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Cor-rispondenze

lunedì 21 febbraio 2022

Non deridere, ma comprendere



Gli uomini ridono degli altri uomini, li compiangono, sono rapidi a disapprovarne i comportamenti: sono solleciti a disprezzare e a odiare ogni forma di condotta non tradizionale, ma faticano a capire. Per carità, molti autori si sono prodigati in suggerimenti per insegnare l’arte di vivere bene. Nell’opera “Distici” Catone propone ad esempio un elenco di cinquantasei consigli per condure una buona vita: obbedire alle leggi, amare la famiglia, educare i figli, essere gentili. Tra le tante raccomandazioni, alcune esortano alla prudenza: «non deridere nessuno», «non deridere l’infelice». Questo invito a rispettare l’altro e a non schernirlo non è solo un appello a non prendersi gioco delle altre persone, ma è un’esortazione a rispettare un limite: c’è un confine che non va superato, perché non è detto che siamo in grado di comprendere veramente l’altro o il dramma che sta vivendo. L’invito a non prendersi gioco delle passioni degli uomini è contenuto anche in un’opera lirica di Mozart. Nel secondo atto del “Don Giovanni”, Donna Elvira entra in scena disperata e dice a Don Giovanni: «L’ultima prova / dell’amor mio / Ancor vogl’io / fare con te. / Più non rammento / gl’inganni tuoi, / Pietade io sento». Forse è l’ultimo tentativo di redimere e di riconquistare Don Giovanni, il quale non ci pensa nemmeno a cambiare e lei non è certo né la prima né l’ultima donna ad essere sedotta e abbandonata dal protagonista. Allora lei si inginocchia – come «alma oppressa» – davanti a lui e lui si inginocchia davanti a lei, ma replica quel gesto per prendersi gioco della donna. Donna Elvira lo fiuta e gli dice: «Ah non deridere gli affanni miei». È come se avesse detto: non ti burlare dei miei sentimenti e non beffarti di ciò che di più sincero vive in me. I sentimenti di Donna Elvira sono autentici, provengono da una persona sensibile che crede nell’amore; Don Giovanni non li può conoscere – probabilmente non è all’altezza di quel sentimento – pertanto non dovrebbe prendersi gioco di lei. La letteratura è ricca di manuali che deplorano le azioni degli uomini, condannano i loro comportamenti e propongono soluzioni per migliorare la natura umana. Talvolta l’uomo viene commiserato per la sua fragilità o la sua volubilità. Anche l’uomo comune si lamenta del fatto che le persone non sono come dovrebbero, non seguono sempre i dettami della ragione o le aspettative più comuni. Si compiangono gli uomini perché non sono perfetti, perché sono emotivi o impenetrabili, camaleonti o eccessivamente rigidi, impulsivi o indifferenti, romantici o materialisti, troppo coinvolti o troppo distaccati, avari o spendaccioni, umili o presuntuosi. C’è sempre una critica che viene rivolta alla natura umana e al suo carattere incostante.  L’uomo è biasimato per le sue pulsioni, ammonito per le sue scelte, condannato per i suoi vizi. Incolpato un po’ di tutto: di non elevarsi a vivere secondo gli ideali, di non essere fedele alle persone o a certe dottrine. Il filosofo olandese Baruch Spinoza nel “Trattato politico” – un’opera rimasta incompiuta a causa della morte dell’autore nel 1677 – afferma invece che bisogna studiare l’animo umano senza utilizzare le categorie generiche di bene e male. Occorre avvicinarsi all’uomo cercando di esaminare le proprietà che lo definiscono. Non biasimare i vizi, ma ponderare attentamente le caratteristiche; non pensare alla corruzione della natura umana ma ai suoi connotati specifici. Spinoza ci insegna che per comprendere è necessario evitare di giudicare in modo sommario e sbrigativo. Per questo scrive: «non ridere, non lugere, neque detestari, sed intelligere». «Mi sono impegnato a fondo non a deridere, né a compiangere, né tanto meno a detestare le azioni degli uomini, ma a comprenderle, considerando quindi gli affetti umani, come l’amore, l’odio, l’ira, l’invidia, la gloria, la misericordia e gli altri moti dell’animo, non come vizi dell’umana natura ma come proprietà che gli competono, al modo in cui il caldo, il freddo, la tempesta, il tuono e via dicendo competono alla natura dell’aria». Spinoza voleva studiare la natura umana come si esaminano le proprietà di un quadrato: con l’obiettivo di scoprire le sue proprietà, accettando di considerare anche ciò che non è così nobile o decoroso. Più di un secolo prima di Spinoza anche il grande umanista Erasmo da Rotterdam nell’“Elogio della pazzia” (1511) aveva scritto che lamentarsi di certi comportamenti è un po’ come compiangere l’uomo perché non sa volare o camminare a quattro zampe oppure perché non ha le corna come altri animali. Comprendere è più difficile che condannare. Ma giudicare non è un obiettivo serio, né una meta per uno studioso. Uno scienziato preferisce includere tutti i dati prima di trarre frettolose conclusioni. Anche Primo Levi nel libro “I sommersi e i salvati” (1986) ha insegnato a non giudicare frettolosamente: «In chi legge (o scrive) oggi la storia dei Lager è evidente la tendenza, anzi il bisogno, di dividere il male dal bene, di poter parteggiare, di ripetere il gesto di Cristo nel Giudizio Universale: qui i giusti, là i reprobi. Soprattutto i giovani chiedono chiarezza, il taglio netto; essendo scarsa la loro esperienza del mondo, essi non amano l’ambiguità». E quando descrive ciò che accade nei lager afferma un’idea che vale anche per la vita più in generale: «Possiede una struttura interna incredibilmente complicata, ed alberga in sé quanto basta per confondere il nostro bisogno di giudicare».

Un caro saluto,

Alberto 

















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