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Cor-rispondenze

lunedì 8 giugno 2015

Una scarsa empatia





Caro professore,

È normale che io non riesca a provare empatia verso il prossimo, principalmente verso coloro che commettono atti indegni? Per esempio, quando sento notizie di persone che commettono omicidi non provo emozioni di dispiacere verso la vittima, ma mentalmente mi avvicino all’assassino. A volte provo un certo senso di piacere nel vedere il “decadimento” della civiltà umana, per il semplice fatto che non mi fido dell’uomo in sé, infatti, se mi trovassi con il coltello dalla parte del manico non mi farei problemi a fare del male, ma mi tengo. Questo fa di me uno psicopatico?

Ivan, II C


Caro Ivan,
Il celebre psicologo Daniel Goleman nel libro “Intelligenza emotiva” (1994) ha scritto che «La psicopatia, ossia l'incapacità di sentire empatia o compassione di sorta, e anche rimorsi di coscienza, è uno dei disturbi emozionali più sconcertanti». È sconcertante non provare empatia, altro che normale. Certo, Sigmund Freud aveva parlato in “Al di là del principio di piacere” (1920) di due pulsioni proprie dell’uomo: una pulsione di vita (amore, Eros) e una pulsione di morte (Todestrieb), una spinta alla distruzione e all’aggressività che spezza i legami stabiliti da Eros (personificata nella divinità Thanatos). E aveva invitato a considerare nell’uomo non solo la capacità di costruire legami, ma anche quella di polverizzarli. Forse in questo senso comprendo il tuo piacere nel contemplare il “decadimento” della civiltà: perché dalla distruzione si aprono altri scenari possibili. Ma non provare empatia è ancora diverso dal desiderio di distruggere. Detto questo, io non penso che tu sia uno psicopatico in senso stretto, perché un vero psicopatico è un uomo le cui onde cerebrali non registrano differenza tra una parola neutra come “sedia” e una parola con forte carica emotiva come “uccidere” (vedi Goleman). Credo piuttosto che tu abbia una capacità di sentire l’altro ancora superficiale e immatura. O che tu non riesca ancora a distinguere efficacemente tra finzione e realtà. Una certa abitudine ai videogiochi che innescano scene violente, dove è facile devastare e uccidere, massacrare o picchiare selvaggiamente può favorire l’incapacità a discernere tra immaginazione e vita. Ma c’è differenza tra il godimento per l’adrenalina attivata dalla situazione fantastica e l’assenza di partecipazione emotiva per ciò che accade ad un tuo simile. Ti ricordo che i ricercatori hanno messo il luce che manifestazioni di empatia sono presenti in tutti i mammiferi, e gli uomini – che hanno una corteccia cerebrale più sviluppata – sono maggiormente predisposti all’empatia. Gli studiosi ricordano che i bambini appena nati sono in grado di riconoscere il pianto di altri neonati e da questo vengono indotti a piangere; un bambino di 2 anni strizza gli occhi per il disagio quando vede un compagno che soffre:  di solito gli si avvicina, gli offre un giocattolo, lo accarezza o lo accompagna dalla madre (Rifkin, 2010). Ma senza empatia dove si va? Senza empatia non si comprende il mondo e non lo si può amare. E se non riesci ad amare qualcosa non te ne curi, così rimani indifferente alla sua distruzione. Se non si comprendono gli uomini non li si può rispettare. C’è certamente una predisposizione genetica all’empatia, ma generalmente è attraverso la cultura che sviluppiamo la capacità di sentire l’altro. Un film d’amore affina l’empatia, un romanzo accresce la capacità di sentire le emozioni, di interpretare i sentimenti. Le testimonianze dei nonni che raccontano le loro vite fatte di privazioni e di sofferenze ci permettono di sintonizzarci meglio con loro. È attraverso l’empatia che diventiamo umani, non attraverso il patrimonio genetico o l’appartenenza alla specie. Partecipare alla sofferenza e condividere le emozioni agevoleranno le relazioni con i tuoi compagni e con la tua (futura) fidanzata. Se non ti sforzi di immedesimarti nell’altro come pensi di comprendere la sensibilità di chi sta accanto a te? La ragazza di cui ti innamorerai ti troverà privo d'interesse. Dirà che sei banale e che non la capisci. Sì, perché la comprensione dell’altro non passa attraverso l’analisi concettuale, ma attraverso la mediazione empatica. Per non avvicinarti solo all’assassino, ma anche alla vittima, devi modificare il tuo punto prospettico e passare dall’osservazione esterna della vita all’osservazione interna. Le rughe sulla fronte sono ciò che il corpo rivela esteriormente, ma se sai guardare ti raccontano un’esistenza scolpita dal sole, dal lavoro o dalle preoccupazioni. Una schiena incurvata ti può far sorridere o ti può rivelare la fatica di una vita intera. Sulla scena di un omicidio continuerai a vedere nella vittima solo un corpo senza vigore, adagiato su un pavimento in una posizione più o meno innaturale. Potrai contare le pugnalate, osservare i punti dove si è riversato più sangue e gli oggetti presenti nella stanza. Oppure potrai immedesimarti nella vita relazionale di quella persona. Potrai comprendere il dolore dei suoi famigliari e delle persone che amava e che la amavano. I tedeschi chiamano questa capacità “Einfühlung”. “Ein” significa “dentro” e “Fühlung” è un “contatto”, deriva dal verbo “fühlen”, “sentire”, come il “feeling” inglese. Immedesimarsi è sentire l’altro dentro. E questo è capire. Allora potrai persuaderti che certi atti sono indegni e difficilmente ti identificherai con chi li compie.
Un caro saluto,
Alberto

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