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Cor-rispondenze

lunedì 21 ottobre 2019

Alla stessa tavola


Famiglia multi-etnica che gode Natale a tavola — Foto stock

Caro professore,
Sono sempre stata molto critica nei confronti degli immigrati, in particolare dei “moru” (mori) come li chiamo io. Mi chiedevano se avessi bisogno di una mano con le borse della spesa fuori dal supermercato e non li consideravo minimamente; li incontravo per strada e se i nostri sguardi si incrociavano quasi mi facevano paura. Vendevano le solite collanine portafortuna in spiaggia e li mandavo via; li vedevo chiedere l'elemosina davanti alla chiesa e mai una volta che io abbia pensato di lasciar loro il resto del gelato. Credo che ognuno di noi sotto sotto sia razzista. Quante volte ho sentito dire: «vengono qui e ci rubano il lavoro», «arrivano e portano criminalità», o addirittura «non potevano starsene dov’erano?». So che è una cosa brutta da dire, ma noi ci sentiamo superiori. Pensiamo di poter fare cosa ci pare di questi poveri immigrati. Apriamo, chiudiamo i porti, sbarriamo le frontiere, li affidiamo a chi più fa comodo allo Stato, e loro, naturalmente, indifesi e speranzosi seguono tutto quello che il paese ospitante decide sia giusto. Era una sera come tante. Allenamento, aperitivo con amiche, arrivo a casa stanca morta e taac… Due persone che non avevo mai visto in vita mia erano sedute al tavolo e stavano mangiando il solito riso alla parmigiana preparato da mio padre con il Bimby, la sua specialità. Subito pensai: «ma io lui l'ho già visto» e mi è bastato incrociare i suoi occhi per riconoscerlo: era il senegalese che chiedeva l'elemosina il giovedì al mercato. Lì per lì ero imbarazzata. Quando lo vedevo in centro a Borgo San Dalmazzo mi sembrava povero e indifeso; qui invece, in casa mia, eravamo allo stesso livello. L’unica cosa che ci differenziava era il colore della pelle. All'inizio ero un po’ taciturna, mi facevo i fatti miei. Non sapevo neanche se sapesse parlare l’italiano. Con l’evolversi della serata capii che una semplice conversazione con lui mi avrebbe potuto aprire la mente. Non potevo starmene con le mani in mano, dovevo sfruttare l’opportunità. Bastarono poche parole per impressionarmi: «non ho mai avuto paura della morte, ho visto così tante persone morire davanti ai miei occhi». Il discorso è andato avanti, ma sono rimasta talmente scioccata che non ho più ascoltato. Come può non farti paura una cosa che ti priva di tutto, perfino della vita stessa?! Iniziò a raccontare la sua vita. Nacque in Senegal e a soli sette anni rimase orfano. Studiò fino alle scuole medie, perché mancavano i soldi e a 14 anni iniziò a lavorare nei campi. In tarda adolescenza si fidanzò e insieme alla sua ragazza decise di cambiare vita. Di spostarsi in Italia. Con camioncini, macchine, mezzi pubblici e a piedi raggiunsero la Libia dove, dopo poche settimane, si imbarcarono. Mentre raccontava tutto ciò mi venivano i brividi. Non avevano un soldo, ma tanta voglia di costruirsi una vita, un futuro migliore. Vennero smistati in due barconi diversi e, quando arrivarono in Italia, riuscirono a rintracciarsi grazie al telefonino. Pian piano non lo vedevo come il Senegalese che chiede l'elemosina, ma come un ragazzo che, analogamente a me, ha tanta voglia di stravolgere il suo domani e di provare l’impossibile. Ritornando alla sua vita, venne mandato insieme alla sua ragazza in un centro di accoglienza in un paesino vicino a Cuneo. Qui le condizioni non erano ottimali, ma poco dopo trovò un lavoro ed ora eccolo a cena qui con noi. L’italiano non era perfetto, ma riuscivo a capire tutto perché ero interessata alle sue parole. Avevo la fortuna di avere di fronte a me una grande testimonianza. Mi ha fatto cambiare la visione del problema dell'immigrazione. Se noi provassimo a metterci nei loro panni le cose si ribaltebbero e, forse, si risolverebbero. Non è colpa loro se sono nati nella parte sfortunata del mondo. Caro prof. questo incontro fu ciò che fece scattare una scintilla nella mia testa ed ora, per fortuna, il mio modo di vedere il mondo è cambiato.
Martina, 16 anni


Cara Martina,
La tua lettera, meravigliosa, mi ha commosso. E mi commuove ogni volta che la rileggo. Nelle tue parole c’è un sorprendente concentrato di intelligenza, sensibilità e maturità che raramente si trova nei giornali quando trattano il tema dell’immigrazione. Di solito dilagano artificiose semplificazioni, lontananza emotiva, ridondanza retorica oppure leziose ideologie. Sei giunta all’essenziale e con la tua moderazione hai sbaragliato tutte le esasperazioni. Tra i tanti spunti che offri alla meditazione, trovo molto bello che tu dica che in casa tua eravate «allo stesso livello». Da una iniziale lontananza emotiva e culturale che creava un’asimmetria relazionale, sei passata al riconoscimento autentico dell’altro senza ridurlo ai tuoi schemi interpretativi. Dici di essere riuscita inoltre a comprendere tutto, perché eri «interessata alle sue parole». Già, la volontà di comprendere è infatti così potente da consentire di cogliere l’essenziale al di là dei tentennamenti linguistici. Alla fine affermi che «per fortuna» hai cambiato opinione. Quell’esclamazione rappresenta una sorta di liberazione da pensieri stagnanti e confusi, come se la vita sentisse la bellezza del bene. Anch’io dico «per fortuna» ci sono famiglie come la tua che praticano l’accoglienza senza ostentarla e «per fortuna» ti è venuto in mente di regalarci questa storia. Con la tua lettera anche noi possiamo diventare adulti più responsabili. Grazie.
Un caro saluto,
Alberto

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