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Cor-rispondenze

lunedì 12 dicembre 2022

L'io non può stare senza il tu

 


In una lettera del filosofo tedesco Friedrich Heinrich Jacobi del 1775 ad un interlocutore che non viene nominato è riportata questa frase: «Apro gli occhi o le orecchie, o stendo la mano e in questo stesso istante avverto in modo inseparabile: tu e io, io e tu»; successivamente, il filosofo giunge a questa sintesi: «senza tu l’io è impossibile». Mezzo secolo dopo il filosofo Ludwig Feuerbach afferma «la necessità del tu per l'io».  Feuerbach mette in luce l’essenza sociale dell’uomo: come due persone sono indispensabili per generare un individuo di carne e ossa, così occorrono più persone per originare l’uomo spirituale. Abbiamo bisogno delle relazioni con gli altri (tu) per diventare ciò che siamo e per formare la nostra identità (io). Così, servono molte vite per fare una vita e molti libri per strutturare un uomo e renderlo consapevole e libero. È fondamentale, dunque, l’apporto di soggetti diversi per consentire ad un uomo di pensare autonomamente. L’altro è dunque costitutivamente («ontologicamente») imprescindibile perché ognuno possa formare se stesso, perché ci si educa e si cresce proprio grazie alle relazioni. Poi Feuerbach si è lasciato un po’ prendere la mano e ha scritto: «l'uomo preso per sé è uomo (nel senso usuale del termine); l'uomo insieme all'uomo — l'unità di io e tu — è Dio». Martin Buber, autore dell’opera “Io e tu” (1923), un saggio che insieme ad altri è raccolto nel libro “Il principio dialogico” (1962), ridimensiona un po’ tale euforia e scrive più coerentemente che «l'unità di io e tu è l'uomo (nel senso proprio del termine)». Se nella relazione si genera l’uomo, allora è fondamentale essere autentici. Scrive il filosofo: «Non è importante che uno si «lasci andare» di fronte all'altro, ma è importante che permetta all'uomo con cui comunica di partecipare al suo essere. Essenziale è l'autenticità dell'interumano; dove essa manca, neanche l'umano può essere autentico». Nello stesso anno della pubblicazione dell’opera di Buber (1962), il filosofo romano Guido Calogero (1904-1986), allievo di Giovanni Gentile, ma antifascista e pertanto più volte arrestato e costretto al confino con la famiglia, pubblica un’opera intitolata “Filosofia del dialogo”. Egli afferma infatti che: «Nessuno è più ridicolo di colui che mostra di avere interesse a conoscere il pensiero altrui solo perché ha interesse a sostituirlo con il suo». Egli è pertanto convinto che la scelta del dialogo consenta di evitare di cadere nell’indifferenza o nella presunzione dogmatica. Le sue parole sono chiarissime: «ho deciso che non voglio essere fanatico, perché è mio dovere fondamentale quello di assicurare ad ogni altro la possibilità di convincermi che ho torto». La parola “dialogo”, deriva da “dia” e “logos”: è la parola (logos) che attraversa (dia) le persone. Allora occorre distinguere tra un dialogo-colloquio e un dialogo-soliloquio. La bellissima poesia di Leopardi “Alla Luna” è un esempio di soliloquio («O graziosa luna, io mi rammento / Che, or volge l’anno, sovra questo colle / Io venia pien d’angoscia a rimirarti […]»). Un dialogo interiore che permette di sviluppare pensieri, evocare ricordi e sensazioni. Ma non è un’effettiva relazione con l’altro: alla Luna in fondo facciamo dire ciò che vogliamo, è il pretesto per le nostre riflessioni. Nel dialogo autentico l’altro invece non è mai in nostro potere: le sue idee non si lasciano ridurre alle nostre considerazioni, così la sua alterità in generale non si lascia appiattire né esaurire. Lo scambio costruttivo può avvenire solo quando il “logos” attraversa i soggetti – chi parla e chi riceve la parola e poi può restituire altra parola che tiene conto di ciò che via via emerge dal discorso. Nel dialogo si realizza così il movimento altalenante dell’onda sulla spiaggia: la parola avanza e torna indietro ripetutamente arricchita. Così, quando il dialogo è genuino, modifica gli interlocutori e nella variazione incessante li valorizza entrambi. La riflessione sulla necessità della relazione per costituire l’uomo è stata ripresa dalla psichiatria, dalla psicologia e dalla pedagogia. A partire da una poesia di Friedrich Hölderlin, Eugenio Borgna, uno dei più grandi psichiatri italiani, ha scritto un libro meraviglioso intitolato “Noi siamo un colloquio” (1999), per mostrare che la cura in psichiatria non è mai riducibile all’aspetto farmacologico, ma è aperta ad ogni dimensione dell’esistenza ed ha come base l’ascolto della persona: dal dialogo interiore ai silenzi che compongono ogni vita. Sul versante pedagogico il poeta ed educatore Danilo Dolci, per segnalare che ognuno di noi alimenta gli altri e dagli altri è sostenuto,  nel libro “Palpitare di nessi” (1985) afferma che ogni uomo è un centro di «cordoni ombelicali in partenza e in arrivo» e che la comunicazione vera è sempre bidirezionale, proprio come avviene nell’interazione vitale tra la mamma e il figlio nella gravidanza. Nell’opera successiva, “Dal trasmettere al comunicare” (1988), egli ricorda invece come l’espressione “mezzi di comunicazione di massa” sia ingannevole e da sostituire con “mezzi di trasmissione di massa”, in quanto con la televisione e la radio assistiamo piuttosto ad un’opera di informazione collettiva che esclude la reciprocità. Chi parla trasmette e non può essere influenzato, ma Dolci insegna che la relazione io-tu sorregge l’esistenza ed è la trama meravigliosa di ogni vita.

Un caro saluto,

Alberto


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