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Cor-rispondenze

lunedì 12 novembre 2018

Giusto o sbagliato?



Caro professore,
ultimamente mi capita spesso di pensare ai concetti di giusto e sbagliato, alla differenza di questi due opposti che ogni tanto fatico distinguere. È un po’ difficile da spiegare a parole, ma mi capita spesso di credere di aver fatto la cosa giusta (senza neanche doverci pensare troppo) e poi scoprire che chi mi sta vicino non si sarebbe mai comportato come me. Ecco… non riesco a capire come sia possibile che la concezione di “giusto” e “non giusto” possa essere completamente diversa da una persona all’altra, pur parlando di persone strettamente legate, affini e della stessa età. È possibile che esista qualcosa di indiscutibilmente “giusto” dal punto di vista di chiunque?
Marianna, 3 alfa



Cara Marianna,
Chiarire i motivi che spingono l’uomo ad agire è da sempre un obiettivo del pensiero filosofico: sia della riflessione etica (scegliere i comportamenti migliori per vivere una vita buona) sia di quella politica (scegliere ciò che occorre condividere per vivere bene insieme). Quante volte vorremmo sapere qual è l’azione opportuna da compiere, il comportamento appropriato da adottare, la parola esatta da pronunciare. Vorremmo che “giusto” e “sbagliato” fossero chiari e univoci. Purtroppo ci rendiamo conto che né le affinità caratteriali né l’essere coetanei escludono orientamenti valutativi diversi. E a volte il problema non è facile da risolvere. Sappiamo, ad esempio, che rubare è sbagliato. Consideriamo tuttavia questi esempi. In “Fahrenheit 451”, il famoso romanzo di fantascienza scritto da Ray Bradbury nel 1953, il protagonista Guy Montag è un pompiere. Nel futuro congetturato dall’autore, i pompieri non hanno più la funzione di spegnere gli incendi, ma quella di dare fuoco alle case che contengono dei libri. Guy Montag, tuttavia, piano piano ruba qualche opera dalle abitazioni per sottrarla alla distruzione. Allora, rubare è ancora sbagliato? Per il regime che si è instaurato, certamente sì; per l’umanità, che grazie alla cultura umanizza gli individui, no. Qualcosa di analogo accade nel romanzo di Zusak Markus, “Storia di una ladra di libri”. Qui è una ragazza, Liesel Meminger, a rubare i libri che i nazisti hanno inviato al rogo; li estrae furtivamente da cataste di libri dati alle fiamme. Ruba un libro, ma lo salva. Allora l’azione che ci sembrava sbagliata in un contesto, in una situazione diversa ci appare corretta e opportuna. Cambia lo sfondo e varia anche il significato delle azioni. Spesso non è tanto importante l’atto che si compie, ma l’intenzione con cui lo si compie. Così, a volte, pare che sia proprio l’intenzione a rendere giusta un’azione. Protagora, un sofista del V sec. a. C., ci ha insegnato che non è facile discriminare tra “giusto” e “sbagliato” quando ha affermato che «l’uomo è misura di tutte le cose». Egli intendeva dire che i valori sono determinati dagli uomini e dalla loro storia personale e collettiva. Con la parola uomo contemplava probabilmente tre elementi: la persona singola (ognuno ha in fondo gusti personali differenti), le culture in cui gli uomini vivono (per i Traci il tatuaggio alle fanciulle era considerato un ornamento, in altre culture una pena per i colpevoli), e la specie umana (guardiamo la realtà da uno specifico punto di vista e diamo valore a ciò che interessa soprattutto alla nostra specie). La matassa sembra difficile da dipanare, tanto che ciò che è considerato vero in una cultura può essere ritenuto erroneo in un’altra. Il problema è che se non si riesce a trovare un criterio comune a cui affidarsi, si rischia di cadere nel relativismo. Il relativismo ha sempre preoccupato tutti i filosofi; nell’antichità, soprattutto Socrate e Platone. Perché anch’essi si sono chiesti: c’è «qualcosa di indiscutibilmente giusto”»? Perché se non vi fossero criteri per giudicare le scelte divergenti, sarebbe molto difficile vivere insieme e approvare delle regole comuni, perché ognuno riterrebbe legittimi solo i propri valori. Si è usciti da questa difficoltà? In parte sì. I valori che consentirebbero a tutti una vita buona sono quelli assunti nelle varie dichiarazioni dei diritti e nelle costituzioni. Per agevolare l’accordo sui valori imprescindibili della convivenza, alcuni filosofi moderni (Hobbes, Locke e Kant) e il filosofo contemporaneo John Rawls (“Una teoria della giustizia”, 1971) hanno proposto la nozione di “velo d’ignoranza”. Gli uomini dovrebbero ragionare in astratto sui valori, evitando ogni interesse individuale o privato. Ignorando la loro condizione futura nella società – se saranno bianchi o neri, ricchi o poveri –, gli uomini dovrebbero riuscire più facilmente a mettersi d’accordo su ciò che è giusto. Tuttavia, anche quando si sono stabiliti dei parametri, i vari concetti di “giusto” potrebbero entrare in conflitto fra loro. “Dite sempre la verità” e “Non danneggiate i sentimenti di una persona” possono creare un cortocircuito. Possiamo pertanto essere in grado di seguire una regola (giusta), solo a costo di violarne un’altra (anch’essa giusta). E quando due idee di “giusto” sono in conflitto, non possiamo più fare affidamento alle nostre intuizioni, ma come dice il professore di Oxford Richard Hare, dobbiamo usare un criterio utilitaristico per capire quale regola andrà seguita. La morale della storia è che non è affatto facile decidere della morale. E su questo c’è, forse, un consenso universale.
Un caro saluto,
Alberto


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