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Cor-rispondenze

lunedì 8 novembre 2021

Imparare a morire



Può essere curioso che i filosofi abbiano considerato che si deve «imparare a morire». Si potrebbe pensare – se proprio è necessario apprendere qualcosa di importante –, perché non “imparare a vivere felici”? La felicità è in fondo preferibile ad ogni obiettivo, tanto che Aristotele diceva che tutti i beni sono conseguiti come mezzi in vista della felicità Ad esempio, di solito si cerca il lavoro in funzione della gratificazione personale o per accrescere il proprio reddito; si compra una casa nuova per avere più spazio e più comodità: gratificazione, reddito, comodità servono ad essere più felici, ma la felicità non è conseguita in funzione di altro. Per questo è un fine e non un mezzo. Capire e sperimentare che cos’è la felicità potrebbe essere dunque il compito prioritario dell’uomo. Oggi vengono offerti molti manuali di autoaiuto: prontuari che promettono di risolvere qualche aspetto dell’esistenza: si propongono di far scomparire qualche carenza relazionale e di perfezionare delle abilità. Imparare «a gestire le emozioni», «a parlare in pubblico», «a studiare», «ad affrontare i problemi in modo positivo», «a suonare uno strumento», «a parlare fluentemente una lingua», «a cucinare». Sono abilità per la vita, per vivere meglio. Ma imparare a morire può essere considerata un’abilità fondamentale? Ci serve a vivere meglio o è preferibile – come diceva Spinoza – che l’uomo si dedichi alle meditazioni sulla vita, tralasciando i pensieri sulla morte? Nel corso dell’esistenza di solito si ampliano le conoscenze, si instaurano relazioni, si realizzano progetti e poi si muore. La morte accade, ed è l’evento che accomuna tutti gli esseri viventi. Non sarebbe meglio non pensarci? Cicerone nelle “Discussioni Tusculane”, ritiene invece che sia necessario affrontare tale riflessione e addirittura che sia importante «abituarsi a morire». Dialogando con un giovane su tali questioni, nella villa di Tusculo, vicino a Frascati, nel 45 a.C., egli afferma: «La morte infatti è per così dire il distacco e la separazione, lo strappo di quelle parti che prima della morte erano tenute da qualche giuntura». Per questo dice al suo interlocutore: «Perciò, dà retta a me, esercitiamoci a ciò e teniamoci disgiunti dal corpo, cioè abituiamoci a morire». Cosa intende con l’espressione “abituiamoci a morire”? Come stoico sa quanto è importante svincolare l’anima – la ragione – dalle eccessive distrazioni del corpo, dagli affari e dal piacere stesso. Più l’uomo conduce una vita razionale, più è autonomo. In questo senso, se la maggior parte degli uomini è così ossessivamente legata ai beni materiali e ritiene che la vita coincida con il massimo possesso o col massimo godimento di questi, allora separarsi progressivamente dal corpo è un venir meno a ciò che la massa considera vita, ed è dunque un abituarsi a morire. Egli invita pertanto a far sì che la condotta di ciascuno sia perfetta, ineccepibile, e a liberare progressivamente l’anima dal corpo. Ricorda che Socrate si è preparato a lungo alla morte e l’ha affrontata con dignità. Non ha cercato avvocati per il processo e non si è rivolto in modo supplichevole ai giudici, ma ha parlato con fierezza. Non è evaso di prigione, anche se avrebbe potuto farlo senza difficoltà, e quando ha dovuto bere la cicuta ha parlato in modo tranquillo. Era calmo. Sapeva che all’uomo si presentano due strade: il sonno eterno o una dimensione diversa al cospetto degli dei. Socrate non temeva né l’una né l’altra. Se tutto finisce, aver vissuto in coerenza con la giustizia e con le leggi sarebbe stato sufficiente. Se si apre un’altra dimensione, allora chi si è comportato in modo virtuoso non ha nulla da temere. Socrate fa l’esempio dei cigni che, prima di morire, cantano. Egli afferma: «cantano allora il loro canto più lungo e più bello, presi come sono dalla letizia che di lì a poco se ne andranno al dio di cui sono devoti». E così dovrebbero comportarsi le persone sagge e virtuose. La sapienza consiste nel saper prendere congedo gradualmente da tutto ciò che lega al mondo e da ciò che è effimero. Anche Montaigne ritiene che eludere il problema della morte sia il «rimedio del volgo», mentre le persone serie hanno il dovere di «guardare in faccia la negatività». Per questo egli dedica un intero capitolo dei “Saggi” al tema: «imparare a morire». Egli rivela che il pensiero della morte è sempre stato presente nella sua vita, anche nella sua stagione più dissoluta. La meditazione sulla negatività dell’esistenza non deve condurre però alla paralisi dell’azione, alla depressione dell’umore, alla rinuncia ai progetti, ma deve semplicemente gettare luce sulla condizione umana. Scrive l’autore: «I bambini hanno paura perfino dei loro amici quando li vedono mascherati, e così noi. Bisogna togliere la maschera alle cose come alle persone». Togliere la maschera alla morte e accettarla come parte della vita. Montaigne insegna a rapportarsi in modo corretto alla vita e a non illudersi, perché la morte può sorprendere ad ogni età. Imparare a morire altro non è che un modo di relazionarsi con l’esistenza che consente all’uomo di distinguere ciò che è essenziale da ciò che è accessorio. Il più grande vantaggio di tale consapevolezza è che chi ha imparato a morire, ha «disimparato a servire». Scrive il filosofo: «È incerto dove la morte ci attenda, attendiamola dovunque. La meditazione della morte è meditazione della libertà. Chi ha imparato a morire, ha disimparato a servire. Il saper morire ci affranca da ogni soggezione e costrizione».

Un caro saluto,

Alberto

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