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Cor-rispondenze

lunedì 29 novembre 2010

Rimpianti



Caro professore,
Ho troppi rimpianti. Sono tutti gli attimi di silenzio che affollano la mia esistenza e sono tutte le parole che ho pronunciato senza sapere cosa stavo dicendo. Sono tutte le giornate di sole che ho trascorso chiusa al buio a compatirmi, senza pensare a nient’altro e a quanto fossi egoista. Sono tutti i momenti in cui il mio orgoglio è diventato stupidità. Sono tutti i sorrisi che non ho fatto alle persone a cui voglio bene solamente perché la mia vita non andava come volevo, e tutte le volte che non sono riuscita a capire i pensieri di chi cercava di comunicarmeli con gli occhi.
Fiammetta

Caro professore,
Durante la vita, secondo me, uno solo è il rimpianto, ovvero quello di non godersi i pochi istanti che si passano in serenità con le persone che si amano. Infatti la vita è corta e bisogna amarla e goderla al massimo. Il rimpianto è un’emozione che crea nel nostro cuore una sensazione di tristezza che male accompagna la gioia della vita.
Federico



Cari Fiammetta e Federico,
Così scriveva il grande filosofo francese Montaigne: “Qualcuno si duole, più che della morte, del fatto che essa gli interrompa il corso d'una bella vittoria; un altro, che gli tocchi sloggiare prima di aver maritato sua figlia o messa a punto l'educazione dei figli; l'uno rimpiange la compagnia della moglie, l'altro del figlio, come principali piaceri della sua esistenza. Per il momento io sono, grazie a Dio, in tale condizione che posso andarmene quando a lui piacerà, senza rimpianto di cosa alcuna se non della vita, se mi peserà la sua perdita. Mi vado staccando da tutto; ho preso congedo per metà da ognuno, eccetto che da me stesso. Mai uomo si preparò a lasciare il mondo più nettamente e completamente, e se ne distaccò più universalmente di quel che io mi accingo a fare” (Montaigne, Saggi, I).
Per non soffrire, il filosofo insegnava dunque a considerare le cose gradualmente con maggior distacco. Ma vediamo ora che cosa intendiamo quando parliamo di rimpianti.
Il rimpianto è legato al desiderio, e ha a che fare con un desiderio rivolto al passato. Di solito riteniamo che la caratteristica del desiderio sia l’apertura al futuro. E, quasi sempre, a ragione. Infatti si desidera per ottenere qualcosa che non si ha (una bicicletta nuova, un lavoro, una vita ricca di relazioni autentiche), ma anche per diventare ciò che ancora non si è (un pasticcere, un artigiano, un medico). Il desiderio ha a che fare con il campo della pura possibilità: si desidera in vista di un fine. Guardando al futuro, immaginiamo un campo di possibilità ancora aperte. Anche se le possibilità non sono (mai) illimitate - perché ogni persona è sottoposta a condizionamenti personali, culturali e sociali che riducono lo spettro delle opportunità future -, le strade da percorrere che si possono immaginare rimangono ancora tante. Occorre tener conto, però, che anche i desideri rivolti al futuro possono essere irrealizzabili o utopistici. Allora perché i desideri rivolti al passato (i rimpianti) sono più dolorosi di certi desideri rivolti al futuro (verso possibilità che riteniamo impraticabili)?
Nel divenire della nostra vita, nel formare quello che siamo, ci tormentiamo maggiormente per le alternative del passato non più percorribili (tutte le giornate di sole che ho trascorso chiusa al buio a compatirmi), piuttosto che per quelle future che presentano caratteristiche analoghe. Rimpiangiamo di non aver fatto la scelta giusta nel lavoro, negli affetti, nelle amicizie. Oppure rimpiangiamo di non aver fatto una certa scelta “al tempo giusto”. Già, il tempo. Perché il rimpianto è strettamente legato al fluire tempo. Poiché è nel tempo che costruiamo la nostra essenza (ossia stabiliamo ciò che siamo), sappiamo che ogni scelta, almeno ogni scelta importante, orienta la nostra vita in una direzione o in un’altra: posso diventare un artista, un padre di famiglia; appartenere ad un gruppo religioso o politico, oppure ad un altro. Tutto dipende da una serie di valutazioni. Il ricordo della nostra condizione mortale ci manifesta però una sorta di impossibilità strutturale: non possiamo modificare il passato, e dunque non possiamo modificare (almeno complessivamente) ciò che siamo. Però il passato non è più il regno della possibilità: le decisioni adottate, le parole dette, hanno inevitabilmente generato conseguenze. Anche le omissioni generano ripercussioni nelle relazioni (tutti i sorrisi che non ho fatto alle persone a cui voglio bene). Le conseguenze appartengono al regno della realtà e non più a quello della pura possibilità. Assomigliano all’acqua in cui il pittore intinge il pennello che si modifica quando è sfiorata da un colore. Hanno pertanto generato modifiche in noi e nei nostri rapporti. Non si può fare come se non fosse accaduto nulla: ogni gesto concretizzato o omesso ha determinato variazioni nella vita. Mentre le possibilità future – quelle per noi impraticabili - non hanno ancora influito sulle nostre relazioni reali, le scelte o le parole dette o non dette hanno già generato degli effetti ben visibili, di cui spesso ci riteniamo responsabili. E se ciò che siamo al presente non ci soddisfa, siamo propensi a credere che se avessimo fatto altre scelte, il nostro stato attuale sarebbe più felice. Per questo soffriamo. Quando pensiamo al futuro, anche se siamo consapevoli che non tutto ci è permesso, sappiamo che il futuro ci offre sempre la speranza di diventare altro da ciò che siamo, per abbandonare la condizione di vita del momento; se ci confrontiamo invece con quello che avremmo potuto essere, allora sentiamo l’angoscia per l’impossibilità (reale) di essere (stati) diversi. Questa angoscia per quello che avremmo potuto essere e non siamo provoca il rimpianto. Non posso rifare un altro tipo di scuola (in ogni caso la farei ad un’altra età e dunque mi relazionerei in modo diverso ai compagni e agli insegnanti). Non si torna indietro. Il rimpianto allora deriva dalla consapevolezza dell’irripetibilità del tempo, dalla sua irreversibilità. La domanda che risuona nel rimpianto è: se avessi fatto questa scuola, se avessi studiato musica, se avessi studiato le lingue, se mi fossi sposato giovane, se non mi fossi sposato. Il modello è: “se avessi…, oggi sarei”. L’impossibilità di essere altro - l’impossibilità di tornare indietro -, genera sofferenza. Fino a quando sentiamo vibrare dentro di noi un ventaglio di alternative possibili, di progetti realizzabili, avvertiamo meno l’irreversibilità del tempo e l’immobilità della nostra vita. Quando mettiamo a nudo le possibilità sfumate ci sentiamo prigionieri di una certa condizione, che di solito viviamo in modo doloroso.
È giusto avere rimpianti? Penso che fantasticare alternative possibili alla nostra vita sia un percorso dell’immaginazione interessante. Credo, però, che vivere proiettati nel passato sia poco salutare. È come desiderare l’impossibile. O avere a che fare con la follia (desiderare che ciò che è stato non sia stato). È come pensare che se avessi avuto altri genitori, se avessi avuto altri insegnanti, se fossi vissuto altrove, se avessi amato quella persona oggi sarei diverso (migliore). Questo modo di ragionare, però, può paralizzare l’azione. Se vogliamo modificare il passato non possiamo agire su di esso, ma solo sul presente. Per questo è importante l’attività. Se abbiamo sbagliato, possiamo modificare la relazione oggi, con il nostro impegno e la nostra volontà.
Un caro saluto,
alberto

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