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Cor-rispondenze

martedì 25 dicembre 2012

Casa famiglia


Caro professore,
Circa una settimana fa, parlando con un mio amico i cui genitori hanno creato una casa famiglia, mi sono sorti diversi dubbi e tante domande. Fin da piccola sono stata abituata a vedere la mia famiglia come una "cosa" solo mia, diventando gelosa nei momenti in cui le attenzioni non ricadevano tutte su di me. Entrando nell'argomento gli ho chiesto cosa provava nel dover condividere la casa e i suoi genitori con persone estranee, ma lui con molta semplicità mi ha risposto che noi siamo fortunati ad avere qualcuno che ci ama ed è giusto dare la possibilità anche a questi bambini. Mi sentivo atterrita, ma ho continuato con le mie domande per più di un ora e adesso il mio dubbio è: sono egoista nel non voler condividere con gli altri la mia famiglia o è un pensiero di molti miei coetanei?
Elisa


Cara Elisa,
Tolstoj, in “Risurrezione”, riporta questo dialogo: «- Volevo chiederle del bambino. Ha partorito da lei, no? Dov'è il bambino? - Per il bambinello, mio caro, io l'avevo pensata bene. Lei stava troppo male, non si sperava più che si alzasse. E io ho fatto battezzare il bambino, come si deve, e l'ho mandato all'orfanotrofio. Be', perché far soffrire un angioletto, quando la madre sta morendo. Altre fanno così: lasciano il piccino, non gli danno da mangiare, e lui se ne va all'altro mondo; ma io ho pensato: perché far così, piuttosto faticherò, lo manderò all'orfanotrofio. I soldi c'erano, e così ce l'abbiamo portato». Se si leggono i classici, soprattutto dell’Ottocento, o qualche opera di storia (“Storia dell’infanzia”, Dedalo 2002) si scopre immediatamente l’infelice condizione dell’infanzia abbandonata. Ricordo qualche anno fa il titolo di un libro “Nascere senza venire alla luce” (Franco Angeli 2010), un’indagine sugli abbandoni nella provincia di Torino. Il titolo esprime l’idea che per una buona vita non basta nascere, occorre che venga alla luce il mondo che ci ha generato, con gli elementi positivi e le sfaccettature ombrose, mentre sappiamo che molti bambini segregati negli orfanotrofi non hanno visto neppure la luce del sole. In Italia una legge ha decretato la chiusura degli orfanotrofi il 31 dicembre 2006, mentre qualche decennio prima erano già nate le case-famiglia. Capisco che l’esperienza del tuo amico ti abbia sconvolta, perché ti ha messo di fronte ad un’avventura eccezionale, in quanto fondata su una scelta di vita e non sul sangue. Nella storia dell’Occidente siamo passati dalla famiglia allargata, in cui sotto lo stesso tetto vivevano genitori, figli e parenti, alla famiglia nucleare, composta dai genitori e dai figli. Diciamo che la casa famiglia è una nuova famiglia allargata i cui componenti non sono esclusivamente i consanguinei, ma altre persone. È certamente un’esperienza eroica, perché molti bambini abbandonati o sottratti alla famiglia originaria portano su di sé un vuoto che difficilmente si può colmare, ferite lontane che una vita intera non riesce a rimarginare, e il fatto che qualcuno si prenda cura di loro e li accolga impedisce che il senso di quelle vite deflagri. È tuttavia un’esperienza che scardina le aspettative di relazione uno a uno e la centralità di un figlio rispetto all’altro, perché la relazione non determinata dal legame di sangue è retta esclusivamente da una scelta di amore e di responsabilità. Ed è un’avventura difficile per tutti i componenti della famiglia. Si tratta di un cammino graduale di persone che imparano a conoscersi e ad accogliersi, tra accettazione e paura, generosità e timori. Il fatto che il tuo amico abbia risposto «con molta semplicità», significa che ha avuto il tempo di essere preparato per vivere quell’esperienza nel modo giusto, ossia ha maturato la convinzione che si può essere amati in modo esclusivo senza escludere gli altri. Non sentirti in colpa o egoista, nessuno da solo può reggere una situazione che eccede la propria comprensione e il vissuto collaudato. Occorre molta preparazione per affrontare una condizione così particolare. La psicologa Anna Oliverio Ferraris nel libro “Il cammino dell’adozione” (RCS 2002) scrive: «Il cammino dell'adozione ci ricorda che non esiste la famiglia perfetta: ciò che conta sono i rapporti tra le persone, nel rispetto dei punti di vista diversi, dei tempi, dei sogni e delle realtà di ciascuno». Ammiriamo, tuttavia, chi è in grado di allargare i propri orizzonti, perché ci insegna che l’amore dato a due persone non è la metà di quello dato a una.
Un caro saluto,
alberto

pubblicato in parte su «La Guida», venerdì 21 dicembre 2012

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