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Cor-rispondenze

lunedì 16 ottobre 2017

Il linguaggio e il pensiero


Caro professore,
Non so bene perché, ma quando una persona conosce più di una lingua essa tende a reagire in modo differente alle situazioni a seconda della cultura o del linguaggio che parla. È possibile che il solo pensare in una data lingua condizioni il pensiero all’interno della cultura e della società ad essa collegate?  L’ipotesi Sapir-Whorf avalla questa teoria. Qual è la sua opinione al riguardo? In che misura e fino a che punto la lingua può influenzare le azioni e la personalità di un soggetto? La prego di farmi conoscere il suo punto di vista. Grazie.
Heidi, 18 anni


Cara Heidi,
Per far comprendere a tutti i lettori il motivo di una domanda così complessa, devo raccontare qualcosa di te. Poiché tuo papà è americano e tua mamma svedese, parli abitualmente sia l’inglese sia lo svedese, e – per qualche ragione che mi sfugge – forse per motivi di amicizia o per il puro piacere di conoscere, hai imparato come prima lingua straniera il giapponese, che ora parli perfettamente, tanto che “chatti” in giapponese con le tue amiche sparse per il mondo. Ora ti trovi in Italia per una nuova esperienza e al Liceo di Cuneo dovrai studiare l’italiano e il francese. La domanda che hai posto è dunque legata al tuo vissuto e alla tua versatilità linguistica che ti permettono di cogliere questi problemi. La domanda è davvero bella ed è vero che i due linguisti e antropologi americani Edward Sapir e Benjamin Whorf  hanno proposto nel secolo scorso una importante teoria a questo proposito. Torniamo alla domanda: usare una grammatica diversa, quindi una struttura diversa, per descrivere una certa situazione, modifica il modo di comprendere quella situazione? La lingua (struttura linguistica) ha la possibilità di influenzare la visione del mondo? Il flusso del pensiero che si incunea in una intelaiatura linguistica piuttosto che in un’altra influenzerà la personalità, le convinzioni e le azioni di una persona? Il linguaggio si limita a narrare il pensiero, a trasportarlo, o strutturandolo lo altera producendo nuovi e inaspettati sensi? Beniamin Lee Whorf, ha scritto: «Il sistema linguistico di sfondo (in altre parole la grammatica) di ciascuna lingua non è soltanto uno strumento di riproduzione per esprimere idee; ma esso stesso dà forma alle idee, è il programma e la guida all'attività mentale dell'individuo, dell'analisi delle sue impressioni, della sintesi degli oggetti mentali di cui si occupa. La formulazione delle idee non è un processo indipendente, strettamente razionale nel vecchio senso, ma fa parte di una grammatica particolare e differisce, in misura maggiore o minore, in differenti grammatiche» (“Linguaggio, pensiero e realtà”, Boringhieri, Torino).  C’è stato un momento in cui questa teoria è stata alla base del relativismo culturale, ossia dell’idea che a ogni latitudine strutture linguistiche diverse potessero modellare i  pensieri in modo così differente, da rendere intraducibili e inconfrontabili i valori di diverse culture. O, come ricorda il sociologo francese Raymond Boudon, poiché «il pensiero è talmente dipendente dalla lingua […] le comunità parlanti lingue diverse non possono affatto comunicare fra di loro» (“Il senso dei valori”, Il Mulino).  È ancora valida oggi questa teoria?  Le tesi di Sapir-Whorf sono confutate dal neuroscienziato cognitivo americano Steven Pinker (“L'istinto del linguaggio”, Mondadori). Egli ritiene che l’identificazione del pensiero con il linguaggio sia «un’assurdità convenzionale». Riferisce ad esempio che tutti abbiamo fatto esperienza di pronunciare o di scrivere una frase, per poi renderci conto che non esprimeva esattamente quello che volevamo dire. Scrive l’autore: «E se abbiamo quell'impressione, ci deve essere qualcosa “che intendevamo dire” che è diverso da quanto abbiamo detto». Sembra, dunque, che sia il pensiero a condizionare il linguaggio e non viceversa. Ma Pinker ricorda anche che quando ascoltiamo una conferenza o leggiamo un libro di solito ricordiamo il succo e non le parole esatte. Egli si chiede allora che cosa sia questo “succo” che ovviamente non è l’insieme dei vocaboli. Se poi i pensieri dipendessero dalle parole sarebbe impossibile creare parole nuove. Esistono poi forme di pensiero non verbale: ricorderai che molti scienziati sono arrivati alla soluzione dei loro problemi per mezzo di rappresentazioni visive: James Watson e Francis Crick scoprirono la doppia elica del DNA grazie alle immagini. Potremmo pensare alla musica: un pensiero che non scorre nel linguaggio verbale ma crea strutture in cui manifestarsi. Ma anche gli scrittori non si lasciano ingabbiare dalla tradizione e infrangono le strutture linguistiche per creare nuove possibilità di espressione. Non è il linguaggio a determinare i valori o i pensieri. Le parole possono essere ambigue, i pensieri che riconoscono le ambivalenze no. Paolo Legrenzi ne “La mente” (Il Mulino) scrive:  «L'idea di base era che i processi cognitivi fossero influenzati dal linguaggio e dal contesto sociale. Si pensava, ad esempio, che persino i lessici dei colori influenzassero la percezione dei colori stessi. Ricerche accurate hanno dimostrato che questa ipotesi è infondata. Linguaggio, percezione, memoria e pensiero condividono meccanismi universali. In sostanza, dal punto di vista del funzionamento di base della mente umana, tutti gli uomini sono molto simili».
Un caro saluto,
Alberto

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