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Cor-rispondenze

lunedì 12 ottobre 2015

Essere la felicità di qualcuno



Caro professore,
mi hanno sempre detto che “sbagliando si impara” e adesso ho capito che è veramente così…si sbaglia ed è normale, capita; fa male quando capisci di non aver fatto la cosa giusta, di esserti comportata non come si dovrebbe…la verità ti si scaglia davanti e ti fa rimanere senza parole. Mi è successo…ma da questo ho capito come le persone che ti vogliono davvero bene, che non ti dimenticano, ci saranno sempre e ti sosterranno. Sto parlando della mia famiglia e dei miei fantastici amici… Ogni giorno capisco quanto la mia felicità dipenda da loro, oltre che da me stessa. Le persone prima o poi si rivelano per quello che sono, perciò bisogna stare anche molto attenti a fidarsi delle persone giuste, quelle che nonostante tutto non ti deluderanno mai, quelle che desiderano solo il meglio per te e non sono gelose, non ti sminuiscono…Insomma, abbiamo bisogno di avvicinarci alle persone che ci rendono felici. Un abbraccio, una parola, un sorriso inaspettato, un messaggio che ti fa sorridere…Sono queste le cose belle della vita. La mia domanda è: nella vita la vera felicità è essere la felicità di qualcuno?
Carlotta, ID

Cara Carlotta,
Di solito ci chiediamo che cosa ci rende felici e se possiamo trovare la chiave della felicità: se riusciremo a governare questo meraviglioso stato d’animo e a riprodurlo autonomamente. Il filosofo Arthur Schopenhauer, ragionando sul tema, aveva proposto di considerare questa ripartizione: «Ciò che uno è, […] ciò che uno ha e […] ciò che uno rappresenta (Vedi in “Parerga e paralipomena” gli “Aforismi sulla saggezza della vita”, 1851). Egli affermava che la maggior parte degli uomini è convinta che la felicità dipenda da ciò che uno possiede o dalle opinioni degli altri (onori e fama), mentre secondo l’autore per essere felici occorre badare soprattutto a ciò che uno è, ossia alle qualità intrinseche dell’individuo (personalità, temperamento, formazione). Fin qui nulla da obiettare: è un suggerimento che si radica negli insegnamenti antichi del mondo orientale o di quello greco-romano sul modo di concepire la saggezza. Mi pare che tu faccia notare un’altra dimensione della felicità: quella che deriva dalla relazione. Questa non è riducibile all’autosufficienza dello stoico e tuttavia non è mai del tutto nelle nostre mani, infatti essa addirittura la precede e la rende possibile. È molto bella l’idea di «essere la felicità di qualcuno», perché specchiati nell’entusiasmo dell’altro anche noi diventiamo felici e dagli sguardi accoglienti traiamo benessere e forza. Quale nipotino non gioisce per l’entusiasmo dei nonni, quale amato non è conquistato dall’amore dell’amante («la stessa identica fiamma bruciava due cuori», scriveva Ovidio). Un figlio avverte la felicità dei genitori, un ragazzo sente il calore dei compagni, un insegnante che ha creato un buon rapporto con gli studenti è felice di entrare in classe perché si sente rispettato, così come uno studente che viene valorizzato intuisce che la propria felicità passa da quel riconoscimento. Sì, ognuno di noi sa che la propria felicità “dipende” dagli altri oltre che da sé. Ma è giusto collocare il baricentro della felicità nell’altra persona e non su se stessi? In fondo non dobbiamo lavorare con lo scopo esclusivo di assecondare la felicità degli altri, perché potremmo dimenticare di prenderci cura dei nostri bisogni e di coltivare i nostri progetti. Potremmo non diventare mai autonomi perché rincorriamo gratificazioni esterne. Gli antichi ci hanno infatti ammonito a non riporre la nostra felicità sugli umori o sulle opinioni altrui. Ma in che senso dobbiamo allora intendere il verbo “dipendere”? Se intendiamo dipendere come essere sottomessi all’autorità dell’altro o da essa determinati, allora è chiaro che la felicità si dilegua, perché non siamo più gli artefici della nostra vita. Se intendiamo dipendere non nel senso di subire, ma nel senso di derivare, allora sentiamo che non siamo più ostaggio dell’altro, ma che grazie alle relazioni si origina la felicità. Il tuo ragionamento ci fa fare un passo in avanti. Hai capito che non c’è soggetto senza un’alterità che lo attiva. Ricordi la storia di Narciso ed Eco? Narciso è il giovane destinato ad una lunga vita («Si se non noverit») «purché non incontri se stesso» e Eco, «la ninfa fatta di voce», è colei che «non sa tacere se uno parla / né parlare per prima». Trovo molto bella  e opportuna l’interpretazione del filosofo Umberto Curi (Miti d’amore. Filosofia dell’Eros, Bompiani, 2009), il quale scrive: «Mentre Narciso è preso nella rete della pura identità ed è toccato soltanto dal suo proprio riflesso privo di sostanza, Eco è la mera alterità ed è ella stessa soltanto un riflesso privo di sostanza. Egli è troppo posseduto dal suo proprio io per poterlo dividere con altri, mentre lei non ha un proprio sé da poter condividere con altri». E più avanti scrive che: «Solo riconoscendo l'altro, l'identico può esprimere la propria identità; solo conservando la propria identità, l'altro può affermare la propria alterità». Se l’altro è necessario per generare l’identità significa che non c’è mai autosufficienza completa. Avvertire di essere la felicità di qualcuno consente di maturare l’identità e di esplorare le potenzialità individuali. Non siamo felici perché soddisfiamo le aspettative altrui, ma perché riconosciuti e amati dall’altro possiamo comprendere a fondo i nostri bisogni e percorrere un sentiero tracciato da quel desiderio che più ci costituisce.
Un caro saluto,
Alberto
 

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