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lunedì 13 settembre 2021

L’uomo artefice del proprio destino

 


La locuzione latina «homo faber fortunae suae», «l’uomo è artefice del proprio destino», attribuita al politico e letterato romano Appio Claudio Cieco (IV-III sec. a.C.), è stata ampiamente rielaborata da uno dei più noti umanisti italiani, Giovanni Pico della Mirandola. Pico, purtroppo, non è diventato longevo: è morto a 31 anni, e solo qualche anno fa i Ris di Parma hanno scoperto che è stato avvelenato con l’arsenico, due mesi dopo l’altro grande umanista e suo amico, Angelo Ambrogini, il Poliziano. Pico della Mirandola è morto il 17 novembre 1494, lo stesso giorno in cui l’esercito di Carlo VIII entrava a Firenze, dando inizio alla prima delle guerre per conquistare l’Italia. Pur avendo scritto molte opere filosofiche, è ricordato da tutti per un breve testo che nel corso del tempo è diventato l’emblema della concezione dell’Umanesimo: l’ “Oratio de hominis dignitate”, il “Discorso sulla dignità dell’uomo”. Pico compone questo discorso nel 1486, quando ha 23 anni. All’inizio del testo egli dice di aver letto negli antichi libri degli Arabi che il saraceno Abdallah, interrogato su quale cosa gli sembrasse massimamente degna di meraviglia nel mondo, aveva risposto che «niente vi appare di più meraviglioso dell’uomo». Per carità, pare che tutti gli uomini nel corso della storia abbiano sottoscritto convintamente questa intuizione: analfabeti e sapienti hanno sempre ribadito che l’uomo è sovrano della natura per acutezza dei sensi, intuito, ragione, capacità creativa e per altre varie e indiscutibili abilità. D’altra parte, l’uomo è un essere in grado di comprendere gli oggetti eterni della matematica e di costruire strumenti complessi per il lavoro o per la conoscenza, di orientarsi nel mondo; di pensare Dio, l’eterno, e il fluire del tempo, ossia i processi della storia. Un essere che fa da tramite tra il necessario (ciò che non muta) e il contingente (ciò che è transitorio); definito «interstizio tra l’immobile eternità e il fluire del tempo» oppure «imeneo del mondo», vale a dire intermediario tra il mondo angelico e quello bestiale. Il limite più elevato del mondo animale e, nello stesso tempo, l’estremità inferiore di quello celeste. Ma a Pico della Mirandola queste analisi, che certamente condivide, non sono ancora sufficienti. Egli invita a mettere a fuoco un altro aspetto: la condizione dell’uomo, quella che ha avuto in sorte nell’universo intero. Avventurandosi in una breve sintesi della concezione teologica e cosmologica del tempo, egli afferma che Dio, «sommo Padre e architetto», ha posto gli angeli nell’iperuranio, ha animato le sfere celesti con gli spiriti beati e ha popolato la Terra, «il mondo inferiore» composto di parti «sozze e fangose», con svariate specie animali. Alla fine interpreta in modo mirabile la peculiare condizione umana, affermando pertanto che Dio: «Prese dunque l’uomo, questa creatura di aspetto indefinito, e, dopo averlo collocato al centro del mondo, così gli si rivolse: «O Adamo, non ti abbiamo dato una sede determinata, né una figura tua propria, né alcun dono peculiare, affinché quella sede, quella figura, quei doni che tu stesso sceglierai, tu li possegga come tuoi propri, secondo il tuo desiderio e la tua volontà. Tu, che non sei racchiuso dentro alcun limite,  stabilirai la tua natura in base al tuo arbitrio, nelle cui mani ti ho consegnato. Ti ho collocato come centro del mondo perché da lì tu potessi osservare tutto quanto è nel mondo. Non ti creammo né celeste né terreno, né mortale né immortale, in modo tale che tu, quasi volontario e onorario scultore e modellatore di te stesso, possa foggiarti nella forma che preferirai. Potrai degenerare negli esseri inferiori, ossia negli animali bruti; o potrai, secondo la volontà del tuo animo, essere rigenerato negli esseri superiori, ossia nella creature divine».  E più avanti, chiarendo le peculiarità dell’essere apparentemente più privilegiato della natura, scrive: «Chi non ammirerà questo nostro camaleonte?». Già, l’uomo è considerato un camaleonte che può assumere forme diverse e mutuare le caratteristiche dall’ambiente con cui desidera identificarsi. Sappiamo bene che l’uomo è sottoposto ai vincoli della natura, della cultura, della genetica, ma sappiamo che nonostante questi limiti e i molteplici condizionamenti ogni persona può comunque essere artefice del proprio destino. Pico della Mirandola ci ricorda quanta responsabilità è affidata a ciascun individuo. L’uomo è dunque «faber», artefice. La parola «faber» ricorda il fabbro, colui che manipola e forgia il metallo, perché con l’energia del proprio corpo, la robustezza degli attrezzi e con il calore del fuoco imprime ad esso la forma che desidera. «Faber» deriva dal verbo «facere», ossia “fare”. Attraverso l’azione progettuale, è possibile correggere e affinare la propria natura, fino ad assomigliare sempre più al proprio ideale. Ognuno può variare, trasformare e migliorare il destino o almeno la propria sorte, «fortunae suae», immettendo una direzione alla vita, conferendole scopi che si accordano con le idee che ritiene consone alla propria visione del mondo. Essere artefici significa essere creatori e, come dice il filosofo, ogni uomo è un’opera d’arte che si scolpisce gradualmente dall’interno: le scelte ripetute e l’adesione a determinati princìpi fisseranno a poco a poco i colori di questo prodigioso e singolare camaleonte. 

Alberto

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