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Cor-rispondenze

lunedì 10 febbraio 2020

La vita, un teatro

Teatro Toselli

Caro Professore,
Ci ho riflettuto spesso, senza mai giungere ad una conclusione. Ho gettato uno sguardo sulla mia vita, sul mio passato, sul mio futuro, ma soprattutto sul mio presente. Apro gli occhi alla mattina, incerta rispetto a cosa potrà succedere prima di richiuderli alla sera. Compio le mie scelte ponderandole in base alle circostanze. Ma mi sorge il dubbio, a cui ne seguono altre decine, come in una giostra che gira all’infinito. Cosa sono le mie scelte? Cosa sto facendo io? Mi chiedo se sono davvero io a scrivere il mio futuro o se qualcuno lo sta facendo per me. Ma che senso avrebbe allora l’esistenza se non fossimo più che attori che recitano un copione in un teatro? Le mie scelte sono davvero mie? Sono davvero scelte? Siamo attori?
Camilla, 2 beta


Cara Camilla,
La vita, un teatro; l’esistenza, una recita. È una bella metafora della condizione umana. Nell’opera Enchiridion, oggi più semplicemente conosciuta con il nome Manuale di Epitteto (120 d. C.), – un testo così importante che persino Giacomo Leopardi nel 1825 decise di proporne una traduzione (da cui ho tratto la citazione), – l’antico filosofo stoico scriveva: «Sovvengati che tu non sei qui altro che attore di un dramma, il quale sarà o breve o lungo, secondo la volontà del poeta. E se a costui piace che tu rappresenti la persona di un mendico [mendicante], studia di rappresentarla acconciamente. Il simile se ti è assegnata la persona di un zoppo, di un magistrato, di un uomo comune. Atteso che a te si aspetta solamente di rappresentare bene quella qual si sia persona che ti è destinata: lo eleggerla si appartiene a un altro». Gli uomini dovrebbero recitare «acconciamente», ossia in modo conveniente e opportuno una trama tessuta altrove. Ognuno, in sostanza, condividerebbe temporaneamente con altri il copione di un film. E, se preferisci la metafora del teatro, allora basta che pensi a Shakespeare quando, nella commedia Come vi piace, scritta nei primi anni del Seicento, mette in bocca all’inquieto e malinconico Jaques queste parole: «Tutto il mondo è teatro e tutti, uomini e donne, nient’altro che attori; ognuno con le sue uscite e le sue entrate, ognuno che recita ora questa ora quella parte, e i suoi atti sono le sette età dell’uomo». Le scelte non sono mai solo nostre e neppure del tutto coscienti, è vero. Alcuni studiosi hanno persino prodotto formule matematiche che riassumono gli elementi che gravano sulle decisioni e sulla libertà umana. Vengono così dati ampi spazi all’inerzia culturale, ai condizionamenti ambientali e a molti aspetti inconsci che agiscono nel profondo. Ma c’è molta differenza tra pensare che influenze radicate o semplici suggestioni determinino il modo di agire e pensare che, nonostante vincoli e restrizioni, nessuno sia costretto a cantare una musica già fissata in una partitura. Credo che ci sia spazio sufficiente anche per la soggettività individuale. Forse ci sono momenti in cui le parole degli altri diventano nostre, perché assumiamo le loro credenze, i loro valori, le loro simpatie e le loro avversioni. Ci sono periodi della vita o anche solo situazioni contingenti in cui è certamente arduo capire se una scelta è davvero autonoma o se ricalca opinioni o ideologie estranee al soggetto. Potremmo dire che la nostra vita è scritta da altri quando riproduce le convenzioni del passato senza averle indagate a fondo e si conforma alle aspettative altrui per una sorta di quieto vivere. Una vita «eterodiretta», direbbe Kant, piuttosto che «autonoma»; che si compiace di compiacere per ottenere dei vantaggi e si rifiuta costantemente di decidere ossia (letteralmente) di tagliare i legami che pretendono di determinarne il movimento e la direzione. Da questa sceneggiatura potenzialmente elaborata da agenti esterni, possiamo tuttavia introdurre delle cancellature: ai movimenti sgraditi e alle parole che non ci rappresentano. Possiamo allentare la presa di un legame agendo direttamente sul canovaccio. Immaginare di vivere fuori da ogni condizionamento è follia, ma questo non significa che non possiamo intervenire con le nostre ragioni. Nella tragedia Coriolano, anch’essa opera di Shakespeare, Volumnia, moglie del protagonista, dice al marito di non parlare al popolo come gli suggeriscono il cervello e il cuore, ma con «parole bastarde, sillabe che non hanno nulla a che vedere con i […] veri sentimenti». Lo fa per contenere la sua collera, così gli suggerisce di dissimulare il suo odio. Anche noi possiamo decidere se usare parole genuine o corrotte, leali o false per rapportarci al prossimo. Sul palcoscenico della vita possiamo optare tra una delle tante parti a disposizione, senza assumerci alcuna responsabilità nella decisione del nostro futuro, o interpretare ciò che la nostra sensibilità e la nostra ragione ci suggeriscono. Magari qualche volta dovremo andarcene da soli, esattamente come Coriolano che se ne va come «un drago solitario in mezzo alla sua palude», e assumerci il rischio di orchestrare il nostro futuro su linee che non provengono dall’esterno, ma dal profondo del cuore. Anche se non smetteremo mai di chiederci se ciò che ha fatto vibrare il nostro cuore è veramente nostro o indotto dal mondo.
Un caro saluto,
Alberto

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