Cerca nel blog

Cor-rispondenze

lunedì 14 febbraio 2022

Peu de chose




Che cosa abbatte l’uomo e che cosa lo consola? Certamente i due temi più importanti della vita: l’amore e la morte. Il primo salva e sostiene, mentre l’impossibilità di amare riduce le energie e provoca sofferenza. Talvolta anche il rifiuto da parte della persona amata indebolisce, come raccontano i grandi romanzi o le tragedie. Consideriamo la tragedia “Amleto” di William Shakespeare. Polonio – il padre di Ofelia di cui Amleto è innamorato – consiglia alla figlia di star lontana dai luoghi frequentati dal suo spasimante, di non accogliere i suoi messaggeri e di non accettare i suoi doni. Lei ascolta gli ammonimenti, mentre Amleto, respinto – scrive Shakespeare – «a farla breve si abbatté molto, poi prese a digiunare, poi perse il sonno, poi sopravvenne la debolezza, poi il mancamento, e per questa china la pazzia per la quale ora lui farnetica». Non abbiamo dubbi, allora, che l’amore o il suo rigetto possano rendere gli uomini particolarmente cupi e in alcuni casi persino inclini alla pazzia. Dall’altra c’è la condizione umana: la consapevolezza che l’uomo è effimero e che deve morire. Il pensiero della morte di solito avvilisce, e la morte conforta solo se si porta via dei grandi dolori. Secondo Pascal se pensassimo veramente alla nostra condizione, una vita tesa tra sforzi, passioni, affanni, arrabbiature, fatiche, sacrifici e sconfitte, forse cadremmo nel panico e nell’inazione totale. Scrive Pascal: «L’infelicità naturale della nostra condizione debole e mortale, e così miserabile che nulla ci può consolare quando ci pensiamo attentamente». Per fortuna gli uomini si tengono alla larga da tali pensieri, evitano di meditare «attentamente» e così si salvano, anche solo provvisoriamente, dalla disperazione. C’è però una sentenza di Pascal che descrive con grande esattezza la natura umana e le sue ambivalenze. In modo accurato e gentile egli ci consegna una verità importante quando afferma: «Peu de chose nous console parce que peu de chose nous afflige», «Ci consoliamo con poco, perché di poco ci affliggiamo». È una frase che potrebbe essere pronunciata in una conversazione, una confidenza fatta con una certa leggerezza ad un amico. Dietro l’apparente naturalità e l’immediatezza della comprensione il suo contenuto sembra caratterizzare efficacemente la vita umana. Ci sono almeno due possibilità di intendere questa sentenza: «ci consoliamo con poco, perché di poco ci affliggiamo» può voler dire che siamo diventati insensibili e dunque nulla ci scalfisce più; siamo pertanto facili al conforto perché non proviamo più grandi angosce né tormenti e siamo così poco vulnerabili perché abbiamo sviluppato una corazza di imperturbabilità che ci consente di vivere senza problemi. Il livello delle nostre afflizioni e delle nostre inquietudini non è mai particolarmente profondo. Mangiamo guardando la guerra in televisione, sprechiamo cibo e oggetti quotidiani pur sapendo quali sono i costi sociali e quanta energia e denaro saranno necessari per il riciclo. Quel «di poco» indica un livello oltre il quale non riusciamo a sentire. Non avvertiamo più il tragico della vita, non cadiamo in angoscia per le disuguaglianze né per le ingiustizie né per le sventure lontane. Accogliamo tutto attutito, mitigato, come una musica in sordina, e dunque ci consoliamo con poco perché non dobbiamo essere recuperati in qualche abisso lontano. Possiamo attraversare con levità il mare della vita senza essere scossi né travolti dagli urti delle onde rovinose. Questa riduzione della nostra capacità di sentire è stata definita dal filosofo tedesco Günther Anders «dislivello prometeico». Anders diceva che in passato la fantasia e l’immaginazione erano «esorbitanti» rispetto alle produzioni umane, ma affermava che nel Novecento il rapporto tra fantasia e realtà si era capovolto. La velocità della produzione tecnica, la difficoltà di prevederne gli sviluppi e le conseguenze che essa ha sulla vita hanno ridimensionato la nostra capacità di sentire e di immaginare. Spesso, solo ciò che ci riguarda è importante, il resto è sullo sfondo. Siamo disabituati a sentire l’altro, se l’altro è lontano. Proviamo dunque empatia – quando va bene – solo con coloro che sono vicini a noi. E così, superati dalla realtà, non cadiamo in angoscia e risorgiamo facilmente da ogni preoccupazione con la fiducia che tutto si risolverà in qualche modo in futuro. La sentenza di Pascal può però significare anche l’opposto. Siamo ipersensibili: basta poco a rasserenare il nostro animo e basta poco a buttarci giù, a farci star male. Ci crucciamo per delle sciocchezze: siamo dunque fragili, insicuri e facilmente impressionabili. Basta un nulla per gettare un’ombra sul nostro umore, su una serata in compagnia, su convinzioni apparentemente granitiche, sulle relazioni interpersonali. In quel «peu de chose», è contenuta la nostra essenza: quando un piccolo evento ci amareggia, muta la nostra percezione della realtà e, insieme ad essa, il giudizio sulle persone. Portiamo dunque dentro di noi questo Giano bifronte: insensibili e ipersensibili, indifferenti e insicuri. Facilmente consolabili sia perché raramente raggiungiamo le profondità abissali di certi pensieri sia perché, all’opposto, l’ipersensibilità ha bisogno di poco per raggiungere un nuovo equilibrio. Aveva ragione Pascal a dire che l’uomo è un «mostro incomprensibile», «un paradosso di fronte a se stesso».          

Un caro saluto,

Alberto 










Nessun commento: