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Cor-rispondenze

lunedì 1 febbraio 2016

Come ci perdoneremo?



 File:Majdanek hek.jpg

Caro professore,
Mi porto nel cuore una domanda che da molto tempo non trova risposta, nascosta dal timore di non essere compreso. Sono giunto a credere di essere colpevole del peggiore dei crimini, quello di essere uomo, quello di essere vivo. Guardando con i miei occhi l’apice della malvagità umana, dopo aver visitato il campo di concentramento di Dachau e pensando a ciò che è avvenuto lì e soprattutto nelle pianure polacche, così silenziose, abbandonate dal tempo, mi sono trovato inghiottito non dalla pena, non dal rancore, ma dall’odio. Un odio che si è scagliato, contro i carnefici, certamente, ma anche contro me stesso. Una sensazione che mai avevo provato in anni di letture sulla Shoah. Per il semplice fatto di essere testimone di tanta atrocità, di essere vivo al cospetto delle “fabbriche di morte”,  mi sono sentito investito dei crimini della razza ariana, perché in fondo che diritto ho io di essere spettatore, senza merito, e non vittima? Il vero problema dei campi di sterminio consta nel fatto che ciò che avvenuto è un crimine di uomini, non di demoni, contro l’umanità, e in quanto uomo mi sento coinvolto, contro la mia volontà e contro ogni tentativo di razionalizzare la cosa, dalla malvagità di questa specie. E di fronte alla follia di questo “migliore dei mondi possibili” non riesco a perdonarmi. Dunque le chiedo: come ci perdoneremo?
Filippo, VB


Caro Filippo,
La visita diretta ai campi di concentramento o di sterminio rende ancora più insopportabile ciò che già si conosce sulla Shoah. Pervasi da un senso di orrore e di impotenza, di rabbia e di disgusto e identificandoci con il dolore delle vittime, sviluppiamo empaticamente sensi di colpa e di vergogna. Avvertiamo che è accaduto qualcosa di terribile e di imperdonabile che non avrà espiazione e comprendiamo di essere «spettatori senza merito». Da dove nascono questi sentimenti per ciò che è successo? Hai provato vergogna perché l’empatia che hai maturato ha potenziato in te la capacità di riconoscere l’oscenità per l’abisso in cui l’uomo è precipitato. E Primo Levi ne “La Tregua” scriveva: «la vergogna che i tedeschi non conobbero, quella che il giusto prova davanti alla colpa commessa da altri». Anche Marco Belpoliti, in un meraviglioso libro su Primo Levi (“Primo Levi di fronte e di profilo, Guanda 2015), ricorda che «chi prova la vergogna è il giusto, e non l'ingiusto; chi assiste impotente al male, e non chi lo commette. La volontà buona è totalmente impotente». Di solito si prova vergogna per essere stati scoperti a compiere qualcosa di socialmente riprovevole, mentre qui il malessere profondo che avverti in te nasce per aver scoperto di far parte dell’unica specie che può eccellere nel male. Così nessuno può sentirsi estraneo, anche se non è stato direttamente coinvolto in azioni nefande, né ignorare una sorta di corresponsabilità che bussa alla coscienza come senso di colpa. Essa ha a che fare con il non aver potuto evitare il male. Quando il filosofo tedesco Karl Jaspers tornò in Germania dopo la guerra riprese nel 1946 le sue lezioni all’Università, tenendo dei corsi che avevano come tema "la questione della colpa". Egli parlava di quattro tipi di colpa: una colpa giuridica (la trasgressione delle leggi di cui si occupa il tribunale), una colpa politica (il modo con cui uno stato governa e che i cittadini condividono), una colpa morale (le azioni individuali che procurano sofferenza) e una colpa metafisica: quella di essere ancora vivi. Scrive infatti Jaspers: «Il fat­to che uno è ancora in vita, quando sono accadute delle cose di tal genere, costituisce per lui una colpa incancellabile». Quest’ultima, provata dai sopravvissuti, ma che ogni uomo avverte di fronte a ciò che è accaduto, è stata definita da Zygmunt Bauman una «colpa senza responsabilità». Egli in “Una nuova condizione umana” [Vita e Pensiero, 2003] afferma che essa «non dipende da un rapporto di causa-effetto tra le mie azioni (o il mio essere passivo) e la sofferenza dell'altro: sono semplicemente colpevole del fatto che un altro essere umano soffra». (O abbia sofferto). In questo senso intuiamo la nostra responsabilità, di essere profondamente implicati con la storia dell’uomo e che dovremo sempre rispondere di fronte al male. La questione del perdono è anch’essa complessa: se non siamo direttamente colpevoli, ma solo indirettamente e come specie, della sofferenza di qualcuno, come ci possiamo perdonare? Il perdono può essere esterno o interno. Ci sono criminali che non sono stati perdonati per i propri misfatti e che nella loro coscienza invece si autoassolvono con leggerezza, negando persino di avere recato delle offese; così come ci sono persone che, pur perdonate dalla persona ferita o senza aver commesso realmente del male, non riescono interiormente a perdonarsi. Non abbiamo bisogno di un perdono esterno, perché non siamo direttamente responsabili di fatti riprovevoli, ma proviamo vergogna – di fronte all’orrore, anche se compiuto da altri – e colpa – per un male che sappiamo inemendabile –, pertanto non ci possiamo né colpevolizzare né assolvere del tutto. Per questo il ricordo diventa un dovere morale, nel senso letterale di recordare, ossia reimmettere nel cuore, perché, come riportava il titolo di un libro pubblicato nel 1954 dall'ANED,  l’associazione degli ex deportati, potremmo dire che solo «L’oblio è colpa».
Un caro saluto,
Alberto

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