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Cor-rispondenze

lunedì 20 gennaio 2014

Serve così tanto coraggio per guardare la vita così com’è?


 
Caro professore,
«Perché la vita umana è perpetua illusione?» Ho letto questa domanda sul libro di filosofia, essa riguardava la tesi di Pascal riguardo all’“amor proprio”, una “difesa” che l’uomo attiva inconsapevolmente, perché non riesce a sopportare la sua situazione di essere intermedio tra l’infinitamente grande e l’infinitamente piccolo. Anche Cartesio ha sostenuto che la nostra vita avrebbe potuto essere solo un sogno, un’illusione. Com’era scritto sul testo, la vita umana è perpetua illusione: dall’illusione della felicità, a quella di un’altra vita dopo la morte, a quella di non essere soli nell’universo o al genio maligno di cui parlava Cartesio. Ma perché l’uomo deve costantemente nascondersi dietro un qualcosa o un qualcuno che non è reale? La realtà è davvero così dura? Fa davvero così paura? Come possiamo saperlo se fin da quando la nostra esistenza è iniziata ci siamo chiusi in una bolla invisibile di illusione? C’è al mondo qualcuno che vede la realtà senza andare a cercare un altro modo, tempo o spazio per vederla e viverla? Qual è il modo di vedere quello che siamo senza filtri imposti dalla società, dalla religione o semplicemente da noi stessi? Grazie.
Sarah, 4D

Cara Sarah,
Pascal parla di «perpetua illusione» nei rapporti umani, perché segnala che gli uomini tendono all’adulazione e all’inganno reciproco: si lusingano la persone da cui si possono trarre benefici e si criticano coloro che vengono percepiti come antagonisti. Infatti, egli alla fine conclude dicendo: «Sono sicuro che, se tutti gli uomini sapessero che cosa si dicono gli uni degli altri, non ci sarebbero quattro amici al mondo». Sì, gli uomini raggirano il prossimo e sovente si ingannano, mettono in atto meccanismi di difesa per farla franca o ripongono male l’attenzione su ciò che procura loro felicità, si attribuiscono più meriti di quanti ne abbiano realmente e addossano colpe ed errori al prossimo. L’antropologo Robert Trivers in “La follia degli stolti” (Einaudi 2013) racconta che nel 1977 a San Francisco un uomo, che si era schiantato con la macchina contro un palo telefonico, disse alla polizia: «Il palo del telefono si stava avvicinando. Stavo appunto cercando di scartare per evitarlo quando ha colpito la parte anteriore dell'auto». Sembra una barzelletta, ma la responsabilità attribuita al palo non è diversa dalle scuse improbabili che leggiamo sui quotidiani prodotte da politici, uomini di potere e uomini comuni. Ma ci sono illusioni più profonde, che coinvolgono non solo il destino personale, ma quello di una collettività. Alcuni filosofi, chiamati «maestri della scuola di sospetto», come Marx, Nietzsche e Freud, più di altri hanno fatto riflettere gli uomini sulle loro illusioni: Marx ha insegnato a considerare l’economia come la struttura che condiziona la politica, l’arte, la filosofia e il diritto; Nietzsche ha mostrato come nascono i valori e che dietro di essi si cela la volontà di potenza dell’uomo, e Freud, indagando l’inconscio, ha rivelato che l’uomo non ha il completo controllo su di sé. La realtà sarà anche dura, ma proviamo un certo piacere nel manipolarla. Così dicono gli antropologi che, come Robert Trivers, ritengono che inganno e autoinganno siano strategie evolutive per la sopravvivenza delle specie. Non solo dell’uomo, dunque. Anche i batteri, le piante, gli insetti e molti animali ingannano per sopravvivere, anche solo mimetizzandosi con l’ambiente. Gli uomini si ingannano in modo consapevole o involontario e filtrano la realtà in modi raffinati. Inconsciamente selezioniamo e modifichiamo i ricordi, ci inganniamo sulle nostre reali intenzioni e su quelle degli altri, reprimiamo i pensieri, evitiamo alcune informazioni e ne cerchiamo altre, produciamo false narrazioni storiche. L’inganno è un po’ dappertutto, nella vita relazionale, nella politica internazionale, nelle ideologie sull’uomo, nelle forme di potere e nella pubblicità, persino nella medicina (vedi il progetto Stamina o l’effetto placebo). C’è un modo per rimanere vigili e non precipitare incautamente nell’errore? Sì, forse c’è, è quello della cultura e dell’ascolto anche di ciò che non condividiamo. Le differenze, per quanto creino dissonanze cognitive e un certo iniziale fastidio, aiutano ad essere meno rigidi, e ci permettono di comprendere – come diceva Pascal – che spesso scambiamo la verità con le abitudini.
Un caro saluto,
Alberto

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