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Cor-rispondenze

lunedì 22 novembre 2010

Sepideh Rouhi a Bra







Cara Sepideh, racconta la straordinaria esperienza che hai vissuto in questi anni, traducendo dal farsi un’opera così importante e impegnativa.

Nell'estate del 2007 mi trovavo in vacanza in Iran con i miei genitori. Perché io sono iraniana, e con la mia famiglia trascorro quasi tutte le estati le vacanze a Teheran dove ho i nonni. L'autrice del libro è un'amica di vecchia data di mia madre. Un giorno le fece una proposta. Durante una conferenza organizzata in difesa del libro (Quello che mi spetta), a cui avevano preso parte molti giornalisti da tutto il mondo, le si era avvicinato un giornalista italiano del Corriere della Sera che le aveva proposto di consegnare le prime cento pagine tradotte del libro in Italia per poi considerare eventualmente se pubblicare l'intera opera. L'autrice, sapendo che mia madre viveva da più di vent'anni in Italia, le propose se voleva questa traduzione. Mia madre le rispose un po’ interdetta che la traduzione non era propriamente il suo lavoro. Ma l’autrice insistette perché traducesse con il mio aiuto, perché credeva che, insieme, saremmo riuscite a portare a termine questo piccolo lavoro di traduzione di cento pagine.

Interpretavate la storia insieme, dunque.

Traducemmo un po’ tentennanti. Impiegammo quasi una giornata per tradurre la prima pagina, poi proseguimmo il lavoro nei giorni seguenti. Impiegammo due settimane per completare il lavoro e poi consegnammo le prime cento pagine direttamente all'autrice che le affidò al suo editore affinché le trasmettesse in Italia. Poi non sapemmo più nulla.

E la vostra traduzione piacque alla Garzanti?

Sì, accadde poi che la traduzione piacque moltissimo. La Garzanti editore, la casa editrice che aveva proposto l'acquisto dei diritti del libro, disse che avevano già i loro traduttori dal farsi (iraniano) e che avrebbero successivamente contattato la scrittrice per firmare il contratto.

Le case editrici nazionali hanno già dei traduttori a cui affidano sia la valutazione delle opere sia l’incarico di tradurre. Così l’opera venne accettata in Italia, ma a voi venne sottratto l’incarico di proseguire.

Rimasi male, perché mi era affezionata al lavoro. A 16 anni mi ero sentita molto importante. Alla fine poi non detti più tanto peso, e quasi me ne dimenticai perché non se ne parlò più.
Finché sei mesi dopo - ero in classe -, un giorno che non dimenticherò mai perché c'era il compito di scienze e, proprio mentre la professoressa stava consegnando il foglio – mi ero dimenticata di spegnere il cellulare -, il cellulare cominciò a squillare ad altissimo volume (suoneria tamarrissima). La professoressa mi fulminò con lo sguardo e disse: “guarda, faccio finta di niente, ma spegnilo”. Senza guardare il mittente e la chiamata spensi il cellulare e poi non lo guardai più. Tornata a casa mi ricordai di riaccenderlo e trovai un messaggio nella segreteria. Caso volle che quel giorno non avessi abbastanza soldi per ascoltare il messaggio, quindi aspettai il pomeriggio per effettuare la ricarica. Feci la ricarica e mia madre in macchina mi chiese: “ma allora chi ti ha chiamato questa mattina?”. Ascoltai il messaggio: era l’editor della Garzanti editore che, presentandosi, ci chiedeva un colloquio urgente presso gli uffici della Garzanti la settimana successiva. Rimasi di sasso. Non parlai più. Mia mamma che era al volante cominciò a guardare, si voltò e mi disse: “ma è successo qualcosa di grave?… Non dirmi che vinto l'ennesimo concorso per conoscere i tuoi cantanti preferiti, perché io non ti porto più fino a Milano”. Io le dissi: “no, no, no, è un’altra cosa. Ci hanno contattate per una traduzione”. Mi misi a urlare, e anche lei cominciò ad urlare. Fece una frenata improvvisa, e per poco non facemmo un incidente. La settimana dopo ci recammo presso gli uffici della Garzanti editore.

Ma che cosa accadde quando i responsabili si trovarono di fronte una ragazzina di 16 anni?

Rimasero spiazzati, perché si aspettavano che fossi giovane, ma non che avessi 16 anni. Pensavano al massimo che avessi 25 anni. Incominciammo la traduzione nel febbraio del 2008 e finimmo nel settembre dello stesso anno. Dopodiché il libro uscì nel marzo di quest'anno, così ho avuto la possibilità di presentarlo all'esame di Stato, dov'era presente il professor Alberto Lusso come commissario esterno di Storia e Filosofia; ed è così che ci siamo conosciuti ed è per questo motivo che io sono qui.

Quanta parte c'è di verità e quanta parte è frutto di invenzione nella storia narrata nel libro?

È tutta verità. Gli episodi che accadono alla protagonista (Masumeh) sono tutti veri, realmente accaduti. La scrittrice, che è una psicologa, aveva deciso di fare una serie di ricerche su alcuni gruppi particolari di donne: quelle cresciute in famiglie iraniane tradizionaliste nel periodo della rivoluzione, e quelle che si videro strappare via i figli nel periodo della guerra tra Iraq e Iran.
Fece la ricerca, intervistò moltissime donne, e si documentò. Nel momento in cui pubblicò il proprio studio si rese conto che si trattava semplicemente di una serie di dati freddi e di numeri che poi sarebbero finiti su un qualsiasi scaffale dell'Università di Teheran. E allora decise di trasferire tutti i dati in un racconto e di raccontare la situazione della donna sotto forma di storia, raccogliendo tutte queste vicende in un personaggio che si chiama Masumeh, la protagonista del romanzo.






(I parte)….continua


Emanuele Forzinetti, Il Corriere di Bra, Cherasco e Sommariva, Martedì 23 novembre 2010, p. 11.



Fiorella Avalle Nemolis, Bra oggi, Martedì 23 novembre 2010, p. 10

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