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Cor-rispondenze

lunedì 31 marzo 2014

Perseverare nei sogni



Caro professore,
Tutti quanti nasciamo con l’idea di voler vivere una vita che non sia mai monotona, di poter fare per sempre ciò che realmente ci appassiona. Nasciamo col desiderio di poter cambiare le cose, cambiarle in meglio. Fin da piccoli ci abituiamo a coltivare un sogno che spesso sembra poco probabile o molto difficile da realizzare. Crescendo ci lasciamo trasportare da infinite variabili esterne che ci fanno perdere la voglia di crederci fino in fondo. «Tanto ci riesce una persona su un milione», «figurati se fila tutto liscio»; la nostra testa si riempie di dubbi, basta poi qualcuno che aggiunga ulteriore diffidenza ed ecco che tutto rischia di crollare. Se davvero dobbiamo raggiungere un obiettivo non dovremmo mai ascoltare queste voci. Ho visto tanti sognatori restare tali senza capire che sognare non basta più. A me sognare non potrà mai più bastare. Quello che voglio fare è realizzare. Si sa, se si vogliono raggiungere cose che agli occhi di tutti sono difficili, bisogna essere disposti a dare tutto senza fermarsi, e crederci sempre. Noi giovani spesso cominciamo qualcosa e dopo poco tempo lasciamo perdere. Tutto questo perché non sempre siamo in grado di motivarci, non sempre capiamo che è necessario fare dei sacrifici e fare cose che gli altri non sarebbero disposti a fare. Perché non si è più disposti ad inseguire un obiettivo, un sogno, fino alla fine? Insomma, essere disposti a pagare il prezzo che ogni desiderio possiede?
Chiara, 3F
 


Cara Chiara,
La tua lettera è piena di forza e di concretezza: «Sognare non basta più», «A me sognare non potrà mai più bastare». Dici bene: lo sguardo fluttuante, la discontinuità della direzione, gli inevitabili dubbi, il sospetto – anche in buona fede – che proviene dalle persone care, la casualità degli eventi rendono incerti i progetti più arditi o più personali. Confidare nelle proprie idee è pertanto indispensabile, ma per realizzare i propositi è essenziale una forza che gli antichi chiamavano perseveranza. Per dar vita ad un sogno non è sufficiente richiamare l’attenzione su di sé o su un ipotetico progetto incantatore. Seneca, ad esempio, avvertiva Lucilio di stare attento e di evitare coloro «desiderano non progredire, ma farsi notare». Alcune persone sono incapaci di gestire la propria rotta e sono piuttosto trascinate inavvertitamente dalla corrente. Scrive il filosofo: «Pochi sono quelli che regolano se stessi e le proprie azioni secondo un progetto: gli altri, come le cose che galleggiano sui fiumi, non avanzano, ma vengono trasportati; fra questi, alcuni sono trattenuti da un’onda più leggera e spo­stati con più dolcezza, altri sono trascinati da una più violenta, altri sono deposti vicino alla riva da una corrente che si illanguidisce, altri sono gettati in mare dall’impeto delle acque. Perciò, dobbiamo determinare che cosa vogliamo, e per­severare in tale proposito» (Lettera 23, 8). «Determinare cosa vogliamo» e «perseverare» significa che è necessario non solo chiarire a se stessi un obiettivo, ma confermarlo nel tempo; rimanere fedeli a un proposito che si è originato da una passione o da una motivazione intima, senza eccessivi indugi, coscienti che la dedizione implica necessarie rinunce. Seneca sosteneva che la differenza tra il proprio lavoro e quello di altri uomini non consisteva nelle sue presunte maggiori abilità, ma nella disponibilità a lavorare con continuità alla propria opera; considerava dunque la regolarità nell’attività ordinaria come il proprio vantaggio. Quando, considerando la propria vita, valuta se, nonostante tutte le difficoltà, la strada della perseveranza abbia dato i suoi frutti, egli afferma che, se potesse ricominciare una nuova infanzia, impiegherebbe probabilmente soluzioni analoghe a quelle adottate nella realtà. Per questo egli invita spesso Lucilio ad essere forte. In questa instancabile esortazione leggiamo dunque l’invito a non capitolare facilmente al primo refolo di vento contrario: in fondo il perseverante è colui che è in grado di sopportare, ossia di portare su di sé, la fatica. Tommaso d’Aquino, nella “Summa Theologica”, insegna che chi persevera nei propri obiettivi, ha raggiunto un buon equilibrio nel dominare le proprie azioni e afferma che i vizi che si oppongono alla perseveranza sono la «mollitia» e la «pertinacia». Come un materiale molle cede facilmente al tatto, l’uomo molle è colui che non riesce a resistere a nulla: una leggera pressione o una minima difficoltà sconvolgono i suoi propositi. Poiché Tommaso è lungimirante (anticipa il nostro tempo), ricorda che la «mollezza» deriva anche dall’abitudine al piacere facile; egli scrive infatti che «quando uno è abituato ai piaceri, difficilmente sa sopportarne la privazione». Al contrario, l’uomo pertinace è colui che si ostina irragionevolmente a perseverare in un’attività anche se i risultati gli sconsiglierebbero di farlo. Quando uno agisce contro le evidenze contrarie, può sviluppare un attaccamento eccessivo che gli può cagionare sofferenze inutili. Quindi, a patto di non compromettere la propria salute, credo che «bisogna essere disposti a pagare il prezzo che ogni desiderio possiede». Anche Seneca ti avrebbe dato ragione e ti avrebbe sostenuta; egli era convinto – come te – che «gran parte del progres­so consiste nel voler progredire» (Lettera 71, 36).
Un caro saluto,
Alberto


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