa sola”. Vivere ed essere ingiusti sono una cosa sola, perché per poter agire occorre lasciare fluire, anche temporaneamente, ciò che è accaduto perché la vita stessa ha bisogno di oblio. Noi siamo il risultato delle generazioni precedenti, delle loro passioni e dei loro errori, e certamente non possiamo liberarci completamente dalla catena del passato, perché ci siamo formati proprio grazie ad esso e, anche se non ne siamo consapevoli, il passato dà ancora linfa alla nostra vita. Ma per vivere occorre creatività, forza, incoscienza, e ognuno di noi avverte la necessità di lasciare spazio anche alle cose che devono venire; Nietzsche scrive infatti che c’è anche: “un diritto delle cose che devono venire”, ossia un'apertura del futuro che non dobbiamo impedire. A volte, come dici tu, percepiamo la dimenticanza come un dispiacere, come un danno, come una perdita di noi stessi e della nostra memoria, però se rimaniamo troppo legati al passato non riusciamo a crescere. “Chi non sa mettersi a sedere sulla soglia dell'attimo – scrive Nietzsche -, dimenticando tutte le cose passate, chi non è capace di star ritto su un punto senza vertigini e paura come una dea della vittoria, non saprà mai che cosa sia la felicità, e ancor peggio, non farà mai alcunché che renda felici gli altri”.
Se “per ogni agire ci vuole oblio”, c’è anche chi ha fatto della memoria un’esigenza irrinunciabile. Elie Wiesel (1928), il grande scrittore rumeno ebraico sopravvissuto all’Olocausto e premio Nobel per la pace, all’inizio del libro “L’oblio” [Garzanti, 2007] ha inserito la preghiera dí Elhanan, un padre anziano che ripete a Dio “fonte di ogni memoria”, che “dimenticare è abbandonare, dimenticare è ripudiare”. Egli chiede a Dio di non dimenticare i suoi figli, ma anche di non dimenticare ciò che è accaduto al suo popolo. La preghiera è molto bella: te ne ripropongo una piccola parte: “Dio di Auschwitz, comprendi che devo ricordarmi di Auschwitz. E che devo ricordarTelo. Dio di Treblinka, fa' che l'evocazione di questo nome continui a farmi tremare. Dio di Belzec, lascia ch'io pianga sulle vittime di Belzec. Tu che condividi la nostra sofferenza, Tu che partecipi alla nostra attesa, non mi allontanare da coloro che Ti hanno invitato nel loro cuore e nella loro dimora. Tu che prevedi l'avvenire degli uomini, aiutami a non staccarmi dal mio passato”. […] “Sappi, Dio, che non voglio dímenticarTi Non voglio dimenticare nulla. Né i morti né i vivi. Né le voci né i silenzi. Non voglio dimenticare i momenti di plenitudine che hanno arricchito la mia esistenza, né le ore di miseria che mi hanno gettato nella disperazione. Anche se Tu mi dimentichi, Dio, io rifiuto di dimenticarTi”.
Tutti dimenticano e tutti saranno dimenticati, ma il popolo ebraico non può dimenticare il proprio Dio e dunque il senso della propria appartenenza, né i milioni di morti dei campi di sterminio. In questo caso dimenticare è tradire o non essere neppure degni di essere uomini. Malkiel Rosenbaum, il protagonista del libro, ha quarant’anni ed è nato nel 1948 a Gerusalemme (ho l’età dello Stato di Israele, dice). Egli afferma che solo la memoria ha davvero importanza: “È solo la memoria che conta. La mia qualche volta trabocca. È perché pesa più dei miei ricordi personali. Avvolge e protegge anche quella di mio padre. La memoria di mio padre è un colabrodo. No, non un colabrodo. Una foglia d'autunno. Avvizzita. Bucherellata. No, piuttosto un fantasma. Non la vedo che a mezzanotte. Lo so: non si può vedere una memoria. Io posso. Io la vedo come l'ombra di un'ombra che si ritira continuamente, che si ripiega su se stessa. Ho fatto appena in tempo a scorgerla che si perde in un baratro. Poi la sento gridare, la sento gemere sommessamente. Non c'è più, ma la vedo come vedo me stesso. Mi chiama: Malkiel, Malkiel. Io rispondo: Non aver paura, non ti lascio. Un giorno, non chiamerà più”.


Malkiel diventa il depositario della memoria del padre e del suo popolo, anche quando il padre non sarà più in grado di ricordare quasi nulla, quando avrà dimenticato quasi tutti i nomi dei suoi compagni morti e le terribili sofferenze degli anni della guerra. Malkiel ha dunque una responsabilità: non ha solo i propri ricordi, ma ha una memoria più grande da riprendere, da accogliere e da far rivivere.
C’è una parte che amo molto in questo libro: l’ebreo Malkiel si innamora di una tedesca. Ad un certo punto i due sono a Berlino, Malkiel ripensa a suo padre e diventa malinconico. Lei se ne accorge e gli dice: “È perché non voglio dimenticare nulla che ti amo; ed è perché tu devi ricordarti di tutto che non puoi amarmi”. Senza oblio la vita sarebbe impossibile; solo l’amore può, contenendo la memoria, vincere l’oblio e consentire di continuare a vivere.
Ti riporto il passo che trovo bellissimo:
Così scrive Wiesel: “I due amanti colmarono l'abisso che separava l'ebreo dal tedesco, la promessa dalla minaccia, la felicità dalla sofferenza. Insieme sfidavano il destino conferendogli un volto innocente, il volto sorridente della riconciliazione, se non addirittura del perdono. Mano nella mano, giravano per le strade illuminate e animate dell'ex capitale del Terzo Reich, si fermavano davanti alle vetrine eleganti, visitavano i musei, i giardini pubblici, le biblioteche, ammiravano i quartieri ricostruiti, applaudivano agli spettacoli e ai concerti, ridevano con gli scolari in cui si imbattevano la mattina presto o nel tardo pomeriggio. Era talmente semplice attirare la felicità; bastava prescindere dal passato, voltar pagina. Per essere contento, Malkiel doveva soltanto non pensare a suo padre. Ma... ci pensava. Ancor più di prima. L'uomo che gli cambiava il denaro in banca, dov'era durante la guerra? E il funzionario che gli spiegava la politica urbana di Berlino, che età aveva nel 1943? Era abbastanza vecchio per aver potuto servire nelle unità speciali delle ss? E Inge... aveva dei genitori? Chi erano? Lentamente, gradatamente, Malkiel senti che la sua felicità si sgretolava. Inge finì con l'accorgersi del cambiamento. Volle vederci chiaro. Si tratta di mio padre, confessò Malkiel. Mio padre mi impedisce di dimenticare. E, paradossalmente, lei diede ragione a Elhanan: Lo so, disse a Malkiel, non bisogna dimenticare nulla. È perché non voglio dimenticare nulla che ti amo; ed è perché tu devi ricordarti dí tutto che non puoi amarmi. Intelligente, Inge. Onesta, esigente. È perché io penso a tuo padre, disse lei a Malkiel, e al suo, e a tutti i padri ebrei che i nostri padri hanno assassinato che ti amo, che ti amo d'un amore che non può che essere sterile e senza futuro. Confuso, sollecitato da troppi richiami diversi, Malkiel piombò nella malinconia”.


Un caro saluto,

Alberto

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