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Cor-rispondenze

lunedì 10 febbraio 2014

E se Pascal si sbagliasse?


 
Caro professore,
sono rimasto piacevolmente impressionato dalla riflessione matematica di Pascal riguardo la scommessa sul credere o meno nell’esistenza di Dio. Il ragionamento appare perfetto, eppure mi è sorto immediatamente un dubbio che molti classificherebbero come irrazionale: chi ci dice che non vi sia la possibilità che la vita oltre la morte sia data a colui che in vita decide di non credere nell’esistenza di Dio? Chi ci dice che tale vita non sia affidata a coloro che in vita decisero di non affidarsi a qualcosa di dubbioso e incerto (l’esistenza di Dio), ma di affidarsi alla concretezza della vita sulla Terra? In fondo nessuno può dire che questa mia semplice teoria possa essere del tutto sbagliata in quanto nessuno è mai potuto tornare dal regno dei morti. Questa mia considerazione non esclude l’esistenza di Dio, semplicemente pone Dio come elemento che premia coloro che in vita si sono affidati alle loro possibilità di uomo e non a coloro che hanno utilizzato Dio come appoggio o pretesto in vita per non agire al massimo delle proprie potenzialità.
Andrea, 4F

Caro Andrea,
Quando Gesù dice: «Non chiunque mi dice: “Signore, Signore”, entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio» (Mt. 7, 21), intende che Dio guarda al sodo e non alle parole; pertanto, la tua domanda non è affatto irrazionale. Penso che si possa dividere in due questioni: 1) è morale il comportamento di chi agisce per ottenere una ricompensa o la vera moralità consiste nell’agire esclusivamente operando il bene senza attendere gratificazioni presenti o future? 2) Gli uomini non usano talvolta Dio come pretesto per non impiegare a fondo le proprie potenzialità in questo mondo? La prima. Kant ci aiuta, perché quando parla dei “moventi” delle azioni (Critica della ragion pratica, cap. III) distingue tra “legalità” e “moralità”. Se interrogato in un processo dico la verità, perché temo di essere scoperto o se dico la verità perché ritengo sia un dovere non mentire, in entrambi i casi i miei interlocutori ascolteranno dichiarazioni autentiche, ma le due azioni non possono essere considerate entrambe “morali”. Nella prima ipotesi, il mio comportamento si basa sul “semplice” (si fa per dire) rispetto della legge (legalità) e non deriva dall’autonomia di giudizio e dall’intenzione di fare ciò che è razionale. In questo senso, quando l’uomo agisce in vista di un premio, secondo Kant fa ancora riferimento ad una morale “eteronoma”, ossia fonda il movente della propria azione sull’autorità di altri (l’educazione, il sentimento, le norme civili, la volontà di Dio) e non sulla propria autonoma e libera scelta. E la morale cristiana? Kant scrive che «il principio cristiano della morale non è teologico (quindi eteronomo), perché la «la morale fa della conoscenza di Dio e della sua volontà la base non di queste leggi [della legge morale], ma solo della speranza di pervenire al sommo bene alla condizione di osservare tali leggi». Dio non è quindi il movente delle azioni  – il movente è la ragione –, ma per l’uomo che segue la morale, diventa lecito “sperare” in Dio. La seconda parte della domanda dà per scontato che talvolta Dio sia una via di comodo per non impegnarsi troppo nel proprio tempo. Certo, non mancano le riflessioni di coloro che sottolineano che si usa Dio in modo troppo comodo – potremmo dire che gli uomini «nominano il nome di Dio invano» –, quando rinunciano a capire o ad agire, o utilizzano Dio come “tappabuchi” (“Luckenbusser”), come scrive Dietrich Bonhoeffer  in “Resistenza e resa”. Ma è altrettanto vero che molte persone proprio in riferimento a Dio vivono una vita particolarmente attiva nel mondo. Quindi Dio può sia essere un alibi per rinunciare al cambiamento (alcuni filosofi dell’Ottocento hanno messo in luce questo aspetto), sia una fonte di ispirazione al bene. In un articolo scritto per il «Financial Times» nel 2012 Benedetto XVI scriveva che i cristiani «combattono la povertà perché riconoscono la dignità suprema di ogni essere umano creato a immagine di Dio» e che hanno il dovere di prendersi cura «dei più deboli e dei più vulnerabili». Nell’enciclica “Caritas in veritate” (2009) scrive ancora che «L’amore – «caritas» – è una forza straordinaria, che spinge le persone a impegnarsi con coraggio e generosità nel campo della giustizia e della pace». E più avanti afferma che «responsabilità e impegno» derivano dall’amore che è il presupposto del cristianesimo. C’è un vivere cristiano che è pienezza di vita e impegno profondo nel sociale motivato dalla consapevolezza che l’insegnamento del Vangelo sollecita la ragione a scoprire la legge morale, nella “speranza” che, osservandola, gli uomini possano «pervenire al sommo bene».
Un caro saluto,
Alberto

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