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Cor-rispondenze

lunedì 3 maggio 2010

La preghiera



Caro Professore,
Premettiamo che, pur essendo cristiana, non sono per nulla praticante, non tanto perché non credo in Dio o in Cristo, ma soprattutto perché mi capita spesso di essere in disaccordo con i pensieri della chiesa moderna.
Quando ero più piccola alla sera spesso mi sentivo in dovere di dire le preghiere, forse perché le mie catechiste erano "insistenti" su queste cose, però nemmeno allora credevo davvero in ciò che facevo né in quello che dicevo: in realtà erano solo frasi che avevo imparato a memoria.
Oggi a volte mi capita di pensare quanto possa davvero essere utile pregare e soprattutto se sia giusto o meno rivolgersi a Dio solo in un momento di particolare difficoltà. Non capisco come sia possibile oggi, in una società così materialista come quella moderna, che esistano persone che credono nella possibilità di "fare delle richieste" a Dio semplicemente attraverso delle parole.
Io forse sono troppo razionale, quello che non posso vedere o in qualche modo percepire, per me non esiste, forse non ho ricevuto il dono della fede che mi permetterebbe di credere nelle cose astratte. Allora mi sorge un interrogativo: è utile pregare? Porta a risultati reali oppure è solo uno strumento di cui l'uomo si serve in un momento difficile?
Lorenza




Cara Lorenza,
Artemidoro (II sec. d. C.) associava la preghiera alle richieste che gli uomini fanno a Dio per ottenere qualcosa, infatti scriveva che sognare luoghi di preghiera presagiva imminenti sofferenze: “Luoghi di preghiera […] predicono dolore, preoccupazione e struggimento dell'anima sia a un uomo che a una donna: infatti nessuno se ne va in un luogo di preghiera se non ha delle preoccupazioni” (Il libro dei sogni, Bur 2006). Immaginava dunque che le preghiere degli uomini dipendessero dai timori e dalle sofferenze nei confronti della propria vita o di quella dei propri cari. In qualche modo chi prega, prega per ottenere qualcosa dagli dei. Se gli uomini non fossero esposti a ostacoli, disgrazie e malattie, probabilmente non rivolgerebbero preghiere alle divinità. Gli antichi e anche i contemporanei pensano che gli dei siano in rapporto con l’uomo e pertanto si rivolgono a loro per attrarre la loro benevolenza o per mitigare la potenza del negativo attraverso preghiere, sacrifici e riti propiziatori. Individualmente o a livello collettivo. Di fronte alla malattie, alle catastrofi in cui muoiono persone innocenti, gli uomini sentono la propria impotenza e chiedono aiuto a qualcuno: agli dei o a Dio. L’imprevedibilità della vita, l’irrazionalità degli eventi, la paura della malattia, del dolore e della morte inducono gli uomini a cercare consolazione e aiuto. Ma esistono motivazioni egoistiche anche molto più basse. Michel de Montaigne (1533-1592) il filosofo francese brillante e disincantato sulla condizione umana, nei Saggi così descrive le giustificazioni che spingono gli uomini a pregare Dio: “L'avaro lo prega per la conservazione vana e superflua dei suoi tesori; l'ambizioso, per le sue vittorie e per il successo della sua passione; il ladro se ne serve di aiuto per superare il pericolo e le difficoltà che si oppongono all'esecuzione delle sue malvagie imprese, o lo ringrazia per la facilità con cui ha scannato un viandante. (c) Ai piedi della casa che stanno per scalare o per minare, essi dicono le loro preghiere, col pensiero e la speranza pieni di crudeltà, di lussuria, di cupidigia”. (Michel de Montaigne, Saggi, Adelphi 2005). Così sono gli uomini. Chiedono per appagare i loro bisogni, e non sempre i bisogni per cui fanno richiesta sono nobili. Ora però bisogna distinguere tra due concezioni di Dio: il Dio impersonale dei “filosofi e dei dotti” e il Dio personale del Cristianesimo. Dio, inteso come Essere supremo, o “Dio dei filosofi” non può essere pregato, perché l’Essere sommo è pura razionalità e perfezione; è la legge del mondo o la sua struttura e pertanto è assolutamente impersonale, disinteressato alla condizione umana e imparziale. Il filosofo e teologo Raymond Panikkar a questo proposito ricorda infatti che “Un Dio perfetto deve essere 'buono', imparziale e giusto. Non può permettersi favoritismi o atti di ira. Quindi, a rigor di logica, non può rispondere alle preghiere dei suoi fedeli, che spesso desiderano favori personali e protezione. Questo significa che il Dio dell'Essere non può amare”. (Raymond Panikkar, Il silenzio di Dio, Borla 1992). Poiché parti consistenti del razionalismo seicentesco e dell’illuminismo settecentesco consideravano la religione frutto dell’ignoranza e della superstizione, escludevano pertanto la fiducia nella possibilità che Dio si interessasse agli uomini e si dedicasse a rispondere alle loro richieste. La concezione del divino era infatti quella del deismo, ossia di una religione naturale e razionale che non ammetteva la rivelazione di Dio all’uomo (quindi contro il Cristianesimo), ma ammetteva l’esistenza di un Dio inteso semplicemente come ordinatore del cosmo. In questa concezione la preghiera era un atto assurdo, irrazionale e inammissibile per ogni uomo di ragione.
C’è molta differenza pertanto tra una concezione impersonale di Dio (deismo) e quella personale (teismo, e dunque Cristianesimo). Spiega molto bene questa differenza Joseph Ratzinger quando scrive: “Che ne è del nostro credere e pregare? Anzitutto, se la concezione personale e quella impersonale di Dio si equivalgono, sono fungibili, allora la preghiera diviene finzione, poiché se Dio non è un Dio che vede e che ode, se Egli non mi conosce e non mi sta davanti, la preghiera si leva nel vuoto. Essa risulta essere solo una forma di autocoscienza, di relazione intrattenuta con se stessi, non un dialogo. Può essere allora un'iniziazione all'assoluto, il tentativo di ascendere dalla condizione di separazione dell'io a un infinito a cui nel profondo sono identico e nel quale voglio inabissarmi. Ma tale preghiera non ha alcun punto di riferimento su cui ci si possa misurare e dal quale ci si possa attendere una qualche forma di risposta. […]Se invece Dio è persona, allora la realtà ultima e somma e anche la più concreta, allora io mi trovo sotto lo sguardo di Dio e nell'orbita della sua volontà, del suo amore”. (Benedetto XVI (Joseph Ratzinger), Fede, verità, tolleranza. Il cristianesimo e le religioni del mondo, Cantagalli 2003)
Egli definisce la preghiera: “un processo dialogico in cui io parlo a un Dio che è in grado di udire ed esaudire. In altre parole: la preghiera comune presuppone che il destinatario, e dunque anche l'atto interiore rivolto a Lui, vengano concepiti, in linea di principio, allo stesso modo. Come nel caso di Abramo e Melchisedek, di Giobbe e di Giona, dev'essere chiaro che si parla col Dio unico che sta al di sopra degli dèi, col Creatore del cielo e della terra, col mio Creatore. Dev'essere chiaro dunque che Dio è "persona", vale a dire che può conoscere e amare; che può ascoltarmi e rispondermi; che Egli è buono ed è il criterio del bene, e che il male non fa parte di Lui. A partire da Melchisedek, possiamo dire, dev'essere chiaro che Egli è il Dio della pace e della giustizia. Qualsiasi commistione tra la concezione personale e quella impersonale di Dio, tra Dio e gli dèi, dev'essere esclusa”.
In quest’ottica, al di là delle richieste che le persone rivolgono a Dio, vorrei farti riflettere sulla novità dell’importanza della preghiera per i Cristiani. Cristo dichiara in Matteo (5, 44-45): «Ma io vi dico: Amate i vostri nemici e pregate per coloro che vi perseguitano, così sarete figli del Padre vostro che è nei cieli, poiché egli fa sorgere il suo sole sui cattivi e sui buoni e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti». Se ci pensi, questo insegnamento di Gesù sposta la preghiera su tutta un’altra dimensione, rispetto a quella personale o semplicemente utilitaristica: pregare per i nemici rappresenta un cambiamento decisivo del Cristianesimo rispetto alla religioni “primitive”. La religione dell’amore sconvolge dunque il senso antico della preghiera.
Per un riferimento più ampio a queste riflessioni, ti consiglio due brevi libri: quello di Enzo Bianchi, Perché pregare, come pregare, Sanpaolo 2009, e quello del cardinale Carlo Maria Martini, Qualcosa di così personale. Meditazioni sulla preghiera (Mondadori, 2009).
Un caro saluto,
Alberto

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