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Cor-rispondenze

lunedì 18 ottobre 2010

L'onnipotenza di Dio


Caro professore,
io sono una ragazza di famiglia di religione musulmana.
La mia famiglia è molto tradizionalista, molto credente. Io, invece, a differenza di loro ho un problema che mi "perseguita" da qualche anno:
io, a differenza della mia famiglia, in Dio non credo molto. Per essere precisi non credo nella sua onnipotenza.
Sarà forse che i miei genitori alla mia nascita e infanzia non erano religiosi quanto lo sono ora.
Un tempo mi consideravo atea, ma poi ho cambiato idea, sarà forse "l'influenza" che mi hanno trasmesso loro.
Tornando alla cosiddetta onnipotenza di Dio; secondo me Dio, creando l'uomo, l'ha lasciato lì, responsabile delle sue azioni, fino alla morte.
La mia domanda è: Dio esiste? ma la più importante è: Dio ha perso l'onnipotenza?
Maryam


Cara Maryam,
Venire al mondo” non significa semplicemente “nascere”. Le espressioni “venire al mondo” o, “venire alla luce”, implicano che, insieme all’ingresso nel mondo di un bambino che inizia la vita, vengano alla luce anche tutte le cose e, insieme alle cose, il senso che una certa parte del mondo attribuisce ad esse. Ogni persona nasce in una famiglia (credente o meno) che fissa i significati di ciò che si deve conoscere, in una tradizione che organizza un sistema di valori, in una cultura che orienta le aspettative e costruisce i concetti con cui le persone interagiscono, ossia costruisce lo sfondo in cui le persone si comprendono e desiderano essere comprese. La religiosità o meno della famiglia influenza certamente la possibilità di avere fede o meno. Affermi di credere in Dio, e ti poni il problema della sua “onnipotenza”. Metti in relazione la riduzione dell’onnipotenza di Dio con un aumento della libertà e della responsabilità dell’uomo (“creando l'uomo, l'ha lasciato lì, responsabile delle sue azioni, fino alla morte”). Ma diminuzione di onnipotenza, riduzione di potere, contrazione di forza del divino, non portano forse al un venir meno della rilevanza di Dio stesso, ad una sua eclisse, al suo oscuramento? Ed è per questo che probabilmente giungi al termine chiedendoti: “La mia domanda è: Dio esiste?”.
Ora concentriamoci sull'idea di onnipotenza divina.
Intanto chiediamoci perché nella storia si è considerato Dio come “onnipotente”.
Con Tommaso d’Aquino e poi con Spinoza la potenza è intesa come potenza proporzionata al grado di essere di ogni ente, ossia di ogni cosa del mondo: maggiore è il grado di essere, maggiore è la potenza. “Poter non esistere è impotenza, e viceversa poter esistere è potenza”, scriveva Spinoza nell’Etica (1677). Poiché (almeno secondo la logica del passato) è necessario che vi sia una causa di tutte le cause (pensa all’effetto del domino dove una pedina ne muove un’altra: ci deve essere un inizio), questa non può che essere anche causa di sé. Eternità in atto (per Tommaso), causa di sé (per Spinoza), sono dunque le caratteristiche che consentono di intendere l’infinita potenza di Dio. Così Dio nella storia è stato inteso come causa sui, causa di sé, dunque potenza assoluta. Scrive Spinoza: “quanta più realtà spetta alla natura di una cosa, tante più forze essa ha da se stessa per esistere; e perciò l'ente assolutamente infinito, cioè Dio, ha da se stesso una potenza di esistere assolutamente infinita, e perciò assolutamente esiste”.
La mia potenza di uomo è limitata, quella di Dio – che non deriva da altra causa – non è affatto limitata; dunque Dio è onni-potente. Anzi, Spinoza dirà anche che: “La potenza di Dio è la sua stessa essenza” e che non si può pensare, ad esempio, che con la creazione sia diminuita, anzi occorre pensare che tale potenza sia infinita, dunque inesauribile. La potenza di ogni uomo, anche del più grande genio, è sempre limitata: dalla materia, dalla cultura, dalla condizione fisica, mentre la potenza di Dio, che non è delimitata da nulla, è pertanto potenza infinita. Pur nella diversità delle due visioni del mondo, tra Tommaso e Spinoza, la visione dell’onnipotenza di Dio è per alcuni aspetti analoga. D’altra parte perché dovremmo pensare che ciò che è infinito (se esiste) debba avere una potenza limitata? E poi, limitata da che cosa? Quindi è più facile pensare che l’infinito abbia potenza proporzionata alla propria natura, ossia infinita.
Beh, in verità, in passato è già stata pensata una limitazione della sua potenza: qualcuno scriveva che nemmeno Dio può far sì che due e due non facciano quattro; oppure qualcun altro riferiva che neppure la potenza di Dio può cancellare quello che ci è successo nella vita. Su questa strada il professor Elie Wiesel, premio nobel per la pace, in un intervento per la Celebrazione del Giorno della Memoria 2010 al Parlamento italiano, riferendosi all’Olocausto ha affermato: “Sì, ciò che è stato fatto non può essere annullato, neanche Dio può annullare ciò che è stato fatto”.
Un importante filosofo contemporaneo, Hans Jonas (1903-1993), affronta questo problema in un volumetto dal titolo Il concetto di Dio dopo Auschwitz, [Il Melangolo 1989, 1997]. E ritiene che dopo quello che avvenne nei campi di sterminio occorre “ripensare radicalmente Dio”, lasciando cadere alcuni concetti che una lunga tradizione ci ha consegnato. D’altra parte o si accetta l’annuncio di Nietzsche “Dio è morto”, o si intraprendono nuove vie per interpretare il concetto di Dio. Hans Jonas sceglie questa seconda strada. Secondo Hans Jonas ad Auschwitz Dio “ha manifestato un aspetto della propria essenza che l’uomo non aveva colto“. Quale aspetto? Nella seconda parte del suo scritto suggerisce l’idea di un Dio che soffre e diviene con il mondo e con l’uomo, mentre nella terza parte riflette sugli attributi divini che la tradizione ha attribuito a Dio: bontà infinita, onnipotenza e comprensibilità da parte dell’uomo.
Ma Dio non si prende cura del mondo e dei suoi figli? Secondo l’autore Dio non si prende cura come un mago che interviene per modificare quello che fanno gli uomini, ma probabilmente per una scelta imperscrutabile: “decise di rimettersi al caso, al rischio, e alla molteplicità infinita del divenire. E lo fece in modo totale, senza riserve: abbandonandosi all'avventura dello spazio e del tempo, la divinità non tenne nulla per sé; nessuna sua parte rimase indenne e incontaminata, per poter governare, dirigere e da ultimo garantire dall'al-di-là l'errabonda metamorfosi del suo destino nella creazione”. Questa è una riflessione ragionevole: invece di sorvegliare il mondo e gli uomini come burattini, avrebbe deciso di rischiare per amore della libertà anche se stesso.
Torniamo ora ai tre attributi divini citati (bontà infinita, onnipotenza e comprensibilità). Dopo Auschwitz, scrive l’autore “dobbiamo affermare con estrema decisione che una Divinità onnipotente o è priva di bontà o è totalmente incomprensibile”. Non possiamo però pensare che Dio non sia buono, allora dobbiamo riflettere sugli altri due concetti. Possiamo pensare che Dio sia buono nonostante l’esistenza del male, solo se lo pensiamo come “non onnipotente”. In molte occasioni della storia Dio infatti “non interviene”. Jonas pensa che non intervenga, non perché non lo voglia, ma perché non sia in condizione di farlo: “Concedendo all'uomo la libertà, Dio ha rinunciato alla sua potenza”, scrive infatti l’autore. E questo assomiglia molto a quello che hai intuito tu nella tua lettera. Decidendo per la libertà e la responsabilità degli uomini, ha dovuto rinunciare alla sua potenza (allora torna ad essere un Dio comprensibile). Secondo l’autore, come nel caso di Giobbe, Dio soffre in silenzio, ma lascia all’uomo la libertà. Solo dalla libertà infatti può nascere la responsabilità.
Vale certamente la pena approfondire la bellissima lettura del testo di Hans Jonas.
Un caro saluto,
alberto

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