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lunedì 15 novembre 2021

Sapere è potere 1/2



Se si possiedono nozioni migliori per deviare i corsi d’acqua o nelle tecniche agricole si possono ottenere raccolti più abbondanti; se si apprendono le lingue e le leggi di un paese si possono realizzare affari eccellenti nel commercio riducendo impedimenti e seccature. Gli uomini hanno sempre conosciuto e sperimentato i nessi formidabili tra «sapere e potere», ma a stabilire una sorta di accordo indissolubile, perentorio e soprattutto irreversibile tra queste due dimensioni è stato Francesco Bacone, filosofo londinese e Lord Cancelliere sotto il regno di Giacomo I d’Inghilterra nella prima metà del Seicento. Bacone ha una grande idea: ricostruire dalle fondamenta le scienze, le arti e tutta la conoscenza del proprio tempo. Pensa così ad un titolo pomposo: “Instauratio magna”, “La grande instaurazione”. La pianificazione è ambiziosa e accurata; tuttavia, nel 1620 si affretta a dare alle stampe solo alcune sezioni – l’introduzione e la seconda parte intitolata “Nuovo Organo” –, perché nel caso fosse morto («se gli capiterà di morire») avrebbe almeno potuto indicare ai suoi contemporanei la nuova direzione che, secondo lui, la conoscenza avrebbe dovuto intraprendere. Se il merito principale di Galileo Galilei è stato quello di aver inventato metodo scientifico, quello di Bacone è stato quello di aver messo in luce il profondo legame tra la scienza e la tecnica, tanto da essere stato considerato il «profeta» dell’età della tecnica. Già nel 1597 in una famosa formula, contenuta in uno dei suoi “Saggi” intitolato “Meditationes sacrae” aveva scritto: «nam et ipsa scientia potestas est», «poiché la scienza è di per sé una potenza». Aveva individuato non solo una semplice relazione tra «sapere e potere», ma una corrispondenza profonda, un’identità totale tra queste due attività umane, che viene di solito viene tradotta nella locuzione «sapere è potere». Egli considerava infruttuosa la condizione delle scienze a lui contemporanee e che fosse opportuno indicare nuove strade all’intelletto umano. Giudicava il sapere dei Greci una «sorta di infanzia della scienza», una forma di erudizione «sterile di opere» e riteneva che alla scienza del proprio tempo mancasse la funzione produttiva, ossia la capacità di generare nuove invenzioni. Secondo l’autore le scienze erano rimaste quasi immobili rispetto al passato e non erano ancora in grado di generare un progresso incessante. Scriveva sconsolato: «spesso, non solo le asserzioni restano mere asserzioni, ma anche i problemi restano problemi, che dalle discussioni non vengono risolti». Si entusiasmava invece per le arti meccaniche, perché di queste avvertiva la forza crescente e travolgente. Diceva: «si sviluppano ogni giorno di più e sono sempre più produttive». Nell’illustrazione del frontespizio dell’ “Instauratio magna” egli pose pertanto un vascello a tre alberi e a vele spiegate che sta per varcare le Colonne d’Ercole. Sotto l’immagine c’è una frase del profeta Daniele: «Multi pertransibunt et augebitur scientia», «Molti passeranno di qui e la scienza aumenterà». Se in passato molte scoperte furono conseguite «per caso e per circostanze fortunate» egli ambiva a fornire all’uomo gli strumenti idonei per superare continuamente i propri limiti. All’inizio dell’ “Instauratio magna” dice gli uomini non conoscono bene le proprie forze e forse confidano troppo poco su di esse. Sembra dunque che anche le scienze abbiano le loro colonne d’Ercole «fatali», perché talvolta gli uomini non sono spinti a superarle «né dal desiderio né dalla speranza». Ritiene pertanto che occorra passare dalla contemplazione del mondo – che può certo anche dare appagamento e felicità –, alla sua manipolazione grazie alla tecnica, la sola arte in grado di modificare la realtà a vantaggio di tutti, per cambiare il destino e la fortuna del genere umano. Egli sa bene che «la scienza e la potenza umana coincidono», e che i benefici delle invenzioni possono riguardare tutta la specie. Se si considera la grande differenza tra la vita degli Europei del Seicento e quella dei popoli che vivevano in un’area più selvaggia e barbara nelle Americhe, Bacone afferma allora che «l’uomo è un Dio per l’uomo», non solo per gli aiuti che l’uno può fornire all’altro, ma anche se si confrontano le loro rispettive realizzazioni. Bacone ritiene che le differenze tra le culture non dipendano dal terreno, dal clima o dalla costituzione fisica, ma solo dalle arti. Oggi diremmo dalla tecnica. Basta considerare tre invenzioni rivoluzionarie: l’arte della stampa, la polvere da sparo e la bussola. Scrive l’autore: «Queste tre scoperte hanno cambiato la faccia del mondo e le condizioni di vita sulla terra: la prima, nelle lettere; la seconda, nell’arte della guerra; la terza, nella navigazione». Tanto che nessun regno, nessuna setta, nessuna stella sembra aver esercitato maggiore influenza sulle vicende umane rispetto a tali «scoperte meccaniche». Qual è allora l’ambizione che deve sorreggere la specie umana? Per Bacone un obiettivo sano e nobile è  quello di «estendere il dominio del genere umano a tutte le cose». Con il suo metodo induttivo si propone così di «accelerare e anticipare la scoperta al più presto, subito e simultaneamente». Ma se «dalla ignoranza della realtà derivano innumerevoli danni», che cosa può derivare da questa fiducia nell’accelerazione continua del “progresso”?
un caro saluto,
Alberto

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